«l'Intellettuale Dissidente»: Drieu, o il Novecento decadente

Pierre Drieu La Rochelle
2016-02-10 14:19:16
«l'Intellettuale Dissidente»: Drieu, o il Novecento decadente

Drieu è il Novecento. Bisogna esibirlo con questo criterio altrimenti il rischio è quello di circoscriverlo in ambito ristretto. Il secolo dei grandi ideali regrediti in ideologia; dello svelamento del nichilismo e della consapevolezza che nulla potrà cambiare se non l’ordinaria narrazione. Quello in cui il progresso satura la trama della modernità con tutta la sua dirompente forza ma che, allo stesso tempo, mette all’angolo l’umanità con metodi genuinamente eversivi. L’uomo ridotto ad ingranaggio non avrà infatti più nulla da aspettarsi perché tutto è già dato. Un meccanismo collaudato nelle due guerre ma adoperato nella vita quotidiana grazie all’intreccio tra mobilitazione totale e viluppi della civiltà borghese che modifica e demistifica per sempre l’idea di progresso. Totalitarismi e democrazie, ateismi di Stato e scontri di civiltà, materialismo e capitalismo; tutto finisce nel calderone di un secolo di cui Drieu è un figlio ribelle; artista con una inquietudine quiescente, che vendica il proprio onore anche aderendo ad una estetica che fa del dandismo una potente arma comunicativa.

La sua testimonianza è quella di tanti che cedono ad un velato nichilismo; credono nelle rivoluzioni nazionali fasciste e si abbandonano alla delusione per ogni forma di nuova civiltà democratica e liberale. Il libro pubblicato da Bietti, Stato civile, un’autobiografia, è una biografia ma ‘letteraria’, nel senso che si snoda grazie ad prosa evocativa e non ‘scende’ nei particolari quotidiani pur affrontando temi legati all’amore, alla fede o all’amicizia. Il senso generale è un viaggio nel nulla. Le prime pagine si aprono infatti con lui che ritorna con la mente ai primi tre anni; quando in una sorta di stato amniotico, quasi mitico, veleggia in un tempo oscuro di cui ha però nostalgia. Da lì in poi, inizia il suo confronto-scontro con la realtà che dura tutta la vita e che racconta nei vari paragrafi sempre con tono enfatico e poco aneddotico. Tutta la sua vicenda umana è sintetizzata nelle prime tre righe: «Ho voglia di raccontare una storia. Sarò mai capace di raccontare qualcosa di diverso dalla mia storia? C’era una volta un bambino di tre anni». È tutto lì il suo mondo. Una discesa lenta ma progressiva verso il disfacimento che riemerge ad ondate grazie ad intuizioni e ad innamoramenti artistici o politici, ma che non placa mai l’ansia di quell’Eden perduto. Quei primi tre anni di vita sono una specie di tempo mitico di cui non ricorda nulla se non essenze di purezza. Un rapimento mistico di cui ha percezione ma non memoria. Nessun volto familiare, nessun episodio. Solo un riverbero di un istante puro andato via per sempre. Neppure un flash di un ricordo reale ma solo contagiosa curiosità.

Il libro scorre con la classica prosa di Drieu ma dando la sensazione di una caduta nel vuoto. Considerazioni brevi ma meno dirette (qualcuno direbbe volgari) di un Céline, seppur parimenti laceranti. Se si scarnificano le parole e si entra nel profondo, si può solo rabbrividire. E così, in un angolo si trovano defilati i sogni mentre al centro del proscenio c’è la vita. E non c’è da sorprendersi se Drieu entra nelle cavità più nascoste dell’umano. È uno scontrarsi continuo dell’artista che confronta quel tempo mitico ed oscuro con la banalità del quotidiano; di un cavaliere senz’armi che si imbatte nell’impresa della propria biografia, solo per riconquistare un tempo perduto. Combattimento dissacrante e non rinviabile, contro un nulla che affiora e sovrasta ogni cosa. La scoperta del nichilismo che intravede anche nei momenti belli e fecondi della sua breve esistenza; anche quando elenca il pantheon di personaggi o ambienti mitici, dietro l’angolo c’è sempre angoscia e tormento. Seppur la nomea di dandy, di aristocratico attento alle mode ed alle buone frequentazioni, lo perseguita e ne inquadra la sue vicende personali, resta sul fondo un pessimismo mai velato che chiede aiuto alla scrittura per sfuggire dalla tediosità della vita. Come tanti della sua generazione resterà marchiato dagli ideali ultra-nazionalistici che in Germania, in Francia come in Italia furono affare di molti. E come tanti giganti della letteratura e del pensiero ne subì tutte le conseguenze. La fuga finale dalla vita gli apparve unica soluzione degna.

 

(Luigi Iannone, «L’Intellettuale Dissidente,», 10 febbraio 2016)

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