«il Giornale»: Quando per gli jihadisti la finanza diventa un'arma

Francesco Borgonovo
2016-04-26 10:32:03
«il Giornale»: Quando per gli jihadisti la finanza diventa un'arma

Da una parte, c’è l’impero della finanza, che abbatte ogni confine e mira all’omologazione globale. Il suddito ideale è un consumatore dall’identità incerta.

Via ogni limite, in ogni ambito, tra nazione e nazione, popolo e popolo, maschio e femmina, meritevoli e asini. I sudditi devono essere uguali in ogni angolo del mondo. Multiculturalismo e politicamente corretto sono il grimaldello per abbattere ogni gerarchia. Ma anche l’immigrazione di massa alla lunga contribuirà a creare il cittadino perfetto: apolide, nomade, disponibile come manodopera a basso prezzo.

Dall’altra parte, c’è l’impero dell’islam, che… abbatte ogni confine e mira all’omologazione globale. Già: utilizza gli stessi mezzi dell’impero della finanza ma persegue una finalità diversa. Se l’impero della finanza vuole sottomettere il mondo per concludere affari sempre più remunerativi, quello dell’islam vuole sottomettere il mondo per portare ovunque la vera religione. Il fedele si riconosce in una sola patria, il Corano, e in una sola legge, la sharia. Per questo è difficile l’integrazione delle masse musulmane in Occidente. Per questo, nelle capitali europee nascono quartieri in cui lo Stato sembra essersi dileguato, zone extra territoriali in cui il fondamentalismo mette le radici. Gli abitanti del Vecchio continente, educati al disprezzo di se stessi, non sono in grado di ribattere alle rivendicazioni identitarie delle comunità di immigrati. Si fanno gentilmente da parte arretrando un passo alla volta: dal cancellare il Natale al coprire le statue romane per non offendere la sensibilità dell’ospite musulmano.

Per ora, i due imperi sembrano andare a braccetto: in fondo condividono il metodo. Talvolta poi coincidono: non è detto infatti che l’imperialismo islamico proceda sempre con le armi in pugno. Può anche avanzare sventolando il libretto degli assegni e comprarsi pezzi di città, cattedre universitarie, ricche partecipazioni nelle aziende di Stato, intere aziende in crisi.

Sono queste, in estrema sintesi, le tesi di Francesco Borgonovo, caporedattore del quotidiano Libero, contenute ne «L’Impero dell’islam» (Bietti, pagg. 248, euro 15). L’affilato pamphlet, arricchito da interviste a intellettuali come Renaud Camus e Guillaume Faye, entra ed esce dalla cronaca per collocare le notizie nel più ampio contesto dei mutamenti epocali ai quali stiamo assistendo.

Se oggi esistesse in Italia un dibattito, questo libro farebbe discutere a destra come a sinistra. Alla destra propone una serie di provocazioni azzeccate: fino a che punto una società aperta può aprirsi senza essere travolta? Cosa hanno da dire in concreto i liberali sulle ricadute economiche, sociali e culturali dell’immigrazione? Non saranno, senza volerlo, gli utili idioti dell’impero della finanza? La risposta può essere positiva o negativa. Ma il problema è proprio la mancanza di una risposta autorevole in un senso o nell’altro. Certo: la finanza creativa crea un bel niente e non coincide col capitalismo. Certo: il mercato resta la migliore soluzione per portare crescita e sviluppo nei Paesi da cui fuggono gli immigrati economici. Tutto vero. Ma queste non sono risposte sufficienti ai quesiti posti da una società in rapida trasformazione come la nostra. Un liberale può chiedere a una comunità straniera di assimilarsi o deve rispettare la volontà di creare comunità separate? E può accettare che sia limitata la libertà di spostamento? A sinistra, tutto è più facile: le cose vanno bene così, si corre gioiosamente incontro al disastro. In fondo i socialisti mirano all’uguaglianza, costi quel che costi. Se il prezzo sarà la fine della società aperta, e dunque della libertà, ce lo faranno pagare.

Sarebbe auspicabile un franco confronto su temi come questi. Ma viviamo in un Paese che ha paura di chiamare le cose col loro nome, per eccesso di politicamente corretto. Quindi il dibattito è stato soppresso: di islam e immigrazione si può parlare in un solo modo, e non è quello scelto da Borgonovo. Per un libro come il suo, ne escono trenta di segno opposto, fatti con lo stampino: l’islam è una religione di pace, il terrorismo affonda le radici nelle disuguaglianze, abbiamo bisogno dell’immigrazione di massa, il multiculturalismo è una ricchezza.

Anche questa selezione delle idee in base alla moda (e accettata da quasi tutti per timore di essere espulsi dal novero delle persone perbene) è un aspetto ben raccontato ne «L’Impero dell’islam» e spiega almeno in parte il paradosso cui assistiamo. La civiltà occidentale, chiamiamola così per brevità, partecipa attivamente alla propria estinzione senza chiedersi neppure perché.

 

(Alessandro Gnocchi, «il Giornale», 26 aprile 2015)

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