Béla Tarr. Il tempo del dopo

2015-07-03 06:35:32
Béla Tarr. Il tempo del dopo

Se c’è ancora qual­cosa che possa dirsi asso­luto nel tempo che segue la caduta di ogni pre­mi­nenza meta­fi­sica, que­sto non può che essere lo stile. Flau­bert l’aveva già teo­riz­zato in let­te­ra­tura, ma è nel cinema – se pos­si­bile – che ciò si fa ancora più evi­dente. Qui, infatti, ne va dello sguardo sulle cose, del mondo che guarda il mondo, senza un fuori-del-mondo da dove osser­vare con distacco quanto accade. Con il cinema ciò che è visto ci guarda, e il cinea­sta è colui che, coin­volto, a sua volta coin­volge con la sua opera gli spet­ta­tori nel ger­mo­gliare del visi­bile. O almeno que­sta è la moda­lità asso­luta di uno stile di regia di con­tro a quella rela­tiva che si serve del visi­bile per sot­to­porlo alla sto­ria che di volta in volta si intende rac­con­tare. Regi­sta asso­luto nel senso indi­cato è, secondo Jac­ques Ran­cière, Béla Tarr, cui il filo­sofo fran­cese dedica un breve quanto intenso sag­gio (Béla Tarr. Il tempo del dopo, tra­dotto da Ila­ria Flo­reano per Bietti Heterotopia, con un appa­rato di imma­gini e un’appendice di Ales­san­dro Baratti con­te­nente le schede dei film). E del dopo è certo que­stione in Tarr: dopo il comu­ni­smo, dopo le sto­rie, dopo il rea­li­smo socia­li­sta… Un cinema che fa della durata il suo campo d’azione e pas­sione, per­ché que­sto è «il tempo in cui ci si inte­ressa all’attesa stessa». Non si tratta, allora, né di una ripresa dopo la caduta, né della cata­strofe ormai avve­nuta. Piut­to­sto, è il vuoto dell’attendere senza remis­sione, aperto sulla pro­pria ine­lut­ta­bi­lità. Que­sta è una decli­na­zione della fine sulla quale var­rebbe la pena riflet­tere. Fin dai primi film girati nell’Ungheria socia­li­sta, il cinema di Tarr oppone al tempo pia­ni­fi­cato il tempo vis­suto, e quest’ultimo è fatto di sen­sa­zioni, per­ce­zioni, sen­ti­menti, attese, desi­deri e delu­sioni che si sco­prono come la mate­ria di quell’«arte del sen­si­bile» che è il cinema. Ecco allora i corpi muo­versi in uno spa­zio, e le imma­gini e i suoni di que­ste rela­zioni. Ciò costi­tui­sce un tes­suto tem­po­rale che oppone – è uno dei motivi guida di Ran­cière – le «situa­zioni che durano» al con­ca­te­na­mento di schemi tem­po­rali pre­fis­sati e dei nessi di causa ed effetto tipici delle sto­rie. E tut­ta­via quando – a par­tire dal 1989 – Tarr girerà tutti i suoi film in bianco e nero, dopo aver sezio­nato lo spa­zio e i colori per meglio far risal­tare il caos dei rap­porti umani, non rinun­cerà alle sto­rie. Il suo rap­porto con lo scrit­tore László Krasz­na­hor­kai, dai cui romanzi sono tratti molti film, è indi­ca­tivo in tal senso. Piut­to­sto, la sto­ria che viene rac­con­tata è sem­pre la stessa, quella «di una pro­messa delusa, di un viag­gio che si con­clude al punto di par­tenza». Ciò che resta è il peso cosmico, onto­lo­gico, della legge della ripe­ti­zione senza dif­fe­renza. La piog­gia, la neb­bia e la melma della larga pia­nura unghe­rese, o viste e sen­tite attra­verso i vetri delle fine­stre dei bistrot, con il loro carat­tere insi­stente, rat­trap­pente, spos­sante mostrano la forma ciclica ed entro­pica della vita che costringe e opprime, e che il film riprende; l’inerzia ter­ri­bile delle cose che si «attac­cano» agli indi­vi­dui – come dice uno dei pro­ta­go­ni­sti di Per­di­zione –, occu­pando inte­ra­mente lo spa­zio, cir­con­dan­doli e spin­gen­doli ai mar­gini. Oltre a ciò non vi è nulla da rac­con­tare (su que­sto, forse – su un senso ultimo dato, che pesa come una cappa sullo spet­ta­tore –, ci si aspet­te­rebbe un inter­vento di Ran­cière che invece non c’è). E qui fio­ri­scono i gesti, i bru­sii, le parole sus­sur­rate, i volti, le pic­cole e grandi vicende che legano tra loro gli indi­vi­dui, i tra­di­menti, gli amori, tutto un reale sen­si­bile che dura per un momento più o meno lungo in un gene­rale e irre­pa­ra­bile per­dersi. A que­sta cir­co­la­rità oppri­mente, si oppon­gono i movi­menti degli indi­vi­dui che sono pur sem­pre pieni di «onore e fie­rezza». La dignità degli esseri si afferma nel mar­ciare in linea retta per rea­liz­zare qual­cosa, un’idea, un desi­de­rio, una pro­messa, la voglia di uscire dal già visto e andare verso l’ignoto. Poco importa l’inganno di cui ine­vi­ta­bil­mente cadranno vit­time – la truffa di Iri­miás in Satan­tango che spinge i pae­sani a con­se­gnare tutti i loro denari e a par­tire verso la rea­liz­za­zione di un pro­getto comu­ni­ta­rio che non avrà mai luogo. Ciò che conta è la «pura pos­si­bi­lità di cam­bia­mento» che sem­bra met­tersi in moto ad opera spesso – più o meno diret­ta­mente – di «imbro­glioni, idioti e folli». La scelta del piano sequenza è dun­que indi­ca­tiva della per­dita di un cen­tro per­cet­tivo e della con­se­guente neces­sità di costruire un «con­ti­nuum di modi­fi­che infime con­fron­tate al movi­mento ripe­ti­tivo nor­male». Esso diventa l’«unità di base» del fare cinema, in quanto rispetta «la natura della durata espe­rita al cui interno le attese si fon­dono o si disgiun­gono e radu­nano e oppon­gono gli indi­vi­dui». Da qui la mae­stria dei movi­menti di mac­china di Tarr, le cir­co­la­rità vir­tuali e le zone d’ombra, il bianco e nero sem­pre pre­ciso e misu­rato, l’indifferenza nei con­fronti delle paludi di tempo morto o perso che per­mette di non asso­lu­tiz­zare l’immagine, ma di darle lasco, di rimet­terla a sé in una moda­lità che, a volte, giunge ad aprirsi in modo ina­spet­tato e sor­pren­dente, come la cami­cia stesa ad asciu­gare che diventa una tela di pie­ghe e giunge a occu­pare lo schermo intero ne Il cavallo di Torino. È di que­sto che par­liamo quando par­liamo del cinema di Tarr.

 

Alfonso Cariolato ©il manifesto

giugno 2015

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