Popolo di traduttori...
Marco Cimmino
Gli Italiani, nei confronti degli autori stranieri, hanno una tradizione tutto sommato modesta, ed un approccio complessivamente scialbo: apparentemente, sono un popolo linguisticamente autoreferenziale, filologicamente tetragono al nuovo, applicativamente neghittoso. Insomma, per farla breve, hanno la pittoresca tendenza ad italianizzare la letteratura extranazionale: doppiano i lungometraggi, sottotitolano, modificano, cancellano. Lo fanno, talvolta, con l’antipatica spocchia di chi, provenendo da una civiltà percepita come superiore, traduce dal boscimane qualche filastrocca barbarica: altre volte, pur in assenza di manifestazioni patenti di albagia, tendono a personalizzare l’opera altrui, fino allo strazio e al camuffamento, con risultati, spesso, addirittura offensivi verso gli originali. Così, a seconda delle peculiarità, del grado di empatia o, semplicemente, dello stato d’animo del traduttore, capolavori delle letterature europee o americane vengono intonacati di neorealismo, di smalto cinecittadino o, più frequentemente, banalizzati fino allo stadio di conversazione da bar. È il caso di Baudelaire, che, nelle più comuni versioni italiane, si perde le rime per strada, o di Edgar Allan Poe, cui si attribuisce un piede discorsivo da narratore del romanticismo piemontese. Altre volte, invece, la traduzione risente della personalità, diciamo così, esuberante, del traduttore: Pavese o Quasimodo ci hanno restituito versioni pavesiane e quasimodiane tanto della letteratura d’oltreoceano quanto di quella della Grecia arcaica.
Nel caso di Bukowski, invece, la traduzione non ha tolto quasi mai verve alla prosa divertente e pirotecnica dello scrittore californiano: anzi, semmai vi ha aggiunto del pepe, spesso traendolo dal meraviglioso repertorio gergale e dialettale delle letterature municipali italiche. D’altronde, va detto che la letteratura italiana, soprattutto nelle fasi di peggior conformismo e di più banale produzione seriale, ha saputo generare autori dialettali e popolari dalla straordinaria personalità, capaci di autentici capolavori: il confronto tra la desolante poesia del Romanticismo italiano e quella di un Carlin Porta o di un Belli è, tanto per fare un esempio, del tutto impietoso. Sopravvive anche oggi, nello sfacelo drammatico della nostra civiltà letteraria, qualcosa di questo spirito creativo, popolare, improvvisatorio: pare, però, che questa sopravvivenza sia limitata alla sola categoria dei traduttori. Tanto i traduttori maschili di Bukowski, infatti, come Franceschini o Mantovani, quanto – un po’ inaspettatamente, dati i toni del Nostro – quelli femminili, come Simona Viciani, sono stati capaci di renderci pressoché intatto il piede bukowskiano, se così si può dire. Colpiscono, in quasi tutte le traduzioni più diffuse, l’omogeneità di livello e la fedeltà non tanto all’originale inglese (inglese alla Bukowski, intendiamoci), quanto a questo sfavillante e corrosivo “italo aceto”, che, se non sempre ci restituisce il significato denotativo dei termini o delle forme idiomatiche, ce ne rende, tuttavia, lo spirito e il mood.
Va anche detto che, fatto salvo il concetto di “traduzione ambientale” – ossia un tentativo di rendere l’idea del contesto culturale e stilistico, trascurando, almeno in parte, l’approccio meramente linguistico all’autore –, nel caso di Bukowski la già complessa operazione di traduzione delle variabili e variopinte forme idiomatiche e delle molteplici varianti semantiche della lingua inglese diviene addirittura inutile, più che impossibile. Troppo ciclotimico l’autore, troppo inquinata la lingua, troppo volubili lessico e stile, troppo mimetico il suo stralunato understatement. Troppo ubriache certe pagine, troppo reduci da una sbronza certe altre. Così, tradurre, come si dovrebbe fare in questo caso specifico, l’andamento altalenante e sinusoidale di una prosa basata frequentemente sull’up and down alcolico (o sull’on the stuff, in certi casi limite) diviene operazione ardua: Bukowski rende necessaria una “maniera” bukowskiana, un sistema che lo traduca a prescindere. Il trucco di fondo, sapiente ma abbastanza evidente, è stato quasi sempre quello di assimilare la sua prosa a quella, già largamente modellizzata nelle traduzioni, di Ernest Hemingway e, più in generale, del western brit dei suoi epigoni: gli intercalari slang vengono dunque resi con gli equivalenti recuperati dall’esperienza neorealista e postneorealista (l’uso eccezionalmente efficace dell’appellativo “nino”, ad esempio), con citazioni popolaresche e anche, va detto, con autentici colpi di genio da parte del traduttore.
In un certo senso, l’assoluta originalità di Bukowski rispetto alla tradizione letteraria italiana ha permesso di lavorare su un terreno vergine dal punto di vista della trascrizione e della traduzione, attingendo con una notevole libertà a molteplici territori stilistici e semantici, che vanno dalla goliardia a Pasolini, dalla Macheronea a Goffredo Parise. Ne deriva una piacevole varietà di toni e stili che, in qualche modo, richiama la sostanziale schizofrenia originaria della scrittura di Bukowski, capace di svolte linguistiche inaspettate, variando dal pecoreccio al lirico. Dunque, per quel che concerne chi scrive, il Bukowski delle Cronache, di Post Office e Compagno di sbronze rappresenta una delle letture di origine anglofona più eccezionali dell’intero panorama editoriale nazionale, con punte di autentico godimento.
Lo scrivente, infatti, è stato sempre colpito dalle felicissime ipotiposi del Nostro, traghettate, grazie ad un uso sapiente di punteggiatura e sincopi, nell’idioma di Dante. Stretta, Diobono, stretta! vale, ai suoi occhi, quanto le più fulminanti sintesi dell’Alighieri, come Tu fosti prima ch’io disfatto fatto… E non si legga questa come una dissacrazione: in letteratura non vi è nulla di sacro. Il meccanismo comunicativo è identico: è un’immagine efficace, trasmessa per mezzo di una figura icastica di prim’ordine. Traspare dall’esclamazione bukowskiana la piena soddisfazione di chi, inaspettatamente, trovi un piacere formidabile, laddove immaginava essere soltanto ovvia prolassi dei tessuti e dell’amore: il lettore pare trovarsi lì, in quel momento, a condividere tale soddisfazione, come nel miglior Leopardi, senza nemmeno la necessità di dimostrativi o avverbi ad hoc. Insomma, per dirla con Gadda, una meraviglia increduta.
E che dire delle minigonne a fil di chiappa, che inducono l’abbacinata vittima della polposa esibizione, invariabilmente, a firmarsi l’animaccia sua, mettendosi nelle mani di editori di pochi scrupoli? Un traduttore qualunque non può concepire una traduzione di tale efficacia assoluta: ci vuole una persona che condivida con Bukowski la lascivia del colpo d’occhio, l’emozione della visione, la beffa economica. Oppure, come si diceva poco sopra, un traduttore che padroneggi la “maniera”: che si introduca nei, tutto sommato abbastanza ripetitivi e prevedibili, meandri dell’esibito immaginario dello scrittore (esibito proprio in quanto, a sua volta, “maniera”: quasi volontario marchio di fabbrica), applicando loro questa specie di patois bukowskiano, diventato una sorta di lingua d’uso, di vocabolario specifico.
Ne concludo che in Italia, all’interno di questo universo a sé, fatto di traduttori professionali, si nascondano dei beatnik sopravvissuti al disastro: dei vecchi zozzoni dediti all’alcool e alle più improbabili copule che, nei ritagli di tempo concessi loro dalle estemporanee sobrietà, traducono, con perizia pari all’immedesimazione, le pagine arcane dello straordinario clochard.
In tal caso, dunque, dove siete, emuli ed epigoni? Non vi nascondete. Hemingway si è tirato con un fucilone, Buk se n’è andato altrove a gavazzare: non ci rimanete che voi! Oppure, dobbiamo sospettare che esista un bukowskese: una lingua che non è né italiano né dialetto, ma un gergo costruito più sul personaggio che sulla sua scrittura, tanto efficace da essere divenuto più reale della realtà. Esattamente come accade nel caso dei doppiatori di Pacino o De Niro. In un certo senso, in Italia vengono doppiati anche i libri.