Il mondo visibile non è una realtà, e il mondo invisibile non più un sogno. (William Butler Yeats)
Correva l’anno 1933. Jakob von Uexküll, biologo e fondatore dell’etologia contemporanea, rivoluzionava il concetto di “ambiente” con un breve saggio intitolato Ambienti animali e ambienti umani. Heidegger avrebbe scritto: «Il confronto con le ricerche di Uexküll è una delle cose più fruttuose che oggi la filosofia possa far propria dalla biologia»; Deleuze lo avrebbe studiato, annoverando il biologo estone fra gli spinozisti della contemporaneità, per il suo caratterizzante approccio allo studio della materia vivente – un florilegio di interrogativi, mai pensati per descrivere in maniera obiettiva il soggetto e l’oggetto, bensì per posizionarlo all’interno del suo ambiente di riferimento, e per individuarne le relazioni interne ed esterne.
La «struttura ontologica» di un essere vivente è definibile in relazione al suo «essere-nel-(rispettivo)-ambiente»: quindi, e qui ci prestiamo a qualche semplificazione, la “struttura ontologica” di una formica è definibile in relazione al suo essere formica all’interno di un formicaio. Alla base di questa lettura, è riscontrabile la nozione di un ambiente concepito come istanza “comunicativa”, come luogo di mediazione, e quindi come luogo di trasmissione di informazioni e di influenze che operano dall’esterno verso l’interno, e viceversa, in un dialogo con l’uomo/animale che diventa sinonimo di un processo identitario.
Ma se applicassimo lo stesso ragionamento alle piattaforme di streaming? In che modo un film caricato su una piattaforma OTT si relaziona con l’ambiente (a maggior ragione mediale, perché digitalizzato) in cui viene calato? E quindi, di conseguenza: in che modo le piattaforme streaming (i media) influenzano la percezione dei film presenti nei loro archivi online (l’informazione veicolata)?
In La cura del cinema. Mubi e l’esperienza audiovisiva on demand, uscito per i Fotogrammi di Bietti Editore nel gennaio 2023, Matteo Berardini ci porta a riflettere intorno a questi interrogativi e non solo, in un’analisi sui nuovi orizzonti epistemologici del cinema digitalizzato che si avvale di una commistione di cultura cinematografica, sociologia dei media e filosofia del postmoderno contemporaneo. Per farlo, sceglie come oggetto di indagine MUBI, quella che forse oggi è la più peculiare e su generis delle piattaforme.
A partire dal concetto di digitalizzazione dell’immagine, e quindi a partire dalla trasformazione dell’oggetto-film in un golem composto da miliardi di byte compressi ed esportabili, Berardini si immerge nel flusso dell’infosfera con l’aiuto di un parterre di Caronti della mediologia: da McLuhan a Baudrillard, da Lyotard a Benjamin, fino a Horkeimer, Adorno, Jenkins, Bolter. Ed è anche attraverso le loro parole che Berardini sorvola il primo Novecento, il Novecento dell’analogico, per giungere fino all’indagine della soglia di un digitale spesso percepito come sinonimo di uno svuotamento di senso, o come backroom dei tecnosupporti; come supporto alieno della nuova civiltà, a sua volta aliena perché non più riconoscibile.
«In 2049 l’iconosfera analogica del Novecento sopravvive in rovina nelle forme del feticcio e del frammento, ipostatizzata da una Las Vegas deserta, corrosa dal tempo e dalle radiazioni, nella quale schegge di immaginario si remixano in loop mediali svuotati di senso»: il cinema, insomma, che prende le forme di uno strumento di metadiscorso. Ma Berardini, nonostante la brevità del saggio, non si limita a rimuginare sul valore contenutistico del medium filmico nell’epoca della (post)riproducibilità tecnica, nell’epoca dell’affordance: a dare spessore a La cura del cinema, infatti, è la ciclica interrogazione e messa in discussione del cinema on demand e dello streaming domestico, e quindi del neo-apparato cinematografico del nuovo millennio, senza scadere nella tentazione veterotestamentaria di parlare di “morte del cinema”; senza parlare (solamente) di un digitale grande e cattivo che ha fatto la festa al cinema d’arte, e al cinema in generale.
Questo non significa che si debbano sacrificare i propri figli al Dio algoritmo. Sulla base di questo proposito, Berardini sceglie come caso di studio la piattaforma che si posiziona nella fascia più alta della “scala cinefiliaca”: MUBI. Come gli abbonati di questo servizio di streaming già sanno, MUBI non fa uso di algoritmi per consigliare i film del suo catalogo allo user: il concetto che sottende l’intera operazione artistica e commerciale della piattaforma poggia invece su una logica relazionale, sulla dimensione umana della curatela, e sul concetto di community dei fruitori: un intento meraviglioso, ma talvolta completamente fuori fuoco. Tornando all’interrogativo mediale che ci eravamo posti più sopra (che relazione si instaura fra il singolo film e l’ambiente-piattaforma in cui viene uploadato? in che modo il singolo film dialoga e muta sulla base del suo contenitore?), MUBI risponde in maniera diversa dalla gran parte delle OTT presenti sul mercato. In un contesto in cui il cinema on demand diventa sinonimo di un “simulacro culturale” sempre più opaco, sempre più manipolabile e mediato, MUBI risponde al motto mediale della contemporaneità (everything, everytime, everywhere) con un approccio festivaliero, mosaicizzato, che punta idealmente sull’agency del fruitore, e quindi sull’operabilità della piattaforma stessa da parte degli abbonati. Certo, è pur sempre una OTT – ma c’è un motivo se il nome originale di MUBI, ai tempi della sua fondazione nel 2007, era The Auteurs: un omaggio alla politique des auteurs, e allo stesso tempo la dichiarazione di un focus imprenditoriale e cinematografico diverso, “di nicchia”.
Usando le parole di Irene Klein Musumeci, MUBI opera «più come un festival o un grande cinema d’essai online». Perché la forza di La cura del cinema, d’altra parte, risiede anche nel suo impianto dialogico: Berardini intervista la Klein Musumeci, responsabile marketing per l’Europa di MUBI, nel tentativo (apprezzato) di aprire la soglia del discorso critico per lasciar trasparire anche l’aspetto più materico del lavoro di costruzione, curatela e manutenzione: l’aspetto del “fare”. Da quest’apertura dialogica emergono temi che rimbalzano curiosamente fra l’etico e il politico, fra il local e il glocal, finendo per tornare congiunti nell’epicentro dell’intera questione: il cinema, e soprattutto il cinema digitalizzato delle piattaforme. MUBI, d’altronde, opera su scala mondiale, ed è in questa prospettiva che vanno lette le sue politiche di distribuzione – che, ad oggi, cominciano a coinvolgere sempre più la diffusione theatrical (e quindi, in sala) dei singoli film: si pensi al caso recente più sottolineato dai mass media, e cioè l’acclamatissimo Aftersun di Charlotte Wells.
Di fatto, Berardini ci offre uno sguardo (breve, e in parte mistificato da questa stessa brevità) degli interni in mogano di MUBI-piattaforma, cercando di delineare i processi interni e i ragionamenti “umani” di una OTT ritenuta dai più come “cinefila”. E va detto: a conti fatti, ci riesce bene.
Pietro Bocca ©Birdmen Magazine 3 maggio 2023