
Il testo che le Edizioni Bietti pubblicano per la prima volta in edizione italiana rappresenta per molti versi un unicum nell’ambito della vasta produzione di Mircea Eliade, non trovando in essa posto altre opere specificatamente dedicate alla disamina di un personaggio politico, quale, per la circostanza, António de Oliveira Salazar, il dittatore che ha retto le sorti del Portogallo per circa un quarantennio. Scritto tra il novembre 1941 e il maggio 1942, quando Eliade presta servizio presso l’ambasciata rumena di Lisbona quale addetto culturale, il testo costituisce così un documento di eccezionale importanza, che permette di fare nuova luce sia sul controverso profilo “politico” del grande storico delle religioni, sia su una vicenda storica, quella dell’Estado Novo salazariano, non ancora adeguatamente scandagliata fuori dai confini portoghesi, soprattutto in un’ottica scevra da pregiudizi e distorsioni ideologiche o di parte.
Se lo scritto sembra nascere da circostanze casuali e d’occasione – la missione diplomatica di Eliade, intento a far conoscere al suo paese la realtà portoghese – in verità esso si inserisce – come non manca di sottolineare il curatore dell’opera, Horia Corneliu Cicortaş, nel saggio che accompagna la pubblicazione – all’interno di un interesse e di una riflessione “meta-politica” dell’insigne studioso rumeno che data fin dai suoi anni giovanili e che lo aveva visto attento, se non addirittura “tentato” in prima persona, verso esperienze all’apparenza così distanti – il movimento non-violento gandhiano al tempo della sua permanenza in India tra il 1929 e il 1931 e quello di ispirazione fascista rumeno della Guardia di Ferro alla fine degli anni Trenta – ma in realtà accomunate dal fondamento “spirituale”, se non addirittura “religioso”, che per simili movimenti doveva sottostare all’azione politica. Ed è proprio un tale fondamento che per Eliade costituisce la cifra più autentica della vicenda politica salazariana: “Questo libro – dichiara egli stesso in modo esplicito nella sua prefazione – ha visto la luce per rispondere a una domanda che l’autore non si stanca di porsi da ormai dieci anni: è possibile una rivoluzione spirituale? È storicamente realizzabile una rivoluzione che abbia come protagonisti uomini che credono, anzitutto, nel primato dello spirituale?” Altrettanto esplicita – e forse sorprendente e inaspettata per il lettore ignaro di tali particolari sfaccettature della complessa personalità dello studioso rumeno – è la risposta che Eliade ci offre: “Il Portogallo d’oggi, il Portogallo di Salazar, è forse l’unico Paese al mondo ad aver tentato di rispondere a simili domande”. Ecco, quindi, il vero obiettivo dello scritto di Eliade: far conoscere ai suoi concittadini, ma al tempo stesso al mondo intero, una vicenda che, sviluppatasi in un piccolo paese da tempo ormai ai margini della grande politica mondiale, assurge per lui addirittura a modello di quella “rivoluzione spirituale” che, di fronte alla crisi e ai rivolgimenti politico-culturali in cui si dibatte l’Europa della prima metà del XX secolo, diventa l’assillo e la speranza di intellettuali e uomini politici di ogni provenienza e tendenza.
Sullo sfondo di tale prospettiva, si stagliano poi le circostanze più contingenti ed impellenti del conflitto mondiale che proprio negli anni di stesura dello scritto conosce la sua fase più recrudescente e decisiva: dinanzi alle sorti sempre più incerte dell’Europa come del paese natale di Eliade, l’opera su Salazar – a cui si accompagna non a caso, nello stesso periodo, quella su I Romeni, latini d’Oriente pubblicata nel 1943 – vuole rappresentare anche un ponte tra Portogallo e Romania, ovvero i due “estremi” dell’universo latino d’Europa, nell’auspicio di un’alleanza che, estesa ugualmente ad altre nazioni in tal senso “sorelle”, liberasse il vecchio continente dalla tenaglia mortale del nazismo e del comunismo. Su questa scia, proprio lo “Stato Nuovo” portoghese, provvidenzialmente tenuto fuori dalla immane contesa da Salazar, poteva per Eliade rappresentare un esempio innanzi tutto per Antonescu, nella speranza che anche il dittatore rumeno avviasse un’opera di rinnovamento spirituale nazionale, in primo luogo disimpegnando dal conflitto e dalla funesta alleanza con la Germania la sua amata Romania.
Nel presentare al lettore il nuovo regime portoghese così come edificato da Salazar, Eliade ci offre altresì una breve storia del Portogallo a partire dal XIX secolo, indispensabile premessa atta a meglio comprendere e valorizzare l’intrapresa salazariana avviata dal colpo di stato militare del maggio 1926. Una storia, questa, tutta incentrata, in una sorta di “guerra civile” permanente, sullo scontro tra forze moderniste ed “esterofile” – liberali, democratici, repubblicani – e forze tradizionaliste “nazionali” – per lo più monarchici di diversa tendenza – e la cui ricostruzione non è, con tutta evidenza, esente da un certo schematismo o eccessiva semplificazione, dove la visione di Eliade e i suoi intenti “apologetici”, volti a celebrare il ritorno all’ordine rappresentato infine da Salazar, emergono in modo fin troppo esplicito, sino a dare dei complessi accadimenti una lettura a tratti quasi “cospirazionista”, con la “massoneria” che sembra tirar le fila di ogni svolta in senso liberale o repubblicano. Ed è proprio la storia della Repubblica portoghese instaurata nel 1910 ad essere presa particolarmente di mira da Eliade, che ne evidenzia la cronica instabilità politica – “dal 1911 al 1926 ha visto succedersi otto capi di Stato e quarantatré governi” –, il dissesto economico, i continui o tentati colpi di stato, le rivolte, che riducono il Portogallo a potenza di infimo ordine sullo scacchiere internazionale, svenduto dai suoi leader demagogici agli interessi e agli appetiti d’Inghilterra e Francia.
L’avvento del comunismo avrebbe costituito l’inevitabile esito di una simile vicenda se la svolta del 1926 non fosse intervenuta ad arginare una situazione al limite dell’anarchismo; anarchismo che per Eliade appare quasi connaturato al sistema liberale dei partiti e all’individualismo su cui si regge la società moderna. Salazar, prima risanando “miracolosamente” il bilancio nel giro di un solo anno come “super ministro” delle Finanze, poi edificando da primo ministro il nuovo Stato “sociale e corporativo”, come sancito dalla Costituzione del 1933, determina il riscatto della gloriosa nazione portoghese, che può ora di nuovo ambire, per Eliade, ad un ruolo protagonista a livello internazionale. La rivoluzione salazariana sembra assumere così agli occhi di Eliade i tratti tipici della “rivoluzione conservatrice”: da una parte intende ricollegarsi a quelle istanze tradizionaliste rappresentate nella recente storia portoghese prima dai monarchici e poi da movimenti quali l’“integralismo lusitano”; dall’altra, lasciandosi alle spalle prospettive comunque superate dagli eventi o compromesse con i vecchi centri di potere, ambisce a sintesi politiche ed istituzionali nuove capaci di tenere nel giusto conto le recenti trasformazioni che il Portogallo ha conosciuto. Eliade sembra apprezzare anche la netta presa di distanza di Salazar nei riguardi di movimenti più spiccatamente fascisti quali le “camicie blu”, che lo volevano più apertamente allineato con le potenze dell’Asse, auspicando, con tutta evidenza, che anche la politica repressiva avviata in quegli stessi frangenti da Antonescu in Romania nei confronti della Guardia di Ferro – verso cui Eliade non nutre più visibilmente le simpatie di un tempo – avesse come corollario il progressivo sganciamento dall’alleanza con la Germania nazista.
Al di là dell’intrapresa politica, Eliade appare però affascinato anche e soprattutto dall’uomo Salazar, semisconosciuto professore di economia di Coimbra divenuto “dittatore senza volerlo”, che “ha fatto della politica quel che aveva fatto in precedenza dell’insegnamento, vale a dire lo strumento di perfezionamento morale e intellettuale delle giovani generazioni”. Ad Eliade preme in particolare sottolineare la formazione e l’ispirazione religiosa di “quest’uomo che aveva sognato d’essere prete” e il cui impegno politico altro non rappresenta che il compimento di quella che comunque deve essere vista come una “vocazione” e una vera e propria “missione”. Prescindendo dall’idealizzazione che un simile ritratto indubbiamente contiene, Eliade evidenzia uno dei tratti notori della figura di Salazar, ovvero il suo carattere schivo e riservato, alieno da ogni culto della personalità e da ogni ascendente carismatico così tipici invece degli altri dittatori europei, di destra come di sinistra: “Non aveva la vocazione d’un dittatore capace d’incitare e costringere la masse, scatenando forti passioni, non faceva appello a sentimenti veementi e i suoi discorsi più persuasivi erano sempre meditati a lungo, scritti coscienziosamente e letti con la stessa voce professionale”; non amando addirittura apparire in pubblico, “chiede, anzitutto, d’essere lasciato in pace: si rinchiude nel suo ufficio. […] Non incontra quasi nessuno”. Tutti aspetti, questi, che ne accrescono il valore agli occhi di Eliade, e testimonianza inequivocabile del carattere autentico e sincero della stima e del consenso dimostratigli dalla maggioranza dei portoghesi.
La modestia, l’integrità morale e l’educazione religiosa dell’uomo costituiscono così il segreto del successo della sua opera: non poteva altrimenti realizzarsi quello che Eliade arriva a definire, con un’espressione alquanto sui generis, “una forma cristiana di totalitarismo”, o ancora uno “Stato totalitario e cristiano, costruito non su astrazioni ma sulle realtà viventi della stirpe e della tradizione”. E “cristiano”, innanzi tutto perché fondato sulla “famiglia e, in quanto tale – prosegue Eliade con accenti quasi ispirati – sull’amore. Le corporazioni, le municipalità e la nazione non sono altro che forme più elaborate di quella stessa famiglia portoghese […] comunità d’amore e comunità di destino”. A differenza dei demagoghi protagonisti del turbolento periodo repubblicano, Salazar è un uomo di fede prima di essere un economista o uno statista, ed è per questo che quella salazariana è una “rivoluzione spirituale” prima che politica: “Lo Stato partecipa in un certo senso all’assoluto” è l’espressione del dittatore portoghese che più di ogni altra per Eliade riassume la sua visione e la sua azione, perché nessun saldo ordinamento politico può considerarsi davvero tale se non si richiama ad un principio trascendente.
Le speranze e le illusioni di Eliade non tarderanno però a svanire presto. L’invasione sovietica della Romania e la conclusione del conflitto mondiale decreteranno la fine del suo soggiorno a Lisbona e il trasferimento a Parigi, segnando un netto spartiacque nella sua biografia: Eliade sembrerà di lì a poco abbandonare ogni interesse politico per dedicarsi esclusivamente alle ricerche che lo consacreranno tra i massimi studiosi di materia religiosa a livello internazionale. Complice anche l’inasprirsi della politica repressiva avviata da Salazar già a partire dagli anni che lo vedono ancora in Portogallo (politica di cui non vi è traccia nel suo scritto e riferita solo in alcuni rapporti segreti inviati al Ministero degli Esteri rumeno), con l’Estado Novo destinato ad assumere sempre più il volto di un mero autoritarismo reazionario, Eliade non mostrerà più alcun interesse verso l’uomo che pur resterà al potere fino al 1968: addirittura, da alcuni rari riferimenti al testo in oggetto – riportati da Cicortaş – che si ritrovano nella sua opera successiva, traspare quasi il rimpianto per il tempo perso nell’averlo scritto, come a decretare la distanza e l’inattualità che lo separano ormai da quella vicenda e da quegli anni.
(Stefano di Ludovico, «Diorama Letterario», n. 318/2014)