
Nella sua autobiografia, prima dell’epilogo, Pupi Avati inaugura l’ultimo capitolo Volata finale così: «Nel film Impiegati [1985, ndr] Dario Parisini sfida Claudio Botosso a ripensare tutta la sua vita più velocemente possibile, cronometrando il tempo che impiega. È una sfida tra ventenni. Tuttavia impossibile. Lo è ancora di più per un settantaquattrenne [nel 2013, ndr]: occorre andare a due miliardi di fotogrammi al secondo anche solo per provarci. Ma forse bisogna far scorrere ancora più velocemente immagini e suoni nella consapevolezza che gran parte resterà fuori». Lo svolgimento retrospettivo calcolato in numero di fotogrammi al secondo è una prerogativa dell’autore di Impiegati, che in tutta o quasi la sua filmografia è tornato a cronometrare la vita sullo schermo. Con o senza la pellicola, sempre e comunque in senso cinematografico: in fotogrammi al secondo, appunto. Questo spiega, se mai ci fosse bisogno, la natura profonda di Impiegati, che è essenzialmente un film sul cinema e non solo una parabola realistica su un determinato ambiente lavorativo, di cui Avati a ogni modo fornisce un ritratto severo, spietato, emblematico, che da un lato porta allo scoperto i lati inquietanti della narrazione pacata e del film apripista sull’argomento un quarto di secolo prima, Il posto di Ermanno Olmi (1961); dall’altro offre una sponda realistica ma non meno sconcertante sugli eccessi parossistici messi in luce dalla saga fantozziana a partire dal memorabile dittico di Luciano Salce di dieci anni prima. Il secondo tragico Fantozzi (1976) è stato a sua volta un film sul cinema, con la macroscopica e a un tempo filologica parodia e irrisione dei classici del muto. Certo i funzionari di banca di Avati, a differenza dello sventurato ragioniere incarnato con geniale masochismo creativo da Paolo Villaggio – che in qualche misura informa di sé la goffaggine contenuta del Luigi Stanziani tagliato su misura per l’esordiente Botosso – sono giovani yuppies che accarezzano quel successo che spesso si scopre – come diceva Carmelo Bene – il participio passato di “succedere” e vi soccombono. Si indovinano da subito o strada facendo “mostri” sotto mentite spoglie, possibilmente firmate per poter essere meglio accettati nel jet-set o all’esclusivo Club del Golf di Bologna. Non desiderano distinguersi per contrapporsi all’esistente, ma farsi notare meglio come soggetti a un allarmante processo di omologazione di lunga durata che, accresciutosi a livello esponenziale, giunge fino ai giorni nostri. E se non sono più giovani, tanto peggio, risultando persino più patetici nella loro scarsa capacità di stare al passo con i tempi. Avati con Impiegati guarda(va) anche temporalmente avanti, troppo. La questione del tempo, cinematografico e non, è dunque centrale, pervasiva, dominante. Forse è proprio questo cambio di rotta repentino rispetto ai film del passato e sul passato dell’autore a penalizzare Impiegati al botteghino, ancorato com’è a un presente che fa spavento non meno degli horror gotico-padani. Ma non ne frena l’impatto anticipatore che forse con il senno di poi appare maggiormente inequivocabile, preciso, come lo sono le singole battute, le inquadrature, i movimenti della macchina da presa taglienti, essenziali, geometrici. Se il film, come l’autore e suoi collaboratori hanno raccontato, nasce mettendo a frutto un gioco perfetto di improvvisazioni, l’esito finale non lo lascia minimamente trasparire. Il controllo sui tempi drammaturgici e della recitazione, iscritti in un rigore stilistico esemplare, denota semmai una lucidità ancora oggi impressionante. L’idea di cronometrare l’esistenza pregressa, di racchiuderla in una sintesi estrema, di comprimere rigidamente i ricordi, connota la struttura e lo stile di Impiegati.
La difficile e ingrata arte di condensare il vissuto appartiene alla prerogativa della messa in scena e in campo. Con la svolta di Impiegati, che si salda idealmente all’esperienza della miniserie Cinema!!!, Avati in pratica fa sua la nota dichiarazione di Alfred Hitchcock rilasciata nel corso della trasmissione della BBC Picture Parade del 5 luglio 1960: «Drama is life with the dull bits cut out (Il dramma è la vita con le parti noiose tagliate)». Insomma, ciò che a distanza colpisce di più di questo film singolare, al di là del fondamentale e profetico valore sociologico, è l’aspetto meta-cinematografico tutt’altro che collaterale dell’impianto. Tutto in Impiegati non fa che confermare questa linea guida. Persino l’istituto di credito scelto non è uno qualsiasi, ma la Banca Nazionale del Lavoro preposta da sempre all’erogazione del credito cinematografico. Dire quindi BNL equivale a declinare altrimenti il Cinema come categoria a largo spettro, dalla mitologia alla tragica consapevolezza/accettazione del mondo. La banca, quella banca, diventa quindi per definizione sinonimo di cinema, con o senza la maiuscola iniziale. Un set cinematografico allusivo. Uno dei passaggi chiave del film, poi, riguarda una bugia detta da Annalisa al marito Enrico, riguardo all’essere andata (guarda caso) al cinema con il post-olmiano/fantozziano Luigi. Annalisa si è servita daccapo, stavolta senza neanche avvisarlo, della copertura di Luigi per nascondere a Enrico gli incontri clandestini con Dario, studente del Dams a tempo perso, con alle spalle una nascita dentro una sala cinematografica che avrebbe dovuto promettere bene, costruirgli addosso un destino da attore di film, e invece ne ha interrotto il futuro bruscamente: in una chiave melodrammatica, da film. Dentro un film che riflette l’arte della sintesi nei film intitolato Impiegati.
Già, il titolo. Il discorso filmico all’interno di questa pellicola irreversibile di Avati è determinante per comprendere anche la suscettibilità semantica dell’insieme sul binomio realtà/cinema. Suscettibilità che è possibile cogliere a partire appunto dal titolo stesso. Lo faceva notare Tullio Kezich: «L’autore sostiene che […] si può leggere anche con l’accento sulla terz’ultima: Impiégati». Ed è giusto avere ricordato il contributo critico/esegetico di Kezich su Impiegati, poiché è stato in seguito lo stesso Avati a riconoscerne il debito in termini (psic)analitici a proposito del rapporto di complementarità che lega Dario a Luigi: «Sono certo di aver centrato l’obiettivo metaforizzando in quei due personaggi […] una sola identità, nel suo duplice manifestarsi. Botosso, il giovane capace di accettare l’omologazione cogliendone gli aspetti più rassicuranti, Dario Parisini invece il sognatore che rifiuta di abdicare a una sua propria identità. Quest’ultimo è destinato a soccombere. L’analisi del film, lucidissima, la debbo a Tullio Kezich, che in più occasioni nella mia vicenda professionale mi dimostrò quanto i critici possano servire nella maturazione di un narratore».
CAST & CREDITS
Regia: Pupi Avati; soggetto: Antonio Avati, Pupi Avati; sceneggiatura: Antonio Avati, Pupi Avati, Cesare Bornazzini; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpa; costumi: Steno Tonelli; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Claudio Botosso (Luigi), Giovanna Maldotti (Marcella), Dario Parisini (Dario), Elena Sofia Ricci (Annalisa), Luca Barbareschi (Enrico), Gianni Musy (Pozzi), Cesare Barbetti (padre di Dario), Nik Novecento (usciere); produzione: Antonio Avati per DueA Film, Dania Film, Filmes International, National Cinematografica; origine: Italia, 1985; durata: 98’; home video: Blu-ray inedito, dvd Aegida; colonna sonora: Triple Time Music (compilation Le colonne sonore originali di Riz Ortolani per Pupi Avati).