Studio Ghibli. L'animazione utopica e meravigliosa di Miyazaki e Takahata

Andrea Fontana & Enrico Azzano
2015-09-30 13:10:47
Studio Ghibli. L'animazione utopica e meravigliosa di Miyazaki e Takahata

Studio Ghibli. L’animazione utopica e meravigliosa di Miyazaki e Takahata, edito da Bietti nella collana Heterotopia, è un saggio di Enrico Azzano e Andrea Fontana dedicato alla parabola trentennale della casa di Koganei.

Il taglio del volume è di tipo storico-critico, e permette ai due autori di evidenziare un certo virtuosismo espositivo, da ascriversi alla tradizione della migliore critica cinematografica.
Il primo capitolo, più strettamente diacronico, ripercorre le vicende che hanno portato alla nascita dello Studio Ghibli e alla sua affermazione prima su scala nazionale poi su quella internazionale.
Il libro è prima di tutto una ricognizione accurata e appassionata della carriera di Hayao Miyazaki e Isao Takahata. Si tratta di una rilettura dei due percorsi artistici improntata senza dubbio a toni elogiativi ed elegiaci, ma ciò non inficia l’onestà critica della disamina, testimoniata dal puntuale ricorso alla documentazione bibliografica e dai rimandi intelligentemente ricorsivi al corpus della produzione ghibliana.

Il volume non manca di tratteggiare le radici estetiche della cinematografia dello Studio. Un nome su tutti: Yasuji Mori. La ‘linea chiara’ di Mori resta un punto fermo nella formazione stilistica di Miyazaki, ma, più in generale, la figura del mentore dei giovani Isao e Hayao negli anni di apprendistato alla Toei Dōga (confluiti nel «meraviglioso fallimento» de Il segreto della spada del sole) costituisce un riferimento ineludibile nel rintracciare gli antesignani dell’animazione à la Ghibli.
Il chara design dello Studio è inevitabilmente debitore del tratto morbido e delicato di Mori. Ma la disamina genealogica del saggio è davvero eccellente, poiché cita effettivamente una profluvie di fonti d’ispirazione per la poetica Ghibli.

Per Miyazaki, i manga di Tezuka, La leggenda del serpente bianco di Taiji Yabushita, le animazioni gioiosamente dinamiche di Otsuka, il fiabesco sublime di Lev Atamanov (fu il suo La regina delle nevi a convincere Miyazaki a non abbandonare l’animazione), la letteratura per l’infanzia studiata ai tempi della Gakushuuin University, autori come Rosemary Sutcliff, Philippa Pearce, Eleanor Farjeon, Arthur Ransome e Antoine de Saint-Exupéry. O ancora la visionarietà del nonsense carrolliano, lo steampunk, gli aeromobili, la poesia di Tatsuo Hori. E infine, gli Stati Uniti, “patria dell’animazione” secondo il maestro, gli USA dei Fleischer (cui si deve l’archetipo del robot-guardiano in Laputa), di Disney, di McCay. E l’amicizia profonda, innervata di stima, con John Lasseter, il ‘patron’ Pixar.

Per Takahata, formatosi al dipartimento di Belle Arti di Tokyo, l’ambiente seminale resta il cinema dei maestri francesi: come dirà Miyazaki, Isao «fa Prévert, fa Édith Piaf». Grimault (La pastorella e lo spazzacamino), Marcel Carné e Jean Renoir, le suggestioni dei corti animati di Frédéric Back. E poi, le suggestione del neorealismo italiano. Da questo densissimo amalgama deriva una filmografia dal realismo poetico, una narrazione emozionale che si situa al confine tra l’ineffabilità del quotidiano (gli haiku familiari degli Yamada) e le esperienze ai limiti del raccontabile (la tragedia assoluta di Hotaru no Haka). Il cinema di Takahata è, secondo gli autori, una sorta di urlo silenzioso, uno sguardo inguaribilmente nostalgico, come quello che ci rivolge, infine, la principessa Kaguya, abbandonando la terra. Takahata sperimenta maggiormente di Miyazaki, la ‘linea chiara’ di Mori si fa buffa con gli Yamada e diventa estasi artistica, emakimono, poema cinetico nel meraviglioso addio de La storia della principessa splendente.

Se la visione immaginale di Miyazaki si nutre di archetipi shintō e del fiabesco europeo, laddove la poetica minimalista di Takahata esplora le pieghe della memoria collettiva nipponica, la matrice estetico-ideologica comune delle opere dei due all’interno dell’utopia artistica e produttiva dello Studio Ghibli va ricercata nell’esperienza di lotta sindacale negli anni alla Toei Dōga, così come nella comune passione per il cinema sovietico.

Nela ricercatezza d’essai del maestro Jurij Borisovič Norštejn (autore, tra l’altro, di una splendida introduzione al volume), di Ivan Ivanov-Vano, di Aleksandr Petrov, cineasti i cui capolavori sono gelosamente custoditi al Ghibli Museum. Il saggio mette ampiamente in luce come l’ispirazione ‘marxista’ originaria del duo si sia progressivamente allontanata da un idealismo utopistico per virare verso un umanesimo maturo e mite. Mitezza che non fa rima con indifferenza ai temi sociali, poiché l’afflato rivoluzionario dei primordi viene col passare degli anni declinato in chiave innegabilmente ecologista e radicalmente pacifista. Secondo gli autori, il cinema Ghibli resta profondamente attraversato da una tensione politica, nel senso più nobile del termine.
Ne è un chiaro esempio il confronto inevitabile con la figura del padre. Se Gorō Miyazaki è una sorta di Telemaco alle prese con l’assenza paterna, lo stesso Hayao si trova a fare i conti con il proprio padre e con le implicazioni di quest’ultimo nella vicenda bellica.
La ‘fedeltà alla linea’ degli anni della contestazione diventa per Miyazaki comprensione critica della difficoltà di vivere nella zona grigia (si pensi al Jirō Horikoshi di Kaze Tachinu). Ecco perché, nella battaglia generazionale e nel conflitto tra i generi, gli uomini di Miyazaki si ‘eclissano’ di fronte al femminile, al fanciullesco, alla senilità. La donna, nello specifico, rappresenta l’unica possibilità per l’uomo di non soccombere, di non cedere sotto il peso di aspettative di genere irrealistiche e di una fragilità strutturale. Jirō non sarebbe nulla senza Nahoko. E poi l’infanzia. Le donne sono spesso ragazze, adolescenti. O persino bambine. La fanciullezza è un rifugio di speranza nell’universo Ghibli, tanto che accanto al Museo di Mitaka è stato costruito, per volontà dello Studio, un asilo.

Il volume di Azzano e Fontana, nell’esaminare le strade parallele, divergentemente convergenti, intraprese da Takahata e Miyazaki, inquadra dettagliatamente le singole opere dei due. Quel che ci sembra più interessante però è lo spazio dedicato a produzioni poco note o colpevolmente trascurate dalla grande distribuzione. Un posto d’onore spetta al documentario con innesti animati, prodotto da Miyazaki e girato da Takahata, sui canali di Yanagawa, sottratti coraggiosamente e tenacemente dalla popolazione locale alla cementificazione e all’inquinamento. La celebrazione della vita nella sua dimensione acquatica passa attraverso un uso sapiente della regia, che segue l’evoluzione storica degli ambienti con la tecnica del time lapse. Dimensione comunitaria, spinta ecologista, quadro d’ambiente, minimalismo delle descrizioni, commento musicale, composizione intuitiva delle immagini: Yanagawa horiwari monogatari è la prova documentale che la Ghibli saprebbe e potrebbe muoversi in territori diversi dalla ‘pura e semplice’ animazione.

Il saggio non esita infatti a porsi interrogativi, un po’ malinonici e sconsolati, sul futuro dello Studio. Dopo il tentativo fallito di esportare i lungometraggi in TV (Ocean Waves), si analizzano la tragica scomparsa dell’erede designato di Miyazaki, lo Yoshifumi Kondō de I sospiri del mio cuore, e la breve illusione rappresentata da Hiromasa Yonebayashi (Arrietty, Marnie). Ancora, Azzano e Fontana avanzano dubbi sull’epigono di Takahata, il figlio stesso di Miyazaki, Gorō, le cui prove registiche hanno dati esiti altalenanti e non ancora autoriali. Mentre Toshio Suzuki è costretto ad avviare la ristrutturazione, e Miyazaki sembra non volersi mai (davvero) ritirare, il volume si avvia mestamente verso la conclusione, proponendo una filmografia ragionata, con sinossi e schede critiche che si avvalgono anche di importanti collaborazioni esterne.
Ma c’è tempo per corposissime ‘appendici’, costituite da contributi interpretativi (tra gli altri quelli di Soumaré, Boscarol e Della Casa) e testimonianze artistiche (tra esse segnaliamo in particolare quella di Emanuele ‘Lumina’ Tenderini, ben noto ai nostri lettori).

In sintesi, L’animazione utopica e meravigliosa di Miyazaki e Takahata assolve egregiamente a due compiti: fornire una cronistoria completa e ragionata della produzione ghibliana, affiancandovi una lettura critica di ampio respiro e più che sufficientemente corroborata da supporto bibliografico e testimoniale. Da lodare la scelta di Azzano e Fontana di focalizzarsi sulle produzioni meno note o meno premiate al botteghino. Ciò permette al lettore italiano di accostarsi all’opera dello Studio nella sua interezza, inquadrandone le fonti di ispirazione (cinematografiche, letterarie, artistiche), gli snodi essenziali, la poetica di fondo. Ottima l’analisi delle componenti ‘ideologiche’ della Ghibli e della vocazione prima utopica, poi concretamente umanistica dello Studio, tanto nella sua struttura produttiva quanto nelle sue opere. Essenziale, forse troppo scarno, l’apparato iconografico, relegato in pagine ad hoc a metà libro. Lettura consigliata per il pubblico più navigato, ma fruibile anche dai neofiti. Da leggere e consultare.
Fabio Palumbo
26 settembre 2015

© animeclick.it

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