Lovecraft, questo genio venuto da fuori

Jacques Bergier
H.P. Lovecraft #2 – L’orrore cosmico del Maestro di Providence n. 8/2014
Lovecraft, questo genio venuto da fuori

Le vicende biografiche di Jacques Bergier (1912-1978) sfumano nella leggenda: a seguito di un primo periodo di studi come ingegnere chimico si dedicò alla fisica, insieme al suo collega e maestro André Helbronner. Dopo aver capito, ben prima di molti altri, l’importanza dell’energia nucleare, fu costretto a interrompere i suoi studi per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Durante il conflitto, si arruolò nella resistenza francese, diventando spia e bombarolo (pare che il suo Manuale del perfetto sabotatore, scritto in forma anonima, avesse addirittura destato l’interesse di Giangiacomo Feltrinelli). Successivamente, nel 1944, lo scrittore francese fu rinchiuso nel campo di concentramento di Mauthausen – esperienza che descrisse come una vera e propria prova iniziatica, nella quale il suo corpo fisico si annichilì, permettendo allo spirito di raggiungere un grado più elevato. L’incontro con Louis Pauwels, nel 1959, segnò un’altra tappa fondamentale della sua vita. I due si conobbero grazie a René Alleau – i tre, infatti, nutrivano l’interesse comune dell’alchimia – e il loro sodalizio intellettuale diede vita a uno dei testi più attuali e controversi dello scorso secolo: Il mattino dei maghi, manifesto del cosiddetto “realismo magico” (1960; ultima ed. it.: Mondadori, Milano 2014).

Bergier entrò in contatto con l’opera di Lovecraft negli anni Trenta, grazie all’antologia di racconti curata da Dashiell Hammet, Creep by night (John Day, New York 1931), nella quale era presente La musica di Erich Zann, ambientato a Parigi, nella misteriosa Rue d’Auseil. Da quanto leggiamo dall’autobiografia di Bergier – da noi consultata nell’edizione portoghese (Eu não sou uma lenda, tradução de M. Ligia Guterres, Nostradamus, Lisboa 1978), essendo l’originale (Je ne suis pas une légende, Retz, Paris 1978) introvabile – lo scrittore francese, folgorato dal genio del Solitario di Providence, gli scrisse subito una lettera e i due restarono in contatto fino alla morte di quest’ultimo. Non siamo stati in grado di rintracciare il carteggio – del quale, d’altra parte, molti esperti mettono in dubbio l’esistenza, non vedendovi che una boutade dello stesso Bergier – ma abbiamo traccia di due lettere di Bergier a Lovecraft, pubblicate su «Weird Tales» nella posta dei lettori (n. 3, marzo 1936; n. 3, settembre 1937) – la seconda, tra l’altro, scritta in occasione della morte dello scrittore americano.

Bergier racconta che un giorno, passeggiando nel quartiere del mercato delle pelli di Parigi, ebbe una strana sensazione di déjà-vu: non aveva forse già conosciuto altrove l’odore caratteristico di pelle conciata che permeava il luogo, insieme a quelle strade strette, dove la luce non penetrava mai? «Restai piuttosto sorpreso nel constatare che Lovecraft avesse descritto quel luogo all’incirca nel 1925.

Gli scrissi nel 1932, chiedendogli se avesse mai visitato Parigi.

Ricevetti questa risposta spaventosa: “Con Poe, in sogno”. Non riuscii a dare al fatto alcuna spiegazione razionale. Che io sappia, una chiaroveggenza di questo tipo, che può arrivare persino a sentire gli odori attraverso l’Atlantico, non è mai stata descritta» (Jacques Bergier, op. cit., p. 36). Questa vicenda è assai esemplificativa della visione del mondo di Bergier, teorizzata nel già citato “realismo magico”, secondo la quale il fantastico non è una violazione delle leggi che governano la natura, quanto piuttosto un aspetto fondamentale del mondo in cui viviamo: l’uomo che non si lascia accecare dall’abitudine e dai pregiudizi della ragione può rendersi conto di come il fantastico non si trovi al di fuori della realtà ma nella realtà stessa. Ecco perché, secondo Bergier, Lovecraft si può annoverare a pieno diritto fra i maggiori rappresentanti del realismo magico in letteratura: i suoi racconti presentano un mondo nel quale il confine fra fantastico e reale è indefinibile e, talvolta, quasi inesistente. L’universo è colmo di soglie, che, da un momento all’altro, possono spalancarsi e rivelare all’uomo l’orrore della realtà. L’ignoranza è l’unica arma di difesa e la scienza, ben lungi dallo svelare il mistero dell’universo, non fa che spingere l’uomo sempre più verso il baratro.

Il raro articolo che qui riproponiamo è stato pubblicato per la prima volta nella rivista «Planète» (n. 1, ottobre-novembre 1961, pp. 43-46). Di questo periodico, diretto da Pauwels e di cui Bergier fu assiduo collaboratore, esiste anche una versione italiana, «Pianeta» – pubblicata tra il 1964 e il 1970 – dalla quale riprendiamo l’articolo nella sua versione italiana (n. 2, maggio-giugno 1964, pp. 85-88).

 

Rita Catania Marrone

 

***

 

Alle frontiere della letteratura considerata tale esistono quantità di capolavori sconosciuti o negletti che, pur tuttavia, esprimono con più precisione le correnti profonde della nostra epoca fantastica di quanto non lo faccia il romanzo psicologico e borghese. Si tratta di quella letteratura cui volutamente diamo il nome di letteratura differente. Presentiamo oggi un omaggio a Lovecraft, questo Edgard Poe cosmico destinato a morire totalmente sconosciuto e nella più squallida miseria. «Questo ramo della letteratura (il realismo fantastico) – egli soleva dire – ha avuto cultori sia fra i più grandi scrittori sia fra i falliti par mio. Esso costituisce il vero realismo, la sola presa di posizione dell’uomo nei confronti dell’universo».

Mi sono stati necessari venticinque anni di sforzi per far conoscere al pubblico francese Howard Phillips Lovecraft e la ricompensa a tali sforzi è finalmente giunta: sia la critica sia il pubblico hanno capito ciò che di eccezionale reca con sé Lovecraft. Louis Pauwels è stato il primo a rendergli pubblicamente omaggio: Jean Cocteau ha scritto perfino che il testo di Lovecraft migliorava nella traduzione francese.

Probabilmente, per apprezzare Lovecraft è necessario aver molto sofferto, e forse la sua opera ha raggiunto più vasti strati di lettori in seguito ai disastri da cui siamo appena usciti. È possibile; ma che sia questa la sola ragione della popolarità attuale del grande americano?

Se Lovecraft, infine, trova la vasta accoglienza che tanto aveva sperata è perché in molti di noi si è risvegliata l’immaginazione. Gli eventi inverosimili che tutti abbiamo vissuti, la minaccia dell’atomo e le speranze in esso riposte, i grandi razzi e la conquista assai prossima, a quanto sembra, dello spazio, le scoperte della psicanalisi – tutto ciò è stato forse necessario affinché Lovecraft potesse essere compreso.

John Burdon Sanderson Haldane, studioso di biologia e genetica di grande valore nonché realista di rigorosissima precisione, ha scritto di recente: «Non soltanto l’universo è più strano di quanto immaginiamo, ma è più strano di tutto ciò che ci è possibile immaginare».

Al di là del raggio d’azione della nostra immaginazione si situa un immenso ignoto. È certo che tale ignoto retroceda, così come, con lo svilupparsi dei grandi telescopi, diminuisce la nostra ignoranza circa le galassie. Tuttavia (già Pascal lo aveva fatto osservare), se il raggio di una sfera aumenta cresce anche la sua superficie; anzi, molto più rapidamente ancora, poiché essa aumenta proporzionalmente al quadrato del raggio. Quindi, con l’accrescersi delle nostre cognizioni deve aumentare contemporaneamente il raggio della nostra immaginazione e, a contatto con l’ignoto, la superficie deve moltiplicarsi.

 

1. Un mito che esprime l’infinità del cosmo

 

Il maggior merito di Lovecraft è quello di aver conquistato all’immaginazione umana domini nei quali essa ancora non si era avventurata. Il suo pensiero è giunto al punto massimo cui può spingersi il pensiero umano ai nostri giorni. Egli ha creato un mito che, come lui stesso ha affermato, «avrebbe ancora un significato per dei cervelli composti del gas delle nebulose spaziali». Un mito che esprime la grandezza e l’orrore del Cosmo, non soltanto sulla scala di valutazione umana, ma anche a livello di qualsiasi intelligenza, anche se la forma esterna di quest’ultima non dovesse essere simile alla nostra. Qualsiasi intelligenza, infatti, anche se più possente della nostra, deve per forza rendersi conto dell’esistenza dei grandi campi sconosciuti, deve provare quell’«orrore degli spazi infiniti» che fece rabbrividire Pascal.

L’esistenza di queste enormi estensioni dello spazio e del tempo è stata pienamente confermata dalla scienza dopo la morte di Lovecraft. La radioattività ha permesso di stabilire come la vita esista sulla Terra da quasi tre miliardi di anni.

Le dimensioni dell’universo sono raddoppiate in seguito a calcoli più precisi. Howard Percy Robertson in America e Vorontzov-Veliaminov nell’Unione Sovietica sono giunti perfino alla conclusione che l’universo è infinito nello spazio e nel tempo – non limitato, come aveva creduto Einstein.

Da quest’universo, forse infinito, i radiotelescopi recentemente inventati captano dei segnali che non sembrano partire dalle stelle e che sono forse la manifestazione di fenomeni naturali sconosciuti, ma che potrebbero anche giungerci da intelligenze in possesso di mezzi di azione infinitamente superiori ai nostri. In quest’infinito dello spazio e del tempo non vi sono forse esistenze superiori alla nostra vita di microbi, delle attività al livello dell’universo quale la scienza ce lo mostra?

La reazione a quest’idea di un universo vivente e pieno di fatti naturali incogniti e di attività viventi, situate al di là del raggio d’azione della nostra immaginazione, varia evidentemente con il mutare della mentalità di colui che se la prospetta.

La risposta di Lovecraft fu di terrore, un terrore che riuscì a comunicare al lettore in modo meraviglioso. Evidentemente sono possibili altre reazioni. L’atteggiamento di Lovecraft si spiega, almeno in parte, studiando la sua psicologia personale.

 

2. Un malato prigioniero della sofferenza e della povertà

 

Sull’uomo Lovecraft, le opere ad oggi pubblicate non rivelano gran cosa. La Chiave d’Argento è la sola autobiografia che di lui possediamo. Essa ci fa seguire il cammino che conduce al di fuori del nostro universo, nell’ininterrotto ignoto cammino che segue, fino ad un certo punto, la strada tracciata dalla scienza, mentre, per converso, si separa nettamente da quella dell’occultismo. Su quest’ultimo, Lovecraft esprime un duro giudizio: «La crassa stupidità, il falso giudizio e la non duttilità dell’ingegno non possono sostituire il sogno».

Tale cammino, che ci conduce nell’ignoto, fino al punto massimo che la mente umana possa raggiungere, può essere seguito soltanto dall’immaginazione, sorretta dalle conoscenze scientifiche e storiche più vaste. È una strada aperta a tutti, compreso a quel malato prigioniero della propria malattia che fu Lovecraft. (Il deportato che fui si accorse in egual modo che tale via di evasione esiste e che conduce assai lontano, ben oltre il filo spinato).

Una strada simile esisterà sempre: anche se un giorno l’uomo dovesse sviluppare a fondo tutte le possibilità dell’astronave o di macchine ancora più meravigliose e viaggiare nel tempo e nelle dimensioni, al di là dell’estremo punto raggiunto fisicamente si estenderanno sempre i campi accessibili soltanto alla mente. Per poter seguire questo cammino, Lovecraft cominciò dapprima col far propria gran parte dell’umano sapere. Mai mi era accaduto di essere in rapporto con un essere così onnisciente. Egli sapeva un numero di lingue incalcolabile, ivi compresi quattro idiomi africani (Damora, Swahili, Chulu e Zani) e una gran quantità di dialetti. Scriveva con pari erudizione sulle matematiche, sulle cosmogonie relativistiche, sulla civiltà azteca, sull’antica Creta e sulla chimica organica.

Assorbiva questo tesoro di cognizioni grazie a una specie di straordinaria osmosi. Quando gli scrissi per congratularmi con lui per aver descritto un rione poco noto di Parigi ne La musica di Erich Zann e gli chiesi se mai avesse visitato Parigi, mi rispose: «Con Poe, in sogno» («With Poe, in a dream»).

 

3. L’esule

 

Senza mai lasciare la propria casa al numero 10 di Barnes Street, a Providence (Rhode Island), Lovecraft aveva compiuto viaggi in tutti i paesi descritti o immaginati dagli uomini. Quello che preferiva era il 1700 americano, secolo che prediligeva e che descrisse meravigliosamente all’inizio del suo racconto Il caso di Charles Dexter Ward.

Se ne sentiva contemporaneo e penso che sognasse una macchina che lo conducesse là attraverso il tempo. «La lotta contro il tempo» ebbe a scrivere «è il solo, vero, soggetto per un romanziere». Proust non lo avrebbe certo smentito.

Fu destinato a lasciar ben di rado il 10 di Barnes Street a Providence. Glielo impedì la miseria. E, oltre a questa, una certa ostilità alle cose. Non poteva sopportare il freddo (già zero gradi erano per lui una temperatura atroce) e il minimo contatto col mare o con oggetti provenienti dal mare lo rendeva insofferente. Si spostò assai poco. Un viaggio nel Sud degli Stati Uniti, un soggiorno a New York e alcune gite nella regione di Boston: questi furono i suoi soli pellegrinaggi visibili.

Si rivalse con lontani viaggi in immaginazione e sogno. Le attività oniriche di Lovecraft erano di una straordinaria precisione. Alcune delle sue novelle ne sono la pura e semplice trascrizione. Assai sovente me ne inviò narrazioni dettagliate, che si rivelavano straordinarie per l’ampio respiro dell’immaginazione e la coerenza dei particolari. Conosceva a fondo, ben inteso, l’opera di Sigmund Freud, ma non ci credeva affatto. La psicanalisi difficilmente avrebbe potuto spiegare costruzioni altrettanto coerenti quali quelle del racconto L’ombra calata dal tempo.

Lovecraft torna a considerare l’importanza del sogno in una storia dal titolo Oltre il muro del sonno. Tali viaggi immaginari, che all’inizio altro non erano che una forma di evasione, divennero rapidamente parte essenziale della sua vita; ma, anche nei sogni, egli conservava i tratti essenziali del suo carattere: il rigore scientifico e la logica.

Raramente mi è occorso di conoscere un materialista più convinto o un dilettante che meglio di lui comprendesse la matematica.

In circostanze diverse, sarebbe certamente divenuto un fisico straordinariamente brillante.

Ancora una volta, furono la povertà e la malattia a creare barriere al suo genio. Sembra inverosimile che, in un paese come gli Stati Uniti, ove il denaro viene guadagnato con tanta facilità, un uomo della cultura di Lovecraft non sia mai arrivato a procurarsi più di quindici dollari la settimana. Un lavapiatti in un ristorante ne guadagnava a quell’epoca dai sessanta ai settanta, per compiere un lavoro assai meno faticoso di quello di Lovecraft, che trascorreva più di dieci ore al giorno a trascrivere in buon inglese novelle e romanzi destinati alle riviste americane. Più di una volta, alcuni suoi amici tentarono di fargli guadagnare di più, chiedendogli di scrivere direttamente il testo di racconti simili la cui trama era spesso assai semplice.

Le riviste illustrate americane dell’epoca (siamo ai tempi che precedettero la televisione e la gran voga dei fumetti) erano rigorosamente specializzate. Vi erano periodici dedicati alle storie di cow-boys, d’amore e di pompieri, ai racconti polizieschi, alle storie della giungla… Si fece tentare a Lovecraft tutti questi generi. Ogni volta, gli editori dovevano rispedirgli i suoi racconti. Si trattava sempre di opere che sembravano scritte da un marziano. In un perfetto inglese, l’autore rivelava la propria ignoranza intorno ai più banali particolari della vita quotidiana. Non sapeva cosa fossero un uomo, una donna, il denaro, la metropolitana, un cavallo e le più fondamentali realtà della vita americana: il posto di lavoro, la posizione sociale, la necessità del comfort e del progresso materiale. Alle lettere degli editori, sbigottiti, rispondeva: «Me ne scuso, ma la miseria, il dolore e l’esilio mi hanno fatto uscire di testa tutto ciò».

L’esilio: ecco la parola chiave. Lovecraft si è sempre comportato come uno straniero, come un essere giunto da molto lontano. Ogni tanto nascono esseri simili. Kafka, che pare non aver mai letto Lovecraft, sembra essere un altro esempio di questa condizione.

Poiché egli viveva tra noi in esilio, era inutile chiedergli di apprezzare i nostri valori. Il suo matrimonio fu, come naturale, un fallimento, e i tentativi per salvarlo si risolsero, come c’era da aspettarsi, in un disastro.

Nessuna storia della letteratura americana, nessun dizionario letterario, nessun Who’s who lo ha mai nominato.

Eppure, continuava a credere all’importanza del realismo fantastico. Ho sempre avuto l’impressione che si sarebbe ancor meglio espresso in materia se il pudore e il timore del ridicolo non glielo avessero impedito. Era del resto riservatissimo nei confronti degli esseri umani. La sola forma vivente del nostro pianeta che gli ispirasse fiducia era il gatto – ne aveva sempre molti per casa, realizzando con loro quella segreta comunione che ben conoscono gli amanti dei felini.

Era forse spaventato egli stesso dalle visioni che evocava? Da parte mia, non credo. Lovecraft ha semplicemente scelto il terrore come soggetto del suo messaggio, come mezzo per farci afferrare l’immensità dell’universo e delle forze che vi si muovono.

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