"Le strelle nel fosso". Metafisica contadina

Roberto Curti
Pupi Avati n. 10/2019

«Avere paura del buio, della notte, di qualcuno che poteva venire, voleva dire non sentirsi soli», spiega l’acchiappatopi in una delle scene iniziali di Le strelle nel fosso (1979), evocando le storie terrificanti raccontate dal vecchio Giove ai figli accanto al focolare, mentre lui stesso si attarda a narrare una storia a una donna senza età alla luce di un falò, in una notte d’estate. Una battuta che sintetizza il senso del perturbante secondo Pupi Avati, costruito sulla parola e sulle tenebre, sull’oscurità e sull’atto del narrare, sia esso racconto orale, per immagini (gli affreschi di La casa dalle finestre che ridono [1976]), resoconto febbrile affidato a un nastro magnetico (i deliri di Buono Legnani) o a quello di una macchina per scrivere (Zeder [1983]).
Riconoscendo il cordone ombelicale che lo lega alla tradizione orale, ai racconti, fole e credenze tramandate di generazione in generazione, Avati sottrae l’orrore alle convenzioni della tradizione romantica borghese riportandolo al popolo e alla propria terra1. E costruisce il suo film secondo una struttura metanarrativa, fondata sulla concatenazione di diverse narrazioni orali sviluppate l’una dentro l’altra come scatole cinesi. In apertura, una voce fuori campo situa gli eventi in un passato ormai lontano e introduce l’acchiappatopi, cui spetta il compito di raccontare la vicenda del vecchio Giove e dei suoi quattro figli, al cui interno ne troveranno spazio numerose altre, per bocca dei personaggi stessi.
L’atto del raccontare implica iteratività. La ripetizione non ottunde la meraviglia, ma anzi la rafforza, fortificando l’autenticità del narrato e schiudendo la possibilità di nuovi dettagli e sfumature. I bambini reclamano più e più volte la medesima favola prima di dormire, così da un lato l’acchiappatopi acconsente di buon grado a raccontare all’ascoltatrice «la solita storia», e dall’altro Giove ripete per l’ennesima volta al figlio Bracco la fiaba delle tre vecchine che si erano murate vive dietro al focolare con la loro gamba d’oro, sottratta a una defunta che torna nottetempo a reclamarla.
La medesima ciclicità si estende al quotidiano dei personaggi e alle loro azioni. Giove, Silvano, Marzio, Marione e Bracco passano i loro giorni sempre uguali in un casale cadente, nel mezzo di una landa sospesa tra cielo e terra, acqua e aria, un mondo di confine che è forse anche qualcosa di più: un limbo tra la vita e la morte, una terra di passaggio in cui le barriere si sono fatti labili e pervie. Capita dunque che Silvano possa vedere il cadavere del chierico riemergere dalle acque, in un momento che sintetizza la potenza visiva del gotico secondo Avati; o che, dietro al grande focolare della casa, si nascondano davvero le tre vecchie con la gamba d’oro; e ancora che a ogni cambio di luna si materializzi il fantasma dell’arciprete, anch’egli di passaggio, il quale li informa su ciò che succede dall’altra parte2; infine che nei dintorni si aggiri con il suo bastone il Beato Bartolomeo, il santo cieco che giunge a portare la morte ai giusti «ma non si sa quando viene».
Il mondo dei vivi è là in fondo, all’orizzonte, fuori portata, evocato dalle rare carrozze dirette a una meta (la tenuta dei conti Pepoli) che forse è solo il misericordioso nome dato alla destinazione ultima. Quello di Le strelle nel fosso è un non-luogo in cui si può solo aspettare, in un’infinita reiterazione di gesti, comportamenti, parole, riti, preghiere. Come era stato in La casa dalle finestre che ridono e come sarà nei gotici successivi, da Zeder a L’arcano incantatore (1996), la religione è stravolta e deformata in un atto pagano votivo, dove l’implorazione a Santa Rosalia recitata da Giove per non dormire ha il medesimo valore della tiritera dialettale che i quattro figli ripetono ossessivamente («Cuculo dalla penna grigia, quanti anni mancano prima che mi sposo?»).
Nell’universo fantastico di Avati la donna è un mondo a parte, impenetrabile e temuto, seducente e letale. Aliene e aeree, sognate eppure temute, le apparizioni femminili sono spesso portatrici di (o personificazioni della) morte, dalle grottesche sorelle di Buono Legnani alla revenante Anne Canovas in Zeder. Qui l’arrivo di Olimpia3, creatura metafisica e araldo del Beato Bartolomeo, comporta innanzitutto il ribaltamento dei ruoli. È lei ad assumere quello di narratrice, raccontando con toni foschi le tristi vicende che l’hanno condotta lì e spodestando Giove dalla centralità di quel microcosmo. A loro volta, ciascuno dei cinque cercherà di sedurla affidandosi alle proprie qualità affabulatorie.
Il rifiuto della morte equivale al rifiuto della donna e al rifugio in uno stato prepuberale, come per i quattro figli di Giove, per i quali l’idea del trapasso è qualcosa di vago, incomprensibile, addirittura buffo (come i discorsi sulla prossima fine di Silvano: «Gli va il sangue in acqua…») al pari dell’universo femminile. La graduale accettazione della necessaria dipartita coincide con il risveglio della sensualità e di una curiosità carnale che porterà, nel film, al matrimonio collettivo con Olimpia, e all’indimenticabile immagine degli sposi al tavolo nuziale sotto la pioggia scrosciante, mentre la sposa se ne va verso altri lidi.
La storia è finita. Il fuoco non arde più, le braci si vanno spegnendo. Per l’acchiappatopi è tempo di ripartire con il proprio carico di storie verso un nuovo uditorio, e fungere ancora una volta da tramite simbolico tra noi e l’aldilà. Perché «la morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare. Dalla morte egli attinge la sua autorità»4.

 

Note
1 In questo, il film si ricollega idealmente a un classico della letteratura popolare come Le novelle della nonna di Emma Perodi. Pubblicato nel 1893, il volume è una collezione di racconti d’argomento fantastico e orrorifico che si immaginano narrati davanti al focolare da un’anziana nonna ai componenti di una famiglia contadina del casentinese, durante le fredde notti d’inverno.
2 Coerentemente con quanto notato da Ruggero Adamovit e Claudio Bartolini a proposito del ruolo dei curati di campagna nel mondo contadino, «figure ambigue, separate dal mondo dei vivi e in grado di mettere in comunicazione i due mondi». Adamovit Ruggero, Bartolini Claudio, Il gotico padano. Dialogo con Pupi Avati, Le Mani, Genova 2010, p. 68.
3 L’omonimia tra Olimpia e la bambola animata del racconto L’uomo della sabbia di E. T. A. Hoffmann non è il solo rimando letterario: l’incidente del carro su cui la ragazza sta viaggiando, che ne causa l’arrivo alla casa di Giove, riporta alla mente Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu.
4 Benjamin Walter, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, Einaudi, Torino 2011, p. 47.

CAST & CREDITS
Regia: Pupi Avati; soggetto: Antonio Avati, Pupi Avati, Maurizio Costanzo; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Franco Delli Colli; scenografia: Luciana Morosetti; costumi: Luciana Morosetti; montaggio: Maurizio Tedesco; musiche: Amedeo Tommasi; interpreti: Lino Capolicchio (Silvano), Gianni Cavina (Marione), Carlo Delle Piane (Bracco), Giulio Pizzirani (Marzio), Roberta Paladini (Olimpia), Ferdinando Orlandi (il narratore), Adolfo Belletti (Giove); produzione: Antonio Avati e Gianni Minervini per A.M.A. Film; origine: Italia, 1978; durata: 105’; home video: Blu-ray inedito, dvd Aegida; colonna sonora: Centotre.

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