
In principio fu Dylan Dog (1986) di Tiziano Sclavi, il fortunato albo di Sergio Bonelli Editore, all’epoca Editoriale Daim Press, ambientato nella Londra contemporanea degli anni Ottanta. E fu un fenomeno editoriale e di costume, con punte di mezzo milione di copie vendute al mese e un’interrogazione parlamentare contro i fumetti splatter – nel 1990 – che, pur non citandolo apertamente, lo riguardava in quanto punta di diamante di un genere che ebbe così presa tra gli adolescenti. Ma fu con Dellamorte Dellamore (1994) che l’investigatore dell’incubo tornò in Italia, com’era nelle intenzioni originarie del suo creatore: prima nel romanzo omonimo del 1991 sempre a firma di Sclavi (scritto otto anni prima e pubblicato in dodici capitoli dalle Edizioni Camunia con i disegni di Angelo Stano, quindi nella collana BUR di Rizzoli), poi, nel 1994, nella pellicola del trentaseienne Michele Soavi, astro nascente dell’horror italiano in cerca del capolavoro dopo i fasti di La chiesa (1989). Qui, come nel libro – che rivendica soltanto nelle intenzioni la propria indipendenza dal Dylan a strisce –, siamo nel paese lombardo di Buffalora: Francesco Dellamorte è un becchino che s’incarica di dare la pace eterna ai «ritornanti» con un colpo di rivoltella in testa, mentre Lei è una vedova bella e poi rediviva. C’è anche il rotondo Gnaghi, l’assistente muto e un po’ tocco che sa dire solo «gna». E, nell’umorismo macabro che attraversa la pellicola, il discorso sulla morte si fa carico di suggestioni non banali.
C’è tanto Sclavi nel film di Soavi. E c’è una continuità malferma che soggiace alla ricchezza estetica, alla ricerca del dettaglio, alle maglie larghe di una tessitura narrativa non sempre compatta. Ma Soavi è bravo. Ha dalla sua la messinscena sontuosa tra pleniluni sui sepolcri, fuochi fatui e corpi arcuati dalla voluttà, un budget di cinque miliardi di lire e il benestare della Silvio Berlusconi Communications. E un fascino sincero per la materia. Perché il quarto film del regista milanese cresciuto nel solco di Joe D’Amato, Dario Argento e Lamberto Lava parla sì di zombie, ma lo fa innalzando il discorso sopra la putrescenza – tra rigor mortis, teste mozzate e carni lacerate da proiettili e lame che anche qui non mancano –, interrogandosi piuttosto sul senso della vita scolpito nella morte che, come ricorda la filosofia del fumetto, è l’unico evento certo dell’esistente. Lo fa e lo fa fare a un chansonnier de la mort, quel britannico Everett particolarmente centrato nella parte dello schivo, romantico e disincantato… e non solo per via di quella faccia che ha ispirato la saga a fumetti. Lo fa, ancora, recuperando la lezione di Tobe Hooper che, dopo la notte del massacro e la violenza polisemica di Non aprite quella porta. Parte 2 (1986), ha traghettato la morte in quel nonsense in cui andrebbe lasciata. Ma Francesco Dellamorte – Dellamore è il cognome della madre – ci crede. E da intimista qual è la problematizza, filosofeggia su di essa fino a caderne rapito quando è sconvolto dall’amore per quella Lei che rivede in ogni volto e in ogni essenza (come in La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, del 1958, e in Lo sguardo di Ulisse di Theodoros Angelopoulos, del 1995). E dal piccolo cimitero di cui il bel Francesco è guardiano – luogo separato dalla società dove perciò anche gli accadimenti più efferati e morbosi trovano giustezza e coerenza – inizia un processo di scollamento dalla realtà che lo porterà a uccidere più volte, in società, tra la gente, plagiato (o suggestionato) da quella morte incappucciata che si palesa attraverso un marmo cimiteriale, esortandolo all’azione criminale.
Nonostante la presenza di una meteora sexy approdata dalla televisione al cinema e da lì a casa, nonostante una scrittura che fatica a ricomporre i tanti tasselli di cui si serve, nonostante il commento musicale di un Manuel De Sica soggiogato dai sintetizzatori e alcune goffaggini negli effetti speciali (firmati dal pur bravo Sergio Stivaletti), nonostante la distanza che intercorre tra un horror analogico tipicamente anni Ottanta-Novanta e l’osservatore digitale del terzo millennio, Dellamorte Dellamore non è un film sciatto. No, non emoziona. Ma riesce a spettacolarizzare le grandi questioni che presiedono l’esperienza umana, che vanno dalla culla alla bara e da lì all’Ade e al suo regno, mostrando peraltro lo spiccato pleasure funerario del suo regista. Giocandoci su. Ma non troppo.
C’è tanto Sclavi in Dellamorte Dellamore… e tanto della grande letteratura dell’angoscia di ogni tempo, quella che va da Edgar Allan Poe a Franz Kafka, passando per Percy Bysshe Shelley e Bram Stoker. Dello scrittore sono le fluttuazioni oniriche, la dimensione quotidiana dell’orrore e le vie di fuga nel fantastico, ma non il finale che nel romanzo è ben più travagliato, con il paese di Buffalora conquistato dai redivivi. Al Francesco e al Gnaghi di Soavi toccherà un’altra sorte – più aperta, più enigmatica – ma «quando i due eroi imboccano l’autostrada per fuggire da Buffalora e si trovano nel nulla, c’è tutto il versante lovecraftiano del futuro Dylan Dog. Quello dell’orrore presente senza manifestarsi: cioè del mistero» (da un articolo apparso sul «Corriere della Sera» il 22 marzo 1994).
Vincitore del David di Donatello per la migliore scenografia (nella persona di Antonello Geleng), Dellamorte Dellamore non è il capolavoro di Soavi: quello arriverà nel 2006 con Arrivederci amore, ciao. È, invece, un film di confine tra l’horror e il grottesco, la commedia e il fantastico – girato tra Lazio e Umbria, a Guardea, dov’è stato interamente ricostruito il cimitero –, diretto con garbo e una sobrietà insolita per il genere. Una pellicola che nel corso del tempo ha saputo catalizzare l’attenzione di tanti estimatori, tra cui quell’introverso Tiziano da cui tutto nacque un dì: «Secondo me quel film è un piccolo gioiello di umorismo nero e grottesco. Posso dirlo tranquillamente, dato che io ho solo venduto i diritti e non ho fatto altro. La sceneggiatura era dello stesso Michele Soavi e di Giovanni Romoli. Quando l’ho letta ho telefonato a Michele con grande entusiasmo: era molto meglio del mio libro!» ha dichiarato il fumettista a Francesco Cordella in un’intervista per «Il Mattino», il 3 agosto 1999.
Com’è andata a finire? Oggi Soavi è un affermato regista di fiction televisive, Sclavi vive separato dal mondo nella sua casa-eremo di Venegono Superiore, ai confini con la Svizzera, dove risiede con la moglie, i suoi cani e i tanti gatti. Da tempo non lavora più, o quasi. Ha paura di tutto. Ha paura della vita. Perché Dellamorte Dellamore è solo un film. Ma è fuori dal set che i mostri interiori vincono. E, quando questo accade, fa male.
CAST & CREDITS
Regia: Michele Soavi; soggetto: Tiziano Sclavi (romanzo Dellamorte Dellamore); sceneggiatura: Giovanni Romoli, Michele Soavi; fotografia: Mauro Marchetti; scenografie: Massimo Antonello Geleng; costumi: Maurizio Millenotti, Alfonsina Lettieri; montaggio: Franco Fraticelli; musiche: Manuel De Sica; interpreti: Rupert Everett (Francesco Dellamorte), François Hadji-Lazaro (Gnaghi), Anna Falchi (Lei), Anton Alexander (Franco), Mickey Knox (commissario Straniero), Fabiana Formica (Valentina Scanarotti), Claudia Lawrence (Pia Chiaromondo), Barbara Cupisti (Magda); produzione: Audifilm, Urania Film, K.G. Productions, Canal+, Silvio Berlusconi Communications, Bibo Productions, Eurimages; origine: Italia, Francia, Germania 1994; durata: 105’; home video: dvd CineKult, Blu-ray CineKult; colonna sonora: Lunaris Records.