Le tourbillon de la vie. Il cinema di Valeria Bruni Tedeschi
Benedetta PallavidinoLa recente presentazione in concorso a Cannes del suo quinto film, Les Amandiers, ha riportato la generale attenzione su Valeria Bruni Tedeschi, a quattro anni dall’antecedente I villeggianti. “ Valeria non appare, ma forse non c’è mai stata così tanto” ha scritto dal festival Luca Pacilio, forse il nostro critico più attento alle cose francesi. Scansione titoli precedenti conforme a ritmo, se non ancor più pensata: E’ più facile che un cammello…: 2003; Attrici: 2007; Un castello in Italia: 2013.
Del suo percorso si è occupata, non riuscendo – simultaneità delle rispettive uscite e precedenti rallentamenti pandemici- a includere il nuovo titolo, Benedetta Pallavidino. L’autrice, alessandrina, già allieva di Luca Malavasi a Genova, aveva riportato nel 2015 del Premio “Adelio Ferrero”, con una nitida analisi di Sils Maria, ariosa quanto il bel film di Assayas, per poi debuttare in libreria tre anni fa (Anestesia di solitudini. Il cinema di Yorgos Lanthimos, Mimesis, a quattro mani con Roberto Lasagna).
Viaggiando ora da sola, ha modo di mettere in evidenza specifiche prerogative personali nella lettura del cinema. Ciascuno di noi, a ben pensarci, vi si accosta per chiedergli qualcosa di particolare: riuscita delle indagini e origine trasparente del Quesito tendono a risultare, nella maggior parte dei casi, direttamente proporzionali.
Non sarebbe male se, nel quadro complessivo dei libri di cinema (negli anni più recenti purtroppo privi di un sia pur minimo vento in poppa editoriale e di pubblico) la collanina tascabile “Bietti Fotogrammi”, diretta da Ilaria Floreano e già al ventiduesimo titolo, potesse godere, per la sua ricercatezza e originalità, di una maggiore eco. Certamente la merita questa proposta n. 22, che si distingue per profondità di attenzione e precisa aderenza critica all’oggetto di indagine. Facilitata forse in questo, paradossalmente, proprio dalla deliberata ristrettezza dello spazio disponibile. Le neppur 80 pagine in piccolo formato consentono la messa a punto di quattro schede sui film, che riescono ad essere, insieme, sintetiche per forza di cose e analitiche per puntiglio di scrittura. Seguite da un altrettanto agile capitoletto su due “regìe collaterali” della Bruni che non abbiamo avuto modo di vedere in Italia: una versione tv delle Tre sorelle cechoviane (2015) e il documentario Une jeune fille de 90 ans (con Yann Coridian, 2016). Le arricchisce una duplice conversazione (via Skype! procedimento inedito, fino a prova contraria: più lockdown o più nuove tecnologie?) impostata nel marzo 2021 e chiusa col febbraio 2022. Che occupa un terzo esatto del succinto insieme, ma si rivela perfettamente funzionale ad illuminare, assai più di quanto tradizionalmente non accada in consimili occasioni, il percorso intrapreso tanto dalla cineasta che dalla sua interlocutrice.
Emergono da qui, tra l’altro, tanto anticipazioni su Les Amandiers, in gestazione durante la prima intervista e concluso alla seconda, che dettagli preziosi sulla rilevanza che l’esperienza formativa vissuta al celebre teatro di Nanterre riveste tuttora per la cineasta. Chi legge scoprirà parecchie acute annotazioni di entrambe le interlocutrici. Un paio di esempi dell’autrice: “C’è un’estrema onestà intellettuale nella sua scelta di raccontare le cose per quelle che sono, nel renderle dolorose e repulsive attraverso l’esasperazione” (p. 18).
“L’italiano è la lingua che la famiglia utilizza per affrontare le questioni private, per le conversazioni scomode da cui sono esclusi tutti gli ‘estranei’, in qualche modo anche la lingua del candore e della gioia, quella delle canzoni da cantare tutti insieme o con cui aprire le danze di un matrimonio. Il francese, invece, è la lingua del presente, del quotidiano, della rabbia, del risentimento, delle spiegazioni dei conflitti, e a suo modo rispecchia nei toni la difficoltà di vivere al meglio ogni esperienza” (p. 33, a proposito di Un castello in Italia). Ma anche nelle skype-risposte della regista non mancano piccole perle. Due quasi a caso: “Va detto che essere soddisfatti ed essere felici non significa la stessa cosa. Natalia Ginzburg, che amo molto e con cui spesso mi trovo d’accordo, sosteneva di non amare le persone che dicono di essere soddisfatte. Per me vale lo stesso, mi urtano e mi fanno anche un po’ ridere. Ogni tanto vorrei ricordare loro che siamo tutti sulla stessa barca e non c’è ragione per essere soddisfatti” (p. 61); “Mi piacerebbe avere sempre questa visione tragicomica della vita invece spesso sono solo drammatica o troppo seria nelle mie lamentele, perdendo così l’umorismo. Però ritengo che sia una cifra fondamentale per il mio lavoro. […]. Riuscire a ridere è liberatorio, è una boccata d’ossigeno che arriva a te e si ripercuote anche sugli altri. A volte si rischia di rendersi ridicoli, ma io non lo trovo negativo se non è forzato. Rendersi ridicoli gioiosamente e in maniera spensierata può essere riposante e trovo che ci accomuni agli altri esseri umani. E questo sia nella vita che nell’arte” (p. 70).
Personalmente ritengo che Valeria Bruni Tedeschi abbia trovato con Paolo Virzì fino ad oggi i suoi vertici attoriali: in particolare la sua interpretazione (se così la si può definire, ma meglio sarebbe: incarnazione…) della Beatrice Morandini Valdirana de La pazza gioia è un capolavoro nel capolavoro. Oltretutto clamorosamente ribadito da quell’autentico pezzo di storia del cinema fuori schermo dell’indimenticabile serata in cui – affiancata, come nel film, da un’altrettanto straordinaria e subissata Micaela Ramazzotti – ringraziò dal profondo del cuore i tantissimi di dovere per lo strameritato David di Donatello 2017. Se le è toccato anche di essere diretta dai più grandi -Bertolucci, Spielberg, Bellocchio, lo stesso suo maestro Chéreau, Olmi, Chabrol… – ma con prevalenza di situazioni o posizioni un po’ marginali, ha invece reso spesso indimenticabili personaggi di film non annoverati – a ragione o a torto – come di primo piano. Dando anche luogo a significative continuità: si pensi solo al lavoro determinante e a più riprese con Calopresti, o a quelli con Ozon o la Denis, senza dimenticare singoli incontri sorprendenti, da Ferreira Barbosa a Bartas alla Di Majo. Qualora Pallavidino avesse voglia e modo, in futuro, di tornare su questo assai promettente lavoro, potrebbe quindi, oltre ad aggiornarlo, estenderlo proficuamente all’attrice. Non mancherebbero le scoperte, riguardo a una figura che da noi, spesso e superficialmente, è considerata una simpatica eccentrica: la tipica ricca annoiata, certo un po’ dotata ma anche un po’ dilettante, partita nella bambagia e via dicendo. Non è assolutamente così, ove non si confondano personaggi e interpreti, e si abbia presente la sua stupenda dichiarazione citata per ultima. Anche prescindendo dalla nostra ignoranza sulle cospicue prestazioni teatrali in terra di Francia dell’allieva di Chéreau e Romans, facendo qualche conto comparativo si scoprirebbe come, nei decenni più recenti, siano pochissime le attrici italofone di cinema con un’intensità di carriera paragonabile alla sua. I mai abbastanza rimpianti ‘schedatori’ di buona memoria avrebbero potuto dimostrarlo agevolmente, carte alla mano: una cinquantina di titoli nel periodo sono un quantitativo di estremo rispetto, e ne fanno una figura di rilievo nel panorama europeo. (Certo le è stato d’aiuto il poter giocare con spontanea naturalezza sul duplice fronte al di là e al di qua delle Alpi).
Apparirà un paradosso ma, fino a prova contraria, tra le strettamente coetanee solo una la può insidiare: l’a lei più strettamente affine
Valeria Golino, anch’essa passata alla regìa con ottimi risultati, non senza averle dato vita, prima e dopo i suoi Miele ed Euforia, rispettivamente ai due splendidi personaggi della… turgenev-pirandelliana “vera” Natalia Petrovna da Un mese in campagna di Attrici (dove è già sotto la lente il teatro Les Amandiers) e della sorella frustrata Elena de I villeggianti. Un dato quantitativo superiore potrebbero vantare un’altra poi-regista, Laura Morante, e ovviamente Ornella Muti: ma entrambe si sono affacciate al cinema (e…alla stessa esistenza) un decennio avanti, la seconda debuttando oltretutto nel profondo della minore età. Ma certo è interessante la sicurezza con cui la Bruni ha saputo inserirsi nel vasto campo delle attrici-registe, dal muto al contemporaneo, che si risparmia al lettore. Ma è soprattutto la capacità insieme spontanea e coraggiosa di mettersi sempre in gioco con franchezza e a carte scoperte, a fare di questa cineasta completa una figura unica nel panorama complessivo.
Un’ultima annotazione, a rischio magari di politicamente scorretto. In questo libro opportuno e utile, anche per come fa toccare con naturalezza la consistenza di una figura ben meritevole di maggior attenzione, Pallavidino riesce a parlare di questi film, e a farne parlare la diretta interessata, senza il ben che minimo o sottinteso riferimento al ritornello rivendicativo/luogo comune del tema ‘donna’ (le quote rosa disattese nei festival e nei premi, la difficoltà di emergere in un mondo tutto al maschile ecc.). “Tra donne: odio quest’espressione!” diceva – se la memoria non inganna – una protagonista dell’ultimo Pavese. Per fortuna, né alla Pallavidino della trattazione e delle domande, né alla Bruni Tedeschi nel risponderle, passa mai per la mente di tirare in ballo la questione.
Sarà poco, ma non è, agli occhi di chi legga, l’ultimo pregio di una piccola ma meritoria fatica, anche in questo non conformista. La scelta di silenzio, per così dire, è oltretutto un’intelligente maniera di tutelare sul serio, in concreto, una buona causa che altrimenti, nell’ossessività reiterante del suo venir riproposta, sta rischiando, con paradossale ingiustizia, di farsi male da sola.
Nuccio Lodato ©Diari di cineclub settembre 2022