
In molti, di fronte alla crisi che ci attanaglia, e non soltanto in relazione ai suoi devastanti esiti economici, fanno appello alla necessità di variare i parametri interpretativi con i quali da troppo tempo tendiamo a leggere la realtà. Altri avvertono, altresì, l’esigenza di una Nuova Cultura in grado di determinare, in termini esistenziali, spirituali e politici, un Nuovo Inizio. È, infatti, necessario aver contezza dello scacco cui sta andando incontro il sistema politico ed economico che ha dominato il mondo, dal termine del secondo conflitto mondiale. Probabilmente, al di là del facile catastrofismo, il 2012 si presenta davvero come un anno mirabile, segnato dalla fine di un mondo, quello prodotto dalla globalizzazione e dal capitalismo finanziario. Potrebbe, l’anno in corso, assumere, a breve, il volto di un nuovo 1989 che, come è noto, segnò la fine del sistema comunista. Non basta, in conseguenza di ciò, dotarsi di strumenti analitici appropriati: bisogna costruire una possibile alternativa allo stato attuale delle cose!
Dove guardare, al fine di rintracciare una concezione della vita siffatta, che sia, al medesimo tempo, centrata su una critica in profondità del presente, ma che sia latrice dei germi positivi del mondo di domani? Una nuova e coraggiosa iniziativa editoriale, pare rispondere pienamente al nostro quesito. Mi riferisco alla collana “L’Archeometro”, diretta da Andrea Scarabelli, della casa editrice milanese Bietti, che proporrà ai lettori una serie di testi di autori inattuali e di cultura antimoderna. Infatti, è all’interno di tale orizzonte ideale che l’uomo contemporaneo potrà rinvenire la bussola che gli consentirà di orientarsi nella difficile contingenza attuale, al fine di tornare a proporsi come costruttore di storia. È bene chiarire preliminarmente che, in questo tentativo, non si cela alcuna intenzione di proporre esempi significativi di cultura, sic et simpliciter, reazionaria. Infatti, il più autentico antimodernismo non si configura mai come nostalgico sguardo sul passato. Al contrario, tale atteggiamento spirituale induce a individuare nel tempo il luogo dell’eterna vigenza del mito e, pertanto, anche nei momenti di massimo degrado spirituale e di distanza dall’Origine, è possibile agire per una reintegrazione effettiva dell’uomo. Per questo, nella collana compariranno monografie dedicate a Ezra Pound, Andrea Emo, Cristina Campo: autori che vissero un confronto serrato con la propria epoca, e dalle cui pagine si può trarre linfa vitale per ripartire, per il Nuovo Inizio.
Ciò è confermato dal primo libro della collana, da poco nelle librerie, Un’altra modernità di Davide Bigalli. L’autore, noto docente di Storia della Filosofia dell’Università statale di Milano, formatosi alla rigorosa scuola di Paolo Rossi, presenta nelle pagine di questo lavoro un excursus storico-filosofico, dal quale con evidenza emerge innanzitutto la complementarietà di moderno ed antimoderno. Il fine e l’obiettivo teorico, perseguito con acume e attraverso un significativo apparato erudito, con il quale l’autore legge alcuni momenti esemplari della storia del pensiero a partire dal periodo rinascimentale per giungere al Novecento, sta nell’individuare una filosofia della tradizione latrice di una modernità altra, non costruita sul paradigma razionalista. Una modernità, cioè, in grado di riscoprire, di fronte allo scacco reificante prodotto, come i filosofi francofortesi colsero, dalla dialettica dell’Illuminismo, il realismo dell’utopia, l’utopia di un antimoderno aperto al futuro. Allo scopo, Bigalli si avvale in termini originali dell’approccio di storia delle idee, mutuato dalla scuola del Lovejoy, riuscendo a dimostrare l’esistenza di un fil rouge speculativo, da cui poter ri-partire per infrangere il comandamento intoccabile del pensiero unico, l’esistenza di una sola modernità. È questa via speculativa che consente di sorprendere la storia, di tendere imboscate alla contemporaneità reificata.
Il dogma dell’Unica modernità ha fatto del progresso ininterrotto ed incondizionato l’orizzonte di riferimento della vita umana. Per la verità, nel primo Rinascimento si affermò una vera e propria ribellione, in nome dell’Antico, nei confronti delle degenerazioni moderne indotte dalla Scolastica. Il rinnovamento fu esperito come ripristino della condizione primigenia, a causa del rifiuto del presente, avvertito come epoca di decadenza. La cosa, in termini esemplari, fu sintetizzata da Erasmo: “Noi restauriamo le cose antiche, non propugniamo novità”. A tale atteggiamento mentale si accompagnò il presentarsi del genere letterario-filosofico dell’Utopia, il cui spazio elettivo è mostrato dall’isola: realtà geografica controllabile, divenuta oggetto di narrazione razionale. È nel progressivo trasformarsi dell’Utopia, di origine classica, nell’Utopismo moderno che la critica alla modernità perde il connotato nostalgico-archetipale originario per disporsi come oltrepassamento del presente, disancorato dalla tradizione. Strumento essenziale di tale cambiamento prospettico, la nascita del pensiero scientifico, la matematizzazione e riduzione a mera quantità del mondo e della natura. Le due tendenze convissero per un certo periodo, fino a Francesco Bacone, per poi divaricarsi.
Momento topico di tale processo, il movimento dei Lumi. In esso emerse definitivamente il tema dell’ineluttabilità della Rivoluzione, non più intesa in senso eminentemente etimologico-astronomico, come ritorno all’Origine, ma quale proteiforme forza cosmico-storica, profonda cesura. Eppure, ricorda Bigalli, è proprio all’interno del dibattito illuministico sull’idea di progresso che si presentano due tendenze fondamentali per l’individuazione di un’altra modernità: la prima è la tendenza propriamente controrivoluzionaria, di cui De Maistre fu il più insigne rappresentante, che si scontrò con il Nuovo. La seconda, in termini non contrappositivi, tese invece ad affermare una modernità altra, antirazionalistica. Herder certamente ne fu interprete di primo piano, quando volle delineare una storia della civiltà, non costruita sul concetto di ragione. Autore di confine per antonomasia, la sua filosofia si dispone sul crinale, non sempre facile ad individuarsi, che distingue i Lumi dalla Romantik. Nel filosofo tedesco, forte è il richiamo al particolare, al pensiero antiuniversalista che lo indusse a criticare il Rinascimento, inteso come percorso di omologazione intellettuale, imposto in chiave latina, all’Europa.
Questo colloquio tra le parti in causa, il moderno e l’antimoderno, costituito di convergenze e divergenze, è proseguito lungo tutto il corso del Novecento. Nelle pagine del libro, Bigalli ne traccia l’iter, scandito da alcune tappe fondamentali, da brusche fermate e da ripartenze perentorie.
Egli, allo scopo, si sofferma sulla cultura romantica ed idealista, presenta il disgusto antimoderno di Baudelaire, individua in Chateaubriand un autore di sintesi, in grado, pur in diversi momenti della propria vita speculativa, di inquadrare la triade rivoluzionaria di libertà, uguaglianza e fraternità nell’orizzonte cristiano, al fine di farsi profeta di un regno divino di giustizia e per mitigare le ferite inferte alla civiltà dal giacobinismo. L’autore presenta, inoltre, la centralità dell’antimodernismo tragico di Nietzsche, la cui esaltazione del Rinascimento, facente aggio sulla lezione di Burckhardt, diviene la ragione profonda della filosofia del martello che contraddistingue la sua critica sociale.
Infine, gli ultimi capitoli di quest’interessante volume sono dedicati all’analisi del tradizionalismo integrale, al pensiero di Guénon e di Evola. Del francese viene rilevata la volontà di acquisire un punto di vista oltre la crisi e superiore ad essa. Da qui la vocazione metafisica e contemplativa, il suo richiamo all’élite intellettuale come unica possibile via d’uscita dalla inevitabile regressione del mondo occidentale. La sua via è riassumibile in una sorta di nuovo rosacrucianesimo, in grado di porre termine al Regno della quantità. Riguardo ad Evola, si sottolinea come, nonostante l’impianto guénoniano delle opere del periodo tradizionalista, la tensione attiva e pratica della sua equazione personale l’abbia condotto a valutare positivamente la possibilità della rinascita di un Ordine, capace di vivificare la tradizione ghibellina ed imperiale.
Inoltre, Bigalli rileva in Evola una profonda capacità diagnostica, che lo ha indotto a una puntuale descrittiva del contemporaneo. Nelle sue pagine, il fatalismo che contraddistingue la morfologia della storia tradizionalista e il tema della regressione delle caste è, in qualche modo, mitigato o addirittura superato dalla speranza riposta nell’uomo differenziato. Alla presenza e all’azione di quest’ultimo, che non si contrappone al moderno, ma lo cavalca e lo controlla, come si fa con la tigre impegnata in una corsa irrefrenabile, è demandato il compito di un Nuovo Inizio. Dalle pagine di Bigalli, pertanto, il lettore imparerà che chiunque voglia oggi impegnarsi in un’azione di rettifica dell’esistente dovrà porsi al di là delle oramai desuete categorie della Rivoluzione e della Reazione. Probabilmente, si dovrà pervenire ad una posizione teorica che coniughi in un’unica istanza “…e Rivoluzione e Reazione” o, ancor meglio, per dirla con de Benoist, “…e Destra e Sinistra”. Conclusivamente, ci auguriamo che l’appello implicito di questo libro, mirato a costruire Altre Sintesi trovi, quanto prima, chi sappia corrispondervi. È, questa, un’esigenza di valenza epocale.
(Giovanni Sessa, «Politicamente», gennaio 2013)