Maniac(s). L’assassino, il giustiziere e il mostro nella città della paura

Matteo Berardini
William Lustig n. 13/2020

Aggressivo, caustico, notturno. Fedele per lo più alle linee estetiche e culturali del cinema statunitense anni Ottanta (ma di quello sporco, finanche rozzo, orgogliosamente bis), lo sguardo di William Lustig è anzitutto questione di strade, inseguimenti, corpi in movimento. Che siano maniaci, giustizieri o ex poliziotti brutali deformati da forze soprannaturali, i protagonisti di questo cinema sono organismi maligni iniettati nelle arterie del tessuto urbano, marcescenze in circolo dentro città decadenti in cui si rovescia il destino della frontiera e si cede alla forza incontenibile della wilderness, della corruzione, della crisi morale. La New York raccontata da Maniac (1980), Vigilante (1983) e la trilogia di Maniac Cop è una megalopoli della paura in cui ogni vicolo può trasformarsi in trappola, perché il crimine reclama il controllo delle strade. Stupratori, maniaci, rapinatori, non c’è fine alle figure del terrore che l’immagine della città a stelle e strisce anni Ottanta è in grado di produrre e ospitare, specie quando il sole cede il posto alla notte e lo spazio sembra entrare in una dimensione altra, nell’incubo di una civiltà assediata dai barbari. Non ci sono indagini sociopolitiche, nel cinema di Lustig, solo la lucidità estrema e puntuale di chi sa infondere nel gesto filmico il clima e il disagio di un periodo. Ma per capire davvero cosa origina l’oscurità di questi film bisogna andare a scavare tra le pieghe culturali dei cosiddetti “Reagan Years”, dove la trionfale retorica presidenziale si scontra con le contraddizioni di una società in crisi. L’immagine della metropoli che emerge da questa antinomia è la perfetta cartina di tornasole per misurare il grado di disordine, sofferenza e degrado che si nasconde sotto la patina narcisista ed edonista professata dall’ideologia reaganiana.

Il dato più utile per avviare un’indagine riguarda i suburbs, modello urbano che nella seconda metà del Novecento cresce fino a coinvolgere quasi la metà dei cittadini statunitensi. Dal Secondo dopoguerra, infatti, sono moltissimi gli abitanti che decidono di trasferirsi nelle zone suburbane, fasce periferiche che uniscono la comoda vicinanza dei servizi metropolitani al tranquillo isolamento della piccola comunità. Il fenomeno assume presto la consistenza di un esodo di massa, una tendenza centrifuga di cui è protagonista soprattutto il ceto medio bianco e benestante, lieto di potersi allontanare dai quartieri centrali, percepiti come luogo di degrado e caos. Il processo conosce un’impennata all’inizio degli anni Settanta, dopo che le proteste contro la guerra e per i diritti civili, l’onda lunga del ’68 e la rabbia dei ceti più emarginati hanno portato a disordini tali da trasformare interi quartieri in zone di guerra (non sono rari gli interventi della Guardia Nazionale). Chi abbandona la città, però, porta con sé risorse e capitali, utenze e forza lavoro; molte metropoli si trovano costrette a chiudere scuole e uffici, le amministrazioni perdono la loro base fiscale e si deteriorano incappando in serie difficoltà economiche e nell’impossibilità di pagare stipendi e servizi (il caso più celebre riguarda la bancarotta di New York del 1975).

La città statunitense viene così lasciata alle comunità etniche e sociali più povere, che si ritrovano marginalizzate da un tessuto in cui lo spostamento demografico ha generato crateri sociali ed economici, zolle vuote investite dal degrado e poi colmate da nuove forme di criminalità. E qui entra il gioco il cinema, specie quello iperrealista della New Hollywood anni Settanta, che cavalca il sentimento antiurbanista e rilancia l’immagine di una città devastata e pervertita, luogo sporco e pericoloso popolato da tossicodipendenti, prostitute, senzatetto e cinema a luci rosse. Si pensi alla New York di Taxi Driver (1976), incubo allucinato vissuto da un novello Ethan Edwards1.

È in questo scenario di emergenza che, nel 1981, si afferma Ronald Reagan, paladino di ottimismo e propugnatore di una visione del mondo individualista e rampante. Reagan è la risposta all’insicurezza e alla sfiducia che domina il Paese dopo decenni di crisi, il faro che promette di rilanciare economia e società rivitalizzando l’identità nazionale. Peccato, però, che la sua sia l’ideologia di un Giano Bifronte, l’azione politica di chi, in nome del neoliberismo, scinde il Paese in due tra nuove classi sociali vistose, consumatrici, arricchite, e ceti di esclusi dal sogno, poveri che vedono la loro condizione peggiorare sotto i colpi delle deregolamentazioni e dei tagli allo stato sociale. A riflettere la doppia faccia dell’era reaganiana è quindi la grande città in cui si incontrano i nuovi ricchi, figli del benessere e del piacere individuale, e gli have-not. Ma anni di degrado, espansione criminale e sfiducia nelle istituzioni l’hanno ormai trasformata in un terreno selvaggio dominato da mostri in agguato. Costretti a condividere spazi urbani in crisi, gli yuppies anni Ottanta vivono nel terrore di essere aggrediti, perdere i propri beni, essere uccisi. È per questo che nel cinema del periodo, quello di Lustig come di tanti altri, megalopoli come New York si popolano di assassini, maniaci e giustizieri, creature degeneri figlie di quella polarizzazione sociale reaganiana che costringe ceti sempre più distanti a una coabitazione da incubo.

Uscito nel 1980, Maniac restituisce con grande puntualità l’immagine della città della paura. Stretto in una giacca militare e accompagnato dal fantasma della madre uccisa, Frank Zito è l’inquietante punto d’incontro tra Psyco (1960) e Taxi Driver2, uno schizofrenico afflitto dal trauma che abita le strade di notte, caccia le sue prede e assorbe, in quel corpo deforme, sfregiato, scomodo, l’insania di una comunità urbana lasciata a se stessa. «Madness and mayhem, maniac strikes again!», titolano i giornali tra una vittima e l’altra; ma se la polizia è assente, forse spetta ai privati cittadini assumersi il compito di ripristinare l’ordine e farsi sceriffi della città. Vigilante è un altro colpo da profeta di Lustig, un film figlio di Il giustiziere della notte (1974) – di cui ricalca pedissequamente la parabola di un liberal convertito a vendicatore perché deluso dalla società civile e dal suo sistema corrotto – che anticipa però la sterzata spettacolare impressa al genere nei successivi anni Ottanta, quella rilettura poliziesca costruita sulla paranoia dei ceti urbani e alimentata da statistiche riguardanti una criminalità sempre più diffusa. Siamo già dalle parti di Cobra di George Pan Cosmatos (1986), con Marion Cobretti e la sua Zombie Squad presentati in uno degli incipit più iconici del decennio («In America viene commesso un furto ogni undici secondi…»). Unendo il gusto blaxploitation al mitologema della città corrotta vittima della wilderness, Lustig trasporta le logiche del western nel tessuto urbano, rappresentando New York come vittima di bande criminali sulla scia di Walter Hill e del suo seminale I guerrieri della notte (1979).

Escluse le parentesi losangeline di Hit List. Il primo della lista e Senza limiti, sul finire del decennio il nostro torna alla città della paura e porta sullo schermo una tra le figure più emblematiche di quegli anni: il maniac cop, mostruoso poliziotto violento tradito dalle istituzioni, ucciso dai malviventi e tornato (dal mondo dei morti?) animato da furia omicida. L’agente maniaco Matt Cordell è infatti il punto di non ritorno del percorso intrapreso dal moderno giustiziere alla Sentieri selvaggi. Cordell non solo è diventato un brutale poliziotto giustizialista pur di contenere la wilderness, ma ne è stato infettato, come e più di Edwards, come e più di Travis Bickle. Ha veramente assorbito l’abisso, diventando di fatto il villain della situazione, il mostro che incuba in sé i germi di tutto ciò che è andato storto nella gestione pubblica e politica di un contesto sociale spinto al punto di rottura.

William Lustig come interprete dei tempi. E non è un caso, allora, che il suo ultimo film s’intitoli Uncle Sam (1996).

 

 

Note

 

1 Sentieri selvaggi di John Ford (1956) resta il riferimento imprescindibile quando si parla di civilisation e wilderness, e della corruzione morale che infetta chi difende la frontiera guardando in faccia l’abisso.

2 Cfr. Brookhouse Christopher, Gottlieb Sidney (a cura di), Framing Hitchcock: Selected Essays from the Hitchcock Annual, Wayne State University Press, Detroit 2002, p. 368 e sgg.

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