All’epoca dell’uscita nelle sale, Maniac (1980) provocò un rifiuto viscerale da parte della critica, che agli inizi degli anni Ottanta del secolo passato assisteva atterrita all’esplosione del cosiddetto slasher film. «Disgustoso», «Aberrante», «Deprimente e degradante per qualsiasi amante del cinema», furono alcuni tra gli aggettivi lanciati come giavellotti contro il film di William Lustig da stampa e televisione. Il «Los Angeles Times» si rifiutò persino di pubblicizzarne l’uscita sulle sue pagine, e in questo modo Maniac si convertì in una cause célèbre, benché minore, all’interno della comunità di Hollywood.
William Friedkin, lui stesso oggetto di attacchi feroci da parte delle organizzazioni gay e dei critici reazionari per via di Cruising (1980) – vigoroso thriller ambientato nel microcosmo S&M omosessuale di New York – scrisse una lettera al giornale, biasimandone l’intento di limitare la libertà creativa di Lustig. Alla fine la tattica del «Los Angeles Times» fallì clamorosamente, ottenendo il risultato di attirare ancora più spettatori ansiosi di scoprire il perché di tanto putiferio. Un sintomo palese della nuova ondata di conservatorismo morale e artistico che minacciava il cinema statunitense, e destinato a prendere forma eloquente con l’elezione del repubblicano Ronald Reagan come Presidente degli Stati Uniti, il 4 novembre 1980. Secondo i sostenitori di Reagan, era «tornato a splendere il sole negli Stati Uniti» (sic) e tutto il Paese si sarebbe riempito di «torte di mele e bandiere a stelle e strisce»1. Una visione idilliaca e ottimista del presente e del futuro immediato della nazione, che si scontrava frontalmente con l’angosciosa violenza di Maniac.
In maniera ellittica, ma assai incisiva, Maniac mostrava il lato più oscuro di una società devastata dalla decadenza urbana2, dalle conseguenze traumatiche in tutti gli ambiti della Guerra del Vietnam, dalla crisi petrolifera (1973-1979) e dal declino della politica a seguito dello scandalo Watergate. E inoltre, molto significativamente, la sua uscita coincise con la consacrazione mediatica della figura del serial killer, dopo i casi del “Figlio di Sam” – eclatante alias di David Berkowitz, che si aggirava per le strade di New York con un revolver, sparando alle coppiette nelle loro auto; del truce Ted Bundy – colpevole di 36 omicidi provati e fonte d’ispirazione del personaggio di Hannibal Lecter nella serie di romanzi di Thomas Harris; di John Wayne Gacy, conosciuto anche come “Pogo il pagliaccio”, la cui mente, secondo la psicologa Helen Morrison, «aveva la struttura emotiva di un bambino […] incapace di separarsi psicologicamente [dal ricordo] della madre»3.
Analizzato con imparzialità, evitando interpretazioni morali e diagnosi culturali più o meno antropologiche, Maniac non è affatto un film «disgustoso», «aberrante», «deprimente» o «degradante», e neppure un roughie movie – pellicol zeppe di sesso e/o violenza – come Forced Entry (1973) e Water Power (1977) di Shaun Costello, Hardgore di Michael Hugo (1975) o Femmes de Sade di Alex de Renzy (1976): è un racconto crudele sulla tragicità della condizione umana, su un “mostro” che si sente emarginato, in una società incapace di vedere la sua sofferenza. La sua costruzione narrativa ed estetica, molto curata nonostante i limiti tecnici e di budget, richiede un pubblico capace di leggere le sue immagini, di tollerare il suo punto di vista e di capire che, sebbene il testo tratti di cose turpi e orribili, non se ne compiace mai. Nonostante la sua calcolata propensione al grandguignolesco e la sua atmosfera sozza e lugubre, Maniac non è una pellicola arbitraria, priva di senso. Al contrario: questi tratti la rendono necessaria e autentica. Quel mondo, quei personaggi, quella brutalità, non potrebbero essere altrimenti. Quando un cineasta riesce con la sua opera a trasmettere allo spettatore la sensazione schiacciante, inappellabile, che quanto visto potrebbe accadere solo in quel modo – essere narrato solo così – ha trionfato.
Concentriamoci dunque sulla messa in scena di Maniac, espressione materiale delle idee dei suoi artefici, il regista Lustig e l’attore e sceneggiatore Joe Spinell.
Prendiamo l’inquietante appartamento/cubicolo in cui vive il protagonista Frank Zito – un tizio obeso e costantemente sudato, dai capelli unti e dagli occhi minacciosi e smarriti – dove si nota il ritratto della madre circondato da candele, come su un altare. Frank è uno psicopatico edipico, sulla falsariga del Norman Bates di Psyco di Alfred Hitchcock (1960), figlio di una manesca prostituta che lui odia e venera allo stesso tempo. Basti vedere come esplora il proprio torace, toccandosi le cicatrici in modo quasi libidinoso, e i brevi flashback – mentre strangola una sventurata prostituta – che rivelano che fu lui a uccidere la genitrice. Perdipiù, Zito vive circondato da tantissime bambole che contrastano con i manichini dalle suggestive forme femminili, vestiti come le sue vittime e “adornate” con i loro scalpi, strappati post mortem. Sulla parete scorgiamo fugacemente alcuni poster di donne nude i cui genitali sono stati raschiati, accanto a un quadretto della Vergine Maria e a quelli che paiono i resti di una maschera mortuaria, con la bocca aperta, appesa dietro la porta. Un piccolo televisore, con cui l’uomo segue le notizie delle sue macabre imprese, e la custodia di un violino in cui nasconde un fucile a canne mozze, munizioni e un taglierino, completano l’arredamento. Tale spazio riassume fisicamente l’esistenza solitaria di questo killer tumefatto – l’appartamento è ubicato in una zona desolata di Brooklyn, che sembra emergere in modo spettrale nella notte perpetua che lo avvolge –,è il riflesso materiale della sua mente malata e ferita, emozione rafforzata durante i monologhi con i manichini, che «esprimono […] un’incapacità di vivere che eleva il film al di sopra della marmaglia cui spesso è accomunato»4.
Di conseguenza, Lustig trasforma poco a poco l’inumanità di Frank Zito in umanità; l’oscurità del suo mondo racchiude tutte le varietà di trasgressione contro una società mediocre e coercitiva, qui sintetizzate nelle esplosioni di brutalità esplicita. Maniac è indubbiamente molto violento, anche se non tanto quanto sembrò all’epoca. È la sua spaventosa assenza di umorismo, il suo temperamento cupo, la sua ferocia hardcore5 ciò che davvero mette a disagio, poiché, a differenza di altri slasher coevi, non trasforma i crimini del suo protagonista in un gioco o in gag comiche, né approva o celebra le uccisioni, osservate da una distanza gelida e minuziosa. Il sadismo di Frank ci dice molto della sua vita, del suo passato, al pari della tetra dimora in cui si nasconde dal mondo. Sulla manica destra del suo giubbotto spicca lo stemma delle Forze Speciali dei Rangers, attive e letali in special modo in Vietnam, ma a rovescio, segno inequivocabile della sua follia. Il suo modo di tendere imboscate, inseguire, sgozzare, accoltellare o sparare, così come l’uso della baionetta per porre fine alla vita dell’infermiera interpretata da Kelly Piper o l’ossessione per lo scalpo dei cadaveri – pratica in uso presso certe truppe statunitensi nel conflitto del sud-est asiatico6 – ribadiscono come anche Frank sia il “prodotto” di un’epoca estremamente convulsa, di un Sistema che fonda la sua esistenza sulla violenza.
Dunque Maniac si distacca dagli slasher del periodo, che presentano i loro assassini seriali come esseri disumanizzati, essenza del Male più che prodotto della vita politica statunitense, omettendo qualsiasi critica verso gli Usa e le loro istituzioni. Frank Zito è spaventoso perché è verosimile, al pari delle sue carneficine, ed è questo che inquietò e infastidì la critica e il pubblico; e anche se oggi molti spettatori non sanno perché, continua a mettere a disagio.
I serial killer cinematografici affascinano il pubblico perché hanno comportamenti implacabili e compulsivi che non possono contenere, posseggono un’iconografia impudicamente mostruosa che li trasforma in feticci pop – le maschere di Leatherface e la sua motosega, Michael Myers e il suo coltello da macellaio, Jason Vorhees e il machete, Freddy Krueger e gli artigli –, archetipi identificabili e manipolabili che si possono combattere e distruggere. Frank Zito, al contrario, non è una creatura soprannaturale o una specie di moderno babau, ma un tizio grigio, volgare, la cui terribile oscurità interiore ci parla dei margini dell’umanità, della trance di essere ed esistere al di là delle convenzioni. Frank non desta sospetti, è solo “uno in più” nel ribollire di una grande città, ed è questo che lo rende pericoloso.
Maniac è fedele alla natura intrinseca del cinema horror – trasgredire tabù visivi, morali, psicologici, sociali – ma entro limiti che modulano l’intensità della narrazione. Dopo avere letteralmente fatto saltare la testa al tizio della discoteca (cui presta il volto Tom Savini) attraverso il parabrezza dell’auto – un perverso “omaggio” alle gesta del “Figlio di Sam” – Frank punta l’arma verso la ragazza (Hyla Marrow), coperta di sangue e in preda all’orrore. Ma dopo lo sparo dell’arma (in primo piano), il raccordo di montaggio ci porta immediatamente nelle profondità della sua dimora. L’assassinio dell’infermiera è rapido e poco grandguignolesco: la cosa più importante della sequenza è la caccia inquietante della giovane nelle viscere di New York – un tortuoso labirinto privo di vita umana – in «un pezzo di suspense da manuale risolto con un’attenzione ai tempi e alle inquadrature che si è vista di rado nei contemporanei»7. E solo una volta siamo obbligati a osservare come Frank scalpa una delle sue vittime con un taglierino, per scoprire da dove vengono le sanguinolente acconciature dei suoi manichini. Maniac gioca con la nostra mente, invitandoci a completare le barbare attività di Frank – che di solito geme e piange come un bambino dopo ogni omicidio – convertendoci in qualche modo in complici della sua follia. Qualcosa che tentarono di fare, con esiti diseguali, anche Deranged. Il folle di Jeff Gillen e Alan Ormsby (1974), The Driller Killer di Abel Ferrara (1979), Don’t Go in the House! di Joseph Ellison (1979) o Don’t Answer the Phone! di Robert Hammer (1980).
Ma il tandem Lustig/Spinell – quest’ultimo, va sottolineato, offre un’interpretazione notevole, piena di piccole sfumature – supera il triviale, il cliché, per continuare a impressionarci a visione ultimata. Probabilmente, dopo avere visto Maniac, avremo bisogno di «respirare a fondo, e persino farci una doccia, ma non avremo sprecato novanta minuti in qualcosa di insignificante, senza polso, senza cuore»8.
Note
1 Jameson James T., El gigante inquieto. Estados Unidos de Nixon a G.W. Bush, Editorial Crítica, Barcellona 2006, pp. 206-211.
2 Il cosiddetto Urban decay o Urban rot è il processo socioeconomico per il quale una città perfettamente funzionale si degrada in modo allarmante. Vedi Bradbury Katharine L., Downs Anthony, Small Kenneth A., Urban Decline and the Future of American Cities, The Brookings Institution Press, Washington DC 1982.
3 Fritsch Jane, Psychologist has Gacy’s brain in her basement, in «Chicago Tribune», 29 maggio 2004.
4 Curti Roberto, La Selva Tommaso, Sex and violence. Percorsi nel cinema estremo, Lindau, Torino (2003) 2015, p. 274.
5 Non dimentichiamo che Lustig mosse i primi passi nel cinema girando film porno sotto lo pseudonimo di Billy Bagg, come The Violation of Claudia (1977) e Hot Honey (1978).
6 In Vietnam, strappare scalpi o collezionare orecchie come trofei era una pratica che distingueva i guerrieri dai semplici soldati, in un ritorno agli usi più brutali della Frontiera. Vedi Sallah Michael, Weiss Mitch, Tiger Force: A True Story of Men and War, Little, Brown and Company – Hachette Book Group, New York, 2007; oppure Thompson Robert Peter, Everything Happened In Vietnam: The Year of the Rat, Blue Moon Publishing LLC, Apple Valley (MN), 2009.
7 Sex and violence. Percorsi nel cinema estremo. Op. cit. 4, pag. 274.
8 John Kenneth Muir, Horror Films of the 1980s, Vol. 1, McFarland & Company Inc., Jefferson (CN) 2007, pag. 110.
CAST & CREDITS
Titolo originale: Maniac; regia: William Lustig; soggetto: Joe Spinell; sceneggiatura: C. A. Rosenberg, Joe Spinell; fotografia: Robert Lindsay; montaggio: Larry Marinelli (come Lorenzo Marinelli); musiche: Jay Chattaway; interpreti: Joe Spinell (Frank Zito), Caroline Munro (Anna D’Antoni), Abigail Clayton (Rita, come Gail Lawrence), Kelly Piper (infermiera), Rita Montone (prostituta), Tom Savini (ragazzo in discoteca), Sharon Mitchell (seconda infermiera), Nelia Bacmeister (Carmen Zito), William Lustig (Al, non accreditato); produzione: Magnum Motion Pictures Inc.; origine: Usa, 1980; durata: 87’; home video: Blu-ray Blue Underground (import Usa), dvd Storm Video; colonna sonora: SouthEast Records.