Io sono la Legge. Solitudini e istituzioni nel cinema di Lustig

Marco Lazzarotto Muratori
William Lustig n. 13/2020
Io sono la Legge. Solitudini e istituzioni nel cinema di Lustig

In una topaia di New York, nel quartiere in cui si piscia ai margini delle strade e la solitudine del singolo si confonde con la melma, un uomo esce di notte per fare lo scalpo alle puttane che gli ricordano sua madre. Poco lontano, un gruppo di cittadini stanchi di fare i conti ogni giorno con criminali di ogni risma, decide di adottare la loro medesima violenza in nome di una giustizia autogestita, di ripulire la città dai delinquenti andando fino in fondo, arrivando fino al gradino più alto delle organizzazioni criminali, al punto da lambire il posto sacro della Legge. Nel mentre, il corpo di polizia della metropoli è messo in scacco dalle gesta spietate di un poliziotto sadico che ritorna per fare giustizia, anche lui, per mettere ordine in un sistema empio e corrotto che l’ha sacrificato come capro espiatorio: a questo fine non risparmierà a nessuno la stessa violenza che lui ha dovuto subire, alleandosi persino con le gang criminali che la sua divisa dovrebbe combattere. È il 4 luglio, e mentre in città fervono i preparativi per i festeggiamenti, un reduce vittima di un incidente di guerra ritorna dalla tomba travestito da Zio Sam per fare una strage di giovani senza valori, di tutti quelli che non rispettano i principi e lo stile di vita statunitensi: verso una società migliore, verso la rinascita di una nazione, le mani lorde di sangue.

William Lustig nutre un interesse peculiare, ai confini con l’ossessione, per il tema della Legge, intesa come sistema normativo, fatto di diritti e doveri, che lega i cittadini allo Stato. Questo interesse è così forte da essere al centro di ogni suo film, perno inamovibile di ogni progetto. Come ogni ossessione, anche questa implica un conflitto: per Lustig si tratta di quello tra uomo e giustizia, tra soggetto e legge. I protagonisti delle pellicole dell’autore hanno subito ingiustizie, soprusi, hanno un passato di abusi alle spalle, sono stati vittime, si sono sentiti umiliati, esclusi, mortificati, derubati, sono stati privati della loro dignità e delle rispettive identità, di ogni valore fondamentale diventando marmaglia, gli uni addosso agli altri, ingranaggi indistinti e devitalizzati.

Lustig ama i suoi personaggi, ha una propensione spiccata per la descrizione dei loro tratti fondamentali, per la loro umanizzazione; il suo sguardo è colmo di humanitas anche quando è feroce, quando affonda le mani nel fango. I protagonisti dei suoi film spesso vivono una trasformazione che passa attraverso un rovesciamento di prospettiva: lo spettatore, mano a mano che impara a conoscerli, cambia idea su di loro e inizia a vederli in modo diverso, al di fuori degli stereotipi in cui sono stati inizialmente calati. A Lustig interessa far emergere la loro umanità, le loro sofferenze, spiegandoci chi erano per farci capire chi sono e come sono arrivati a questo punto, a scontrarsi con le istituzioni che li hanno dimenticati, facendo di questo scontro la loro insegna, il loro riscatto, la loro nuova, indiscutibile legge. I protagonisti dei film di Lustig sono outsider, cittadini senza diritti, vittime diventate carnefici, abitanti di metropoli senza vertice, alle prese con istituzioni decapitate e una giustizia inesistente che sa solo sanzionare i più deboli, che di fronte ai crimini si volta dall’altra parte, alimentando la rabbia e la vendetta con l’assenza di regole e rispondendo a ogni crimine con il vuoto.

È in questo deserto metropolitano che vive Frank Zito, protagonista di Maniac (1980). Un uomo solitario, vittima di abusi in età infantile da parte di una madre bella e terribile, che lui insiste a cercare e a inseguire in ogni prostituta allo scopo di punirla e assicurarsi, una volta per tutte, di non essere mai più abbandonato. Frank è il ritratto di un perdente, un tipo sudatissimo e gentile cresciuto nel posto sbagliato, messo all’angolo, schiacciato in basso. Frank non ci sta più. Per troppo tempo ha dovuto subire, succube, le incandescenze materne; ora si arroga il diritto di punire, di sanzionare, di riportare equilibrio nel caos secondo il suo personale sistema di valori. Il punto di vista del soggetto, così, si erge a valore assoluto; diventa paradigma, Legge, appunto.

Del resto, come si può continuare a vivere senza giustizia, tollerando che quel posto, quello di guida, resti vuoto? Un atto, quello di uccidere, di vendicarsi, in grado di riportare ordine: diventa un modo con cui il soggetto si rivitalizza, si riempie di vita, ritrovando una posizione attiva nel mondo, agendo ciò che ritiene giusto, sostituendosi allo Stato e articolando la propria volontà come unica legge possibile.

La polis, quella struttura disumanizzante in cui Frank era relegato in un angolo, diventa così la scena in cui lui si guadagna un ruolo da protagonista, auto-investendosi di poteri illimitati, in grado di fargli decidere chi debba morire e chi possa continuare a vivere. Un potere di questo tipo, più che della follia del singolo, è proprio un effetto del posto vuoto lasciato dall’istituzione che non rende più visibile la linea di confine tra bene e male, che non si rivolge più al cittadino, ma solo a pochi eletti. Lustig ritrae Frank Zito con una pietas inusuale, lasciando addosso allo spettatore, oltre al sangue versato, anche un forte malessere: la consapevolezza che non c’è posto per chi soffre, in questo mondo; e che questo microcosmo rappresenta, più in grande, ogni città, e il dramma di questo personaggio – perché di dramma si tratta – è quello di molti che restano nell’oscurità e vivono strisciando in buchi luridi di pochi metri quadri. In fondo Frank è uno che ripete, che rimette in scena, come fanno tutti i personaggi di Lustig, riproponendo serialmente un copione, prevedibile e inesorabile, che mette al centro il potere, una lotta primitiva che gli scalpi ottenuti dal protagonista di Maniac sottolineano di continuo. Non c’è evoluzione, non esiste progresso; tutto si riduce a fare la pelle all’Altro, letteralmente, nell’indifferenza di una città nera e marcia in cui non c’è polizia, non ci sono garanti. Solo le urla e il sangue di madri tremende, e l’assolo disperato di un uomo che vuole impedire loro di andarsene ancora.

Ne sa qualcosa il protagonista di Vigilante (1983), la cui moglie viene trucidata con il figlio piccolo in una scena che ha il realismo e l’immediatezza del trauma. Quei corpi sono carne morta, e non valgono niente. Non c’è possibilità di dialogo con la macchina farragginosa della giustizia, annegata dalla burocrazia e sfigurata dalla corruzione. Allora cosa può fare un cittadino? Cosa può fare chi non vede più riconosciuti i propri diritti? La macchina da presa di Lustig allarga il campo e, dal piccolo universo, dal quartiere di Zito, inquadra la città. Si sposta, assumendo un punto di vista più ampio, eccentrico.

Il risultato non cambia. La risposta del protagonista di Vigilante è simmetrica: la violenza subita diventa violenza agita, vendetta, un piano meticoloso che punta al vertice, a smascherare la farsa di un posto vuoto affinché, in quanto tale, si manifesti. Il fine giustifica i mezzi e per fare pulizia, per mettere ordine, bisogna spargere il sangue: il conflitto rappresentato da Lustig è primordiale, è puro istinto. Non esiste mediazione simbolica: solo il semplice atto, nella sua nuda immediatezza. Qualcuno dovrà pure occuparsi dei crimini che avvengono ogni giorno, visto che le istituzioni simbrano disinteressarsene, intente unicamente ai loro giochi di potere. La pancia della gente grida vendetta, e a questo desiderio si risponde con la semplicità dell’azione, della reazione speculare, servendosi degli stessi brutali mezzi che si condannano. Non è cambiato nulla, la società non si è evoluta, siamo fermi, nonostante la politica e le istituzioni: la natura umana è corrotta, non esistono garanzie. Bisogna fare da soli, ridursi a puro atto e arrivare al vertice, abbatterlo. Così si conclude Vigilante, con un attacco al potere che non lascia niente, solo il nero e i titoli di coda.

Il luogo sacro della Legge è il vuoto, dunque. Non c’è più nessuno, lì. Le stanze sono occupate da cumuli di scartoffie, casi irrisolti, vicende di cui nessuno vuole occuparsi, e tutto ciò che distoglie lo sguardo dai propri interessi personali viene fatto fuori, spazzato via o, peggio, usato come agnello sacrificale.

Matt Cordell, poliziotto dal grilletto facile, braccio armato di una Legge che divide il mondo in buoni e cattivi e preferisce una giustizia sommaria all’incognita di una sentenza irrisoria, è il perfetto rappresentante dell’uomo secondo William Lustig: viene processato, incarcerato e ucciso per coprire gli affari sporchi dei suoi superiori. Forse muore, forse no, sta di fatto che ritorna con il proposito di fare giustizia a modo suo – mettendo alla berlina le forze dell’ordine e creando un piccolo esercito di discepoli pronti a tutto pur di distruggere le istituzioni, delegittimandole – e diventa una sorta di anti-eroe, un vendicatore sadico. La saga di Maniac Cop (1988, 1990, 1993), frutto della collaborazione tra Lustig e Larry Cohen, allarga ancora di più il campo e si sposta negli uffici del potere, nei luoghi di chi la giustizia dovrebbe difenderla, promuoverla, e invece si serve di una divisa per coprire i propri illeciti. La metropoli è sempre lì, immutabile, con i suoi night-club e gli omicidi di un assassino che sceglie le sue vittime proprio tra le prostitute, come faceva Frank Zito. Ma al centro della vicenda, stavolta, non c’è più lui. A Lustig non interessa parlare ancora del microcosmo di un serial killer. Stavolta il regista punta dritto al sistema, mostrando ciò che in Maniac era sullo sfondo: il macrocosmo urbano è malato al vertice. Anche in questo caso il tentativo di fare giustizia passa attraverso la violenza, la brutalità di un atto che non si cura dei suoi effetti, ma mira alla distruzione o, per meglio dire, all’estinzione. La questione è paradossale: può esistere giustizia se i mezzi utilizzati per compierla sono gli stessi che hanno causato la sua assenza? Lustig è pessimista: non può più esistere giustizia. Tutto è a tal punto corrotto, putrefatto, che solo la morte può rappresentare una sorta di pareggiamento dei conti, una sentenza finale insindacabile e senza scappatoie.

È proprio la nazione a essere marcia, non solo la città; il male è nella terra, nello stile di vita, nei valori fondamentali di un popolo. Con Uncle Sam (1996) Lustig chiude il discorso, ancora una volta in coppia con Larry Cohen – che firma il copione –, mettendo in scena una vicenda farsesca, dai toni volutamente caricaturali, in cui un soldato statunitense esemplare, vale a dire un uomo violento e senza scrupoli, ritorna dalla morte travestito da Zio Sam, con l’obiettivo di sterminare chiunque non condivida i princìpi su cui è fondata la nazione, i suoi ideali patriottici e la sua cultura della guerra. I giovani americani privi di valori vengono seppelliti, trafitti, massacrati nei modi più fantasiosi, in un body count pirotecnico e coloratissimo che punta proprio a svelare l’inconsistenza degli stessi valori che vengono enunciati. Non c’è equità in un mondo che si regge su un terreno così iniquo, in cui la vita delle persone non vale nulla e morire è così facile, al fronte come a casa. Sembra di assistere alla chiusura di un cerchio, alla fine di un ciclo, e il tono scelto per quest’ultima narrazione è non a caso grottesco, proprio come le morti che vengono messe in scena, fintissime al punto da sembrare uscite da 1000 Maniacs di Herschell Gordon Lewis (1964). Tutto è in superficie, veloce e stupido, ma questo rende ancora più bruciante il sottotesto, l’obiettivo di Lustig: detronizzare il Paese al suo vertice, minarne le certezze, esplicitarne l’inconsistenza, la vacuità.

La città è vuota, i cittadini sono pedine senza valore, la politica è corrotta, la legge non esiste: esiste, invece, la volontà del singolo che può imprimersi sull’Altro e può diventare Legge attraverso la paura, la prevaricazione. I film di Lustig denunciano con forza l’evaporazione di ogni apparato normativo, utilizzando la violenza per raccontarci che la specie umana è intrisa di barbarie e nessuno sforzo legislativo potrà mai cambiare questa natura; tale visione non tiene nemmeno parzialmente in conto la possibilità che esista una qualche divinità, né qualsivoglia principio di senso civico. Alla fine tutto si riduce, prima o poi, a una lotta per la sopravvivenza, e anche l’uomo in apparenza più evoluto e istruito, in questo contesto, incontrerà presto la sua vera natura. Non c’è spazio per la debolezza, per la tenerezza, nell’universo immaginato da Lustig: homo homini lupus.

Come ci viene ricordato alla fine di Maniac Cop. Il poliziotto maniaco, la differenza tra un poliziotto e un poliziotto sadico è minima. Non è troppo tardi: non può esserci un “tardi” quando la natura umana è sempre stata questa. Non c’è possibilità di cambiamento, dunque.

Nelle metropoli odierne, nell’epoca ipermoderna, le solitudini ritratte da Lustig sono comuni, come comune è il senso di fallimento che la gente si porta dentro; non è dunque strano che certo populismo abbia facile presa. Era sotto i nostri occhi, lo è sempre stato: non c’è redenzione in un mondo senza Dio, dove l’unica libertà concessa all’uomo, garantita dal capitalismo, è quella di consumare, dal momento della nascita fino alla morte.

Questo però non è Lustig, ma Pier Paolo Pasolini.

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