In difesa di Walt: Disney e le fiabe

Chiara Nejrotti
Walt Disney – Il mago di Hollywood n. 10/2015
In difesa di Walt: Disney e le fiabe

Le fiabe in versione Disney sono state oggetto di molte critiche, sia per i contenuti, spesso modificati rispetto alle versioni originali, sia per la grafica dei cartoons, che tende a snaturare i personaggi, come nel caso dei nani in Biancaneve. J. R. R. Tolkien, ad esempio, detestava le immagini disneyane perché riteneva che non comunicassero la magia ed il mistero che emanavano invece dalle illustrazioni fiabesche di Arthur Rackham. Pur apprezzandone in parte il talento, considerava il risultato finale “disgustoso”: le raffigurazioni toglievano ogni epicità al racconto ed ai personaggi, riducendo l’arcaicità e la profondità della fiaba ad uno spettacolo superficiale, di cui si ricordano solo canzoni e gags. Ne Il mondo incantato Bruno Bettelheim afferma che la moda contemporanea di eliminare dalle fiabe tradizionali gli elementi più perturbanti e orrorifici non permette ad esse di svolgere la loro autentica funzione. Eliminare dal racconto ogni elemento terrificante impedisce ai bambini d’imparare ad affrontare le proprie paure e la propria aggressività inconscia (1). Secondo Bettelheim le fiabe contengono infatti riferimenti nascosti allo sviluppo psicosessuale ed ai traumi che esso comporta; nascosti alla sfera cosciente, essi comunicano con l’inconscio del bambino attraverso un proprio linguaggio simbolico: pertanto, attribuire ad alcuni personaggi caratteristiche buffe e/o nomi propri per renderli più “umani”, come i sette nani, interferisce gravemente con il loro simbolismo.

I film a cartoni animati presentano in effetti tutti i difetti che sono stati loro imputati: non sono fedeli all’originale ma ne costituiscono una versione edulcorata; rappresentano i protagonisti secondo l’immaginario hollywoodiano dell’epoca, spesso prendendo a prestito le sembianze di attori reali; inseriscono elementi comici e buffi rappresentati da animali (pensiamo ai topini ed al gatto Lucifero di Cenerentola) o da personaggi che assumono il ruolo dei caratteristi nei film dal vero (come i nani), i quali distolgono l’attenzione dalla vicenda principale… Tuttavia, nonostante queste innegabili mancanze, le fiabe Disney hanno saputo parlare a generazioni di bambini e farsi amare anche dagli adulti; cerchiamo di scoprirne il perché.

Il mago dei cartoons si avvicinò per la prima volta alle fiabe quando era giovane e non ancora famoso attraverso un progetto ambizioso: scegliere sette fiabe celebri e “aggiornarle” rispetto al mondo contemporaneo, utilizzando uno stile ironico ed irriverente. Una di queste è Puss in Boots, Il gatto con gli stivali, che s’ispira alla fiaba di Perrault contaminandola con suggestioni alla Robin Hood e con film famosi dell’epoca, come Sangue e arena; Disney realizzò un cortometraggio del tutto infedele alla lettera del racconto originale, mantenendone tuttavia in qualche modo lo stile ironico, specie rispetto alla figura del Gatto. Successivamente nacque Alice’s wonderland, la prima delle Alice Comedies, un serial in cui una bambina in carne e ossa che interpreta Alice viene inserita nel paesaggio dei disegni animati. Non vi è però alcun effettivo riferimento al romanzo di Lewis Carroll, se non nel titolo. La serie riscosse un notevole successo e permise a Walt di iniziare a pensare in grande. Nel 1928 nacque la sua collaborazione con il musicista Carl Stalling, che portò alla realizzazione delle Silly Symphonies, cortometraggi dai temi spesso fiabeschi in cui musica ed immagini si fondono per creare effetti del tutto nuovi. In seguito Disney affermò: «Volevamo una serie che ci permettesse di usare più in profondità i temi del fantastico, del favolistico e del lirico» (2). Quella che ebbe maggior successo fu la storia dei Tre porcellini, tratta da un racconto inglese per ragazzi; venne adattata anche la fiaba di Andersen Il Brutto anatroccolo e, secondo un’intervista rilasciata dalla figlia Diane alla giornalista Mariuccia Ciotta, pare fossero in programma anche dei cortometraggi ispirati a Il Soldatino di piombo e La Sirenetta.

Il successo delle Silly Symphonies e, in particolare, dei Tre Porcellini convinse Walt ad impegnarsi in un lungometraggio. La scelta cadde sulla storia di Biancaneve, eminentemente per motivi di convenienza: la materia prima data dalle fiabe era già risultata vincente ed adeguata alla versione in cartoni animati. Inoltre, la versione dei fratelli Grimm (che Disney conosceva) poteva essere allungata senza problemi per costituire un film vero e proprio. La sfida consisteva nell’arricchire le caratterizzazioni dei personaggi senza distruggere la struttura della storia: la presenza dei nani si prestava particolarmente a questa operazione. Disney scelse Biancaneve anche per un altro motivo: da ragazzo aveva assistito alla proiezione di un film muto, tratto dal racconto, che lo aveva particolarmente colpito. La pellicola veniva proiettata contemporaneamente su quattro schermi, così da far sentire il pubblico “dentro lo spettacolo” e il giovane Walt pensò fosse una storia perfetta da mettere in scena.

Ne era stata fatta anche una versione teatrale, rappresentata a Broadway seguendo i criteri del Children Educational Theater, che aveva preteso di eliminare dalla fiaba ogni accenno alla paura e alla morte. Quella che a noi sembra una versione zuccherosa ed impoverita fu all’epoca un avvenimento dirompente: secondo la storica del cinema Karen Merrit, Disney osò «di nuovo spaventare i bambini». La scena in cui Biancaneve fugge nella foresta esprime adeguatamente la proiezione all’esterno delle sue paure: la sequenza terrificante degli alberi mostruosi che allungano i rami adunchi come a voler divorare la principessa, mentre tronchi galleggianti si trasformano in coccodrilli spettrali, si scioglie nella serenità delle immagini del bosco alla luce del sole; gli occhi malefici e le strida che sembravano feroci perdono ogni tratto spaventevole quando gli animali si avvicinano alla fanciulla. La sequenza è perfetta da un punto di vista psicologico: gli orrori e i timori della notte cedono il passo alla luce del giorno, che fa rinascere la speranza e la determinazione della protagonista.

Anche il castello e le scene in cui compare la regina assumono toni cupi e orrifici non così usuali nelle storie per bambini dell’epoca: il sotterraneo in cui la regina-strega prepara le sue malefiche pozioni e lo scheletro del cacciatore rinchiuso in una segreta e lasciato morire di fame e sete sono immagini che esprimono tutto il fascino sinistro del racconto.

Mariuccia Ciotta ci ricorda che i disegnatori della scena nella foresta erano europei e si erano ispirati proprio alle illustrazioni di Arthur Rackham, che disegnava alberi antropomorfi e misteriosi dalle linee sinuose, mentre lo stile che tende alla verosimiglianza proprio dello studio disneyano rende ancora più coinvolgenti le scene e favorisce l’immedesimazione del pubblico. Secondo la Ciotta, all’origine della paurosa sequenza della foresta notturna vi sarebbero i film espressionisti tedeschi, che i disegnatori della Disney conoscevano bene: «Nelle lunghe ombre proiettate come fantasmi incombenti sui muri e nelle atmosfere tetre e nei soggetti deformati, anticipavano gli effetti visivi dell’horror» (3).

Anche l’accusa di aver addolcito il finale facendo sì che la strega muoia precipitando in un burrone e non costretta a danzare con scarpe infuocate è vera solo in parte: senza dubbio la scena originale sarebbe stata più tremenda e nel medesimo tempo più fedele allo spirito originario del racconto, ma, come già ricordato, bisogna calarsi nella mentalità di un’epoca in cui venivano stigmatizzate e addirittura censurate le scene particolarmente inquietanti. Se nella trasposizione teatrale la regina veniva perdonata, in un tripudio di buoni sentimenti, Disney ebbe il coraggio di farla morire in una scena che comunque mantiene una sua grandiosità: sono le stesse forze della natura a punirla nel momento del suo massimo trionfo, in una sorta di nemesi divina per cui il male reca in sé i germi della propria distruzione.

Grimilde, la regina, è per certi versi il personaggio umano più caratterizzato e meglio riuscito del film, assai più di Biancaneve e del pressoché inesistente principe, molto più stereotipati. Secondo il professor Stefano Poggi i disegnatori avrebbero riprodotto l’immagine della statua gotica di Matilde di Naumburg, una sorta d’icona della bellezza nordica e nibelungica (il nome di Grimilde compare nella saga) spesso riprodotta nei testi di storia dell’arte europei. L’uso dell’immagine per rappresentare la malvagia regina avrebbe causato la messa al bando di Biancaneve da parte del regime nazista, benché in principio non vi fosse stata alcuna preclusione rispetto alle opere di Walt Disney, che erano anzi molto amate nella Germania degli anni Trenta (4). Nel cartone la regina incarna una bellezza gelida che si trasforma nella raccapricciante bruttezza della vecchia strega, in una scena dai toni horror che richiama lo sdoppiamento del Dottor Jekyll in Mr. Hyde, nella quale la maga abbandona volontariamente ciò a cui tiene di più, l’aspetto esteriore, per uccidere l’odiata rivale. Anche Grimilde ha una corte di animali conformi alle sue malvagie inclinazioni, opposta agli animaletti teneri, gentili e servizievoli che accompagnano Biancaneve. Secondo Oreste De Fornari «si stabilisce qui un principio cardine dell’iconografia disneyana: ogni personaggio umano ha gli alleati animali che si merita e che rivelano come un distintivo la sua indole morale» (5).

Sulla presenza di animali nelle fiabe Disney si possono fare alcune considerazioni: essi non soltanto rivelano il carattere dei personaggi cui si accompagnano, ma sono un elemento fondante dell’universo dei cartoons. Il creatore di Mickey Mouse non rinuncia mai alla loro presenza, che da un lato gli permette di alleggerire la tensione della narrazione con scene comiche, e dall’altro crea un doppio livello nella struttura della sceneggiatura, quasi una storia che si svolge in parallelo alla vicenda principale. Ciò appare particolarmente evidente in Cenerentola: gli affettuosi e furbi topini amici della fanciulla si contrappongono al gatto Lucifero, viziato e capriccioso come la matrigna e le sorellastre, ma le loro avventure con il terribile felino costituiscono a loro volta una sorta di rivincita dei piccoli sulla prepotenza dei più forti. Mentre il deus ex machina di Cenerentola è la fata Smemorina, quello di Gas e Jack, ma anche della stessa protagonista, è il cane Tobia, che fa precipitare il gatto dalla finestra quando questi impedisce ai due amici di liberare la fanciulla rinchiusa dalla matrigna, permettendo così il lieto fine.

Se la presenza degli animali parlanti che aiutano i protagonisti rende la vicenda più “leggera” e divertente, e per questo è stato oggetto di critica, possiamo però ricordare che le fiabe stesse sono piene di animali che fungono da aiutanti magici; da questo punto di vista, Walt rimane insomma all’interno del Paese Incantato.

Un altro elemento che caratterizza le fiabe targate Disney è la rappresentazione di un Medioevo di maniera, che ha condizionato l’immaginario collettivo del pubblico. Il Medioevo disneyano costituisce il culmine della riscoperta americana dell’Età di Mezzo da parte di romanzi come Un americano alla corte di re Artù di Mark Twain (che avrà una versione disneyana con protagonista Topolino). L’interesse per le ambientazioni medievali nasce con il cortometraggio Topolino e la pianta di fagioli del 1933, ispirato alla fiaba popolare inglese Jack e il fagiolo magico; anche se i riferimenti sono minimi, compare già uno degli elementi fondamentali dell’immaginario disneyano: il castello. Esso ci avverte che stiamo entrando in un’altra dimensione. Il castello della regina di Biancaneve è, come abbiamo visto, un luogo oscuro e spaventoso, nel più puro stile sword and sorcery, genere che nasce proprio negli anni Trenta; ma il Medioevo disneyano non è abitato soltanto dalla magia nera, poiché ad essa se ne contrappone sempre una bianca, rappresentata in questo caso dal bacio del principe. La bella addormentata nel bosco del 1959, che ebbe poco successo all’epoca ma che rientra a pieno titolo nei classici Disney, riassume tutti gli elementi di quest’immaginario: la magia nera incarnata da Malefica, sinistra e affascinante, contro quella bianca delle tre fate, i cui nomi richiamano gli elementi della natura che appaiono buffe e pasticcione; l’amore del principe, gli animaletti del bosco e, infine, la trasformazione di Malefica in drago, che il principe deve sconfiggere prima di liberare l’amata dal sonno mortale. In questo caso i castelli sono due: quello in stile neogotico della strega, tetro e tenebroso, e l’altro, luminoso e arioso, del re, padre della principessa.

Ne La spada nella roccia vi è uno scontro analogo tra Merlino e Maga Magò, che assume però il tono della parodia e della risata. Il duello magico si conclude con la maga, divenuta drago, che si ammala di morbillo, perché Merlino si trasforma in un virus. Questi viene tra l’altro presentato più come uno studioso di scienze della natura, precursore dei tempi, che secondo l’immagine letteraria della tradizione.

Le trasformazioni compiute dai due maghi durante il duello richiamano però, per chi sia in grado di accorgersene, le metamorfosi dei due protagonisti del Romanzo di Taliesin, saga celtica in cui si narra come la dea-maga Ceridwen insegua il giovane Gwion dopo che questi ha assaggiato il salmone della sapienza. Al di là del divertimento, nei film Disney c’è molto più di quanto non appaia a prima vista.

L’abitudine di mescolare un Medioevo fantastico e riferimenti alla contemporaneità caratterizza il mondo disneyano: disgustato dalla mentalità che lo circonda, Merlino sparisce nel XX secolo, ma ritornato da Honolulu afferma che, se la sua epoca è «un bel guazzabuglio medievale», quella in cui si è rifugiato è un «guazzabuglio moderno». Secondo il critico Matteo Sanfilippo «l’Età di Mezzo narrata dalla Disney è dunque uno specchio fiabesco e deformante, che riflette il nostro presente per farci sorridere delle sue distorsioni» (6). Nel medesimo tempo, il Medioevo disneyano è di per sé una fiaba, nella quale la volontà e la fantasia del narratore e dello spettatore possono ricreare un passato/presente in cui tutto è possibile. Nei film successivi alla morte del fondatore quest’aspetto si accentua. Vi è un continuo botta e risposta tra contemporaneità e arcaicità e, affinché la magia si attualizzi senza disperdersi, occorre che lo spettatore venga aiutato a scendere gradualmente nel regno della fiaba: tra una canzone e una risata ci si abbandona pian piano alla suggestione del mondo fatato. In tal modo gli archetipi che giacciono nel nostro inconscio possono riattualizzarsi, senza quasi che ce ne accorgiamo.

Uno di essi, forse il più importante, è il confronto con l’Ombra, la parte oscura e perturbante presente in ciascun individuo. È rappresentata dai villains, gli antagonisti degli eroi: oltre ai sentimenti di aggressività, invidia e gelosia che albergano nell’inconscio personale, le loro caratteristiche permettono di far emergere anche il rimosso che costituisce l’Ombra collettiva della società contemporanea: «Se un così ampio numero di spettatori appartenenti a numerosissime nazioni riesce ad immedesimarsi senza esitazioni all’interno dell’identificazione archetipica effettuata dal cinema del Rinascimento Disneyano, è perché esso mette in scena l’Ombra della civiltà occidentale. Grazie alla crescente uniformità che caratterizza l’immaginario audiovisivo, determinati archetipi risultano idonei a rappresentare, pure in contesti estremamente diversi, un’Ombra collettiva sempre più globalizzata» scrive Tommaso Ceruso (7). Per Rinascimento Disneyano l’Autore intende la serie di film usciti tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta, tra cui ricordiamo La Sirenetta e La Bella e la Bestia. A questo proposito, la tematica più significativa è il confronto con la diversità, che può sembrare mostruosa ma racchiude invece bontà e magia – elemento presente, tra l’altro, già nei lungometraggi animati prodotti quando Walt era ancora in vita e di cui Dumbo costituisce l’esempio più importante. Quest’aspetto diverrà un Leitmotiv dei cartoni successivi: da La Bella e la Bestia, in cui il vero mostro è Gaston, bullo di paese che non a caso si vanta delle proprie imprese di cacciatore e considera follia ogni forma di pensiero originale, a Il gobbo di Notre Dame.

È assai interessante vedere come le ultime versioni delle fiabe Disney, ormai prodotti per adulti, ci mostrino l’Ombra in quanto possibilità interna a ciascun personaggio, secondo il motto della serie Once upon a time, «cattivi non si nasce ma si diventa». La nuova versione della fiaba vuole spiegare anche le ragioni dei villains, come nel recente Maleficent. L’oscurità interiore si scatena a causa delle ferite provocate dalla realtà, a cui tuttavia si può reagire in modi diversi, secondo un principio di responsabilità personale; inoltre, essa può essere vinta grazie alla rinnovata capacità di amare, mai del tutto sopita anche nei “cattivi” apparentemente più irriducibili. Come sempre, le fiabe disneyane seguono lo Spirito dell’Epoca; se alla fine del secolo scorso il tema centrale era quello della ricerca dell’identità e dell’accettazione della diversità propria e altrui, in un periodo di crisi come l’attuale prevale forse l’esigenza di comprendere che la tentazione dell’odio e della violenza è in ciascuno di noi e di riscoprire come si possa rinascere anche dopo essere stati colpiti in ciò che si ha di più caro.

Un altro elemento che accompagna il mondo fiabesco disneyano e che a volte ne diventa l’unico protagonista è la natura incontaminata, in cui l’uomo non è presente o è visto soltanto come possibile disturbatore: produzioni come Bambi e Il libro della Giungla, realizzate quando Walt era vivo, o Il Re Leone ci suggeriscono che «lo spazio del sogno non può che essere modellato sulla fuga dalla civilizzazione» (8).

Se la bellezza selvaggia della natura costituisce una possibile via di fuga dall’alienazione della società contemporanea, la via privilegiata resta quella della fantasia stessa, che costruisce mondi incantati. Uno dei classici Disney più conosciuti è Peter Pan. La storia del ragazzo che non vuole crescere era nella mente del mago dell’animazione da molto tempo: da giovane aveva assistito insieme a suo fratello ad uno spettacolo itinerante tratto dal racconto di James Barrie e ne era rimasto così colpito da voler interpretare Peter in una recita scolastica. Nel 1952, anno precedente l’uscita del film, aveva dichiarato alla stampa: «Lui è un ragazzo che può fare tante cose strane… ma la cosa più importante è che sa dov’è Neverland e sa come arrivarci» (9). L’Isola-che-non-c’è è la metafora perfetta del sogno disneyano: un luogo di gioco colmo di magia ed avventura, dove ritornare bambini e lasciarsi andare all’immaginazione più sfrenata. La scena finale del film, in cui si vede il galeone guidato da Peter volare nel cielo, è diventata per intere generazioni di spettatori il simbolo stesso della fantasia.

Probabilmente non è un caso che proprio in quegli anni Walt fosse impegnato in quello che fu il suo progetto più ambizioso, tanto da trascurare perfino la supervisione del lavoro dei suoi disegnatori, cui non aveva mai rinunciato: la costruzione di Disneyland. Il parco giochi non fu soltanto un’operazione commerciale, ma la realizzazione del sogno del suo creatore: una città da Mille e una Notte, una metropoli del futuro e un luogo di sogni e speranze in cui «tutto era tranquillo e rilassato. I visitatori non erano incitati al divertimento; al contrario, sembrava quasi come se ci si fosse dimenticati che erano lì. Risultava che essi avessero viaggiato, per caso o per una qualche magia nel passato. Si trattava tuttavia di un passato particolare, molto più sereno e ordinato di quanto sia mai stato il passato reale» (10). Al di là delle sue straordinarie capacità imprenditoriali, era rimasto il ragazzino che sognava di trasfigurare un passato ed un presente faticosi, ricordandosi della sua infanzia trascorsa a consegnare i giornali per il padre nella neve e nel freddo. Disneyland, con il treno che Walt amava guidare personalmente e tutte le altre attrazioni, era il suo giocattolo personale, con il quale il bambino che aveva invidiato i balocchi visti di fronte alle case dei suoi compagni poteva finalmente riscattarsi.

Egli disse più volte che un buon film dovrebbe far piangere e far ridere: nelle fiabe gli eroi e le eroine passano per innumerevoli traversie ma vi è sempre il lieto fine. Se questo a volte ha condotto la Disney a modificare pesantemente alcuni racconti (soprattutto nel periodo successivo alla morte di Walt, come nel caso de La Sirenetta), è pur vero che l’happy ending è connaturato alla fiaba stessa. È quella che Tolkien chiama eucatastrofe, l’improvviso capovolgimento gioioso della vicenda. Ci fa piangere e ridere contemporaneamente, commuovendoci nel profondo.

Le versioni in cartoni animati non hanno probabilmente la profondità necessaria perché ciò avvenga sempre, ma tendono a questa stessa meta. Inoltre l’essere umano ha bisogno anche di leggerezza: il sogno che trasfigura la realtà può passare attraverso canzoni e risate, l’importante è che lasci una traccia di speranza. Nel recente Saving Mr. Banks la Disney celebra il proprio fondatore e la sua filosofia. La riottosa autrice di Mary Poppins (interpretata da una splendida Emma Thompson) non vuol vedere la propria creazione banalizzata attraverso l’animazione e il musical, ma Disney scopre che nasconde un passato di sofferenza legato alla figura dell’amato padre. Dopo averle raccontato dell’infanzia spesso ingrata e del rapporto con il proprio genitore, Walt (interpretato da Tom Hanks) la convince: attraverso il film la figura del padre dei ragazzi, con tutto ciò che rappresenta, sarà salvata e redenta. «Forse non nella vita, ma nell’immaginazione, perché è questo che facciamo noi narratori: ristabiliamo l’ordine con l’immaginazione, infondiamo speranza senza sosta.»

Il cinema di Walt, con tutti i suoi limiti, intende trasfigurare la realtà e permettere a generazioni di bambini, ma anche adulti, di non smettere mai di sognare. Per volare all’Isola-che-non-c’è occorrono polvere di fata e pensieri felici: in fondo, le sue fiabe continuano a ricordarcelo.

 

  1. Cfr. Bruno Bettelheim, Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano 1982.
  2. Michael Barrier, Walt Disney. Uomo, sognatore e genio, Tunué, Latina 2009, p. 116.
  3. Mariuccia Ciotta, Walt Disney, prima stella a sinistra, Bompiani, Milano 2005, p. 100.
  4. Cfr. Stefano Poggi, La vera storia della Regina di Biancaneve: dalla Selva Turingia a Hollywood, Cortina, Milano 2007.
  5. Oreste De Fornari, Walt Disney, Il Castoro, Milano 1995, p. 49.
  6. Matteo Sanfilippo, Il Medioevo secondo Walt Disney, Castelvecchi, Roma 2003, p. 97.
  7. Tommaso Ceruso, Tra Disney e Pixar: la “maturazione” del cinema d’animazione americano, Sovera, Roma 2013, p. 62.
  8. Ivi, p. 66.
  9. Cit. in Mariuccia Ciotta, op. cit., p. 211.
  10. Michael Barrier, op. cit., p. 375.

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