Drive (2011) «l’ho trovato molto simile a un video e se fosse durato 5 minuti e non 95 mi sarebbe piaciuto molto»1. Così scrive a proposito del film di Refn Nabil, uno dei maggiori videomaker contemporanei, poco prima di chiudere la sua prefazione al libro di Luca Pacilio dedicato ai mutamenti estetico-produttivi, ai nomi e alle firme del videoclip dagli anni Ottanta a oggi. Insomma, di fatto una stroncatura la sua – per certi versi anche perfida, in una manciata di caratteri – che però implicitamente contiene e coglie molto altro. Poiché sa bene di che si tratta, di cosa e di chi sta parlando, Nabil. Sa, cioè, che Nicolas Winding Refn è un regista che concepisce e pratica, inscena il suo cinema, le immagini e le loro combinazioni con altre forme testuali, con una non indifferente consapevolezza del grande, onnicomprensivo immaginario audiovisivo fabbricato e consumato nel nostro tempo2. Un immaginario continuamente ridefinito e frammentato, espanso, in cui il cinema è solo una tra le tante possibili sorgenti visive insieme al web e alle sue narrazioni in social network, le sue serializzazioni selfie, i suoi inesauribili contenitori di immagini riciclate, prodotte e riprodotte, diffuse (qualcosa di cui è figlio, per dire, anche il neo-musical La La Land di Damien Chazelle [2016])3.
Nabil sa, per esempio, che anche Refn lavora sulle immagini e la musica in un’epoca in cui videomaker, YouTube e social media hanno rivoluzionato, tra le tante cose, lo stesso ascolto musicale poiché, come scrive Marco Testoni, oggi «l’ascolto della musica è subordinato a una visione o, come si potrebbe spiegare e definire meglio, a un “ascolto visualizzato”. […] La consuetudine radicata di ascoltare musica accompagnata da un video ha infatti portato a una nuova definizione del gusto e dell’estetica […]. Il linguaggio musicale, mescolato a quello visuale, è ormai definitivamente l’esperanto del web»4. È in effetti una sintesi che può apparire troppo perentoria ma contiene senz’altro del vero.
«Tuttavia – rileva sempre Testoni – un discorso a parte merita l’ascolto in automobile o in cuffia che, per ovvie ragioni, sembra essere rimasto l’unico momento integralmente dedicato all’esperienza musicale pura»5. Ed è da qui che torniamo a Refn e al suo Drive. Perché la logline del film, secondo il regista di Copenaghen, è proprio questa: «All’improvviso ho capito che il cuore del film era un uomo che guida ascoltando musica pop»6. Anche se poi il film è qualcos’altro… Ma, soprattutto, quell’«ascolto visualizzato» obbedisce in Refn a un sovvertimento di gerarchie. Racconta il regista perché: «Di solito è la musica a conferirmi un’immagine di qualche tipo, e poi quell’immagine entra a far parte del film»7. E aggiunge un esempio che riguarda proprio Drive, dichiarando di avere avuto l’idea della scena dell’ascensore, in cui Driver prima bacia Irene e poi fracassa il cranio dell’uomo vicino a loro, dall’ascolto di An Ending di Brian Eno8. Del resto se affermi: «Quando faccio un film, cerco sempre di immaginarlo come se fosse una canzone»9, tutto diventa ancora più chiaro.
Sotto l’aspetto dell’incrocio tra musica e immagini, Drive rappresenta la vetta di un equilibrio efficacissimo, il punto di contatto tra il Refn passato e quello che verrà. Il film, cioè, coreografa l’attitudine visionaria del regista con una trasparenza mai così limpida nella produzione precedente e successiva. Da qui prende avvio la collaborazione costante con Cliff Martinez – ex batterista tra gli altri di Captain Beefheart, Lydia Lunch, Red Hot Chili Peppers – autore di colonne sonore per diversi registi (moltissime per Steven Soderbergh) impegnato anche con My Life Directed by Nicolas Winding Refn (2014), documentario di Liv Corfixen, moglie del regista danese. Collaborazione che segna anche l’inizio di una ricerca di suoni, atmosfere, temi musicali più metodica rispetto alle opere precedenti. Ma non è solo questo. Perché è proprio nell’intersecazione linguistica degli elementi che Drive rappresenta qualcosa di unico. Perché da sempre Refn conferisce alla musica una consistenza fisica, facendone un’ “attrice”. Sin dall’inizio ha lavorato – anche con una felice irregolarità divisa tra gusto narcisistico e consapevolezza, intuizioni e divertissement – sui confini percettivi dello spettatore-ascoltatore, su fusioni e sbalzi diegetici/extradiegetici della musica in un percorso che parte già dal primo capitolo della trilogia Pusher (Pusher. L’inizio, 1996). Ma Drive rappresenta davvero una sintesi perfetta e, allo stesso tempo, un esito a sé, perché più di tutti gli altri film del regista “semplicemente” non potrebbe esistere, non potrebbe essere ciò che è senza la musica. Quella musica. Su/tra/dentro quelle immagini. In questo modo diventa forse più facile comprendere come audiovisivamente – nel senso e nel segno proprio di una raffigurazione plastica, di una composizione delle forme – i successivi Solo Dio Perdona. Only God Forgives (2013) e The Neon Demon (2016) sembrino dialogare più con un film come Valhalla Rising. Regno di sangue (2009) che con l’opera interpretata da Ryan Gosling e Carey Mulligan. Mettiamola così: in Drive la questione è proprio di sostenibilità. E allora a mostrare di che film si tratta esattamente possono bastare – ancor più di Wrong Floor di Martinez, derivato direttamente da An Ending di Brian Eno per la famosa scena dell’ascensore – brani come Under Your Spell dei Desire e soprattutto, in forma assoluta, i pochi minuti di A Real Hero di College con gli Electric Youth: Driver, l’amata e il bambino di lei dalla “gita” in macchina fino al ritorno a casa, ai ralenti amati da Refn. E poi lo stesso brano, ancora nel finale, sulla partenza dell’eroe per non si sa dove, a sigillare l’addio, l’amore di lei rimasto orfano su quel pianerottolo. La fine del film. Le immagini sono lì, “cinematograficamente accettabili” perché lì è la musica. Musica che nelle opere successive non sarà più solo attrice, ma diva, quasi facendosi immagine essa stessa, parallela: cadono perciò gli equilibri, non possono più esserci incastri veri e propri né risonanza, adesione, equivalenza o, al contrario, attrito. Non è più questione di contatto, di impasto linguistico, ma di un potente dualismo sensoriale. Siamo già oltre Drive, dunque, e più dalle parti, semmai, di Valhalla Rising, che tuttavia nel lavoro sulla musica possedeva senz’altro maggiore ancoraggio alle scene, al racconto, nonostante un impianto visivo (meglio: una concezione e costruzione dell’immagine) che custodiva già i semi di Solo Dio perdona e The Neon Demon. Due film, questi ultimi, che estremizzano progressivamente la forma-immagine come involucro, minimizzano la narrazione, i personaggi, la parola. Dal videoclip esteso, messo in lungometraggio, di Drive siamo dunque a un oltre che dilata, esaspera lo spazio audiovisivo dello spot, trascina in territori “paravideoartistici”. E la soundtrack diventa ulteriore elemento perturbante. Pensiamo soltanto alla scena in Solo Dio perdona del combattimento-coreografia tra Julian (Ryan Gosling) e Chang (Vithaya Pansringarm), alla preparazione della lotta. Qui lo splendido Wanna Fight di Martinez diventa già di suo ipnosi, presenza violentissima, come a traghettare i Goblin di Dario Argento sui ralenti, sul movimento dei corpi in questa palestra thailandese (probabilmente è la scena dove il dualismo di cui sopra è più comunicativo e immediato). In The Neon Demon siamo poi alla pura estetica, all’assolutizzazione della forma: musica e immagine negano l’interazione ma sono scrittura su scrittura, sono doppia forma. Addirittura, secondo Simone Emiliani, l’opera conduce «in quella che potrebbe essere l’epoca post-videoclip»10. Le sonorità elettroniche, i sintetizzatori dark di Martinez non “devono” più nulla all’immagine. Del resto questo era stato in un certo senso già ribadito, in un tempo assai più ridotto, nello spot girato dal danese e musicato dal compositore americano per il cognac Hennessy X.O: in poco più di un minuto e trenta «A film by Nicolas Winding Refn».
Certo è curioso poi, da un punto di vista meno stringente, constatare una corrispondenza ironica tra film come Solo Dio Perdona e Bronson (2008): il teatro mentale del criminale britannico nel secondo e la passione per il canto del giustiziere spietato Chang nel primo. Opere molto diverse e personaggi agli antipodi ma accomunati dalla performance: allora ecco Tom Hardy che “mette in scena” un When I’m a Rock ‘n’ Roll Star di David Cassidy, mentre il finale di Solo Dio Perdona torna al Chang cantante, in un locale, anche se questa volta la voce non è più quella dell’attore Vithaya Pansringarm. Restano però il suo corpo e le sue labbra ad accogliere la voce di Proud sul carillon dolce di Ter Kue Kwam Fan (You Are my Dream). Una chiusura sarcastica. Grottesca.
Prima dello spartiacque di Drive, Bronson era riuscito a incarnare nella maniera più vivace e libera il Refn musicale, qui nell’idea di un grande spettacolo comico. Proprio quel progetto, Bronson, inizialmente aveva lasciato Refn un po’ perplesso, per poi diventare il film che avrebbe, in fondo, quasi ribaltato comicamente tutto quello che c’era stato prima. Pensiamo al marchio musicale, la batteria, le chitarre che incorniciavano la galleria dei personaggi su sfondo nero nei primi minuti della trilogia Pusher, quel theme identificativo dei tre atti che, sebbene firmato da The Prisoner o da The Bleeder Group, rispondeva sempre a progetti musicali di Peter Schneidermann (curatore della colonna sonora dei tre film dietro il nome Peter Peter, in azione anche in Bleeder nel 1999 e in Valhalla Rising, insieme a Peter Kyed, già al suo fianco per Pusher 3. L’angelo della morte del 2005). Pensiamo al Bach di Bleeder; al cupo, paranoico universo di Brian Eno e J. Peter Schwalm in un film sulla visione come Fear X (2003); alla Sad Disco di Keli Hlodversson che racchiudeva tutta la solitudine disperata di Tonny (Mads Mikkelsen) in Pusher II. Sangue sulle mie mani (2004). Ecco, Bronson sembra un rovesciamento beffardo di tutto. La violenza del personaggio interpretato da Tom Hardy gira tra il Va’ pensiero e La Vergine degli Angeli di Verdi, la Marcia funebre di Sigfrido e l’Entrata degli dei nel Valhalla di Wagner, e poi Bruckner, Strauss e Puccini fino a It’s a Sin dei Pet Shop Boys e Your Silent Face dei New Order. La musica come scansione che qui, solo qui, diventa quasi il vero montaggio del film (a proposito: al montaggio c’è Matthew Newman, in realtà già collaboratore di Refn nel 2007 per il televisivo Miss Marple: Nemesi, elemento non secondario per quanto riguarda l’estetica audiovisiva refniana da qui in avanti). E forse non è un caso che Bronson sia l’unica opera del regista senza un compositore a curare la colonna sonora11.
Gli anni Novanta di Refn finiscono definitivamente nel 2008 e, intanto, l’elettropop di un brano come Digital Versicolor dei Glass Candy, quasi a scavalcare Valhalla Rising, sembra già annunciare Drive.
Note
1 Nabil, Prefazione, in Pacilio Luca, Il videoclip nell’era di YouTube. 100 videomaker per il nuovo millennio, Bietti Heterotopia, Milano 2014, p. 13.
2 Non sorprende, infatti, che prima di Drive Nabil menzioni Enter the Void (2009) di Gaspar Noé, cineasta per alcuni aspetti simile a Refn, scrivendo che se il film «fosse durato quattro minuti si sarebbe rivelato uno dei migliori video mai concepiti» (ibidem). Tra l’altro, Jonny Costantino ci ricorda che «per girare la scena dello Skull Crushing (col titolo del brano della soundtrack di Cliff Martinez che l’accompagna), Refn ha chiesto consiglio proprio a Noé, dal momento che il cineasta francese aveva esemplarmente mostrato in Irréversible (2002) che cosa un estintore può fare a una scatola cranica. I due si sono incontrati a Parigi e in seguito Refn ha rilasciato un commento del tipo: “Se devi fracassare una testa devi chiedere al maestro”». In Costantino J., Nel grumo rovente. Su Drive di Nicolas Winding Refn, in «Rifrazioni. Dal cinema all’oltre», n. 9, maggio 2012, p. 48.
3 Vedi Proietti Fabiana, City of stars? Il film-YouTube e la losangelizzazione del mondo, in SentieriSelvaggi.it, 30 gennaio 2017, www.sentieriselvaggi.it/city-of-stars-il-film-youtube-e-la-losangelizzazione-del-mondo.
4 Testoni Marco, Musica e visual media. La colonna sonora e i suoi protagonisti: dal compositore al music supervisor, dal sound designer al consulente musicale, Dino Audino Editore, Roma 2016, p. 15.
5 Ibidem.
6 Pontiggia Federico, Nuovo cinema Refn, in Cinematografo.it, 23 settembre 2011, www.cinematografo.it/news/nuovo-cinema-refn.
7 Yanick Joseph, Nicolas Winding Refn parla delle sue colonne sonore, in Noisey.it, 11 giugno 2015, noisey.vice.com/it/article/nicolas-winding-refn-intervista.
8 Ibidem.
9 Refn racconta anche che Drive «doveva avere un suono elettronico molto femminile, all’antica. Ho ascoltato un sacco i Kraftwerk, Brian Eno, cose anni Ottanta durante tutta la realizzazione del film. Cliff Martinez ha imitato il sound di quel tipo di “europop” che, infatti, riesce a bilanciare la mitologia americana e molto virile del film». In McGillicuddy Louisa, Intervista a Nicolas Winding Refn, il regista di Drive, in Vice.it, 30 settembre 2011, www.vice.com/it/article/intervista-a-nicolas-winding-refn-il-regista-di-drive.
10 Emiliani Simone, The Neon Demon, di Nicolas Winding Refn, in SentieriSelvaggi.it, 8 giugno 2016, www.sentieriselvaggi.it/the-neon-demon-di-nicolas-winding-refn.
11 «Bronson è fondamentalmente musica con cui sono cresciuto da piccolo combinata con il nucleo classico da cui opera. Da lì in poi, ho più o meno usato solo musica elettronica. […] Non mi serviva un compositore in quel momento per trovare ciò che stavo cercando. Chiesi ai Pet Shop Boys di comporre qualcosa, prendendo come spunto i riferimenti classici. Loro risposero: “Sicuro, ma non te lo puoi permettere, bello”. Ed era vero. Ma mi trattarono bene e mi diedero il permesso di usare una delle loro canzoni» in Yanick Joseph, op. cit..