Intervista a Domenico de Simone: «La moneta-debito e le crisi economiche»

Rita Catania Marrone
L’altra faccia della moneta – Per una filosofia della sovranità politica e finanziaria n. 4/2013
Intervista a Domenico de Simone: «La moneta-debito e le crisi economiche»

Quali sono a Suo parere le cause della crisi che stiamo vivendo?

La crisi economica e finanziaria, che ha investito il mondo intero con grande virulenza nel 2007 e nel 2010 ha avuto una nuova drammatica fiammata che dura tuttora, ha radici lontane.

La verità è che il sistema capitalistico passa da una crisi all’altra, sempre più violenta e profonda, e non c’è nessuna spiegazione soddisfacente di questo fenomeno, né il capitalismo ha elaborato antidoti efficaci per impedirle. La gente ha poca memoria, soprattutto dei fatti spiacevoli, e non ricorda le crisi del passato, se non quelle di dimensioni tali da essere passate alla storia, come quella del ’29. Anche il mediatico ha pochissima memoria, o fa finta di non averla, e non ricorda le crisi anche recenti. Gli anni Ottanta hanno rappresentato, almeno in Italia, l’ultima illusione di una crescita possibile in un clima sociale relativamente stabile permeato da un certo ottimismo. Sono gli anni della crescita del debito pubblico in rapporto al PIL, che passa in pochi anni dal 63% del 1982 al 90,83% del 1988, ma anche quelli del “divorzio” tra la Banca d’Italia e il Tesoro. Ancora quattro anni e il debito supera il PIL attestandosi nel 1992 al 105,49%. In quell’anno ricordo la grave crisi finanziaria che consentì l’attacco speculativo di Soros e compagni e che comportò l’uscita dell’Italia dallo SME. Da allora viviamo in uno stato di crisi permanente, interrotto sporadicamente da periodi di pausa sempre più brevi ed episodici.

Ripeto da anni che il nodo del problema è il debito, che è destinato inevitabilmente a crescere poiché la stessa moneta viene creata sul debito.

Ora che il debito aggregato è divenuto un multiplo del PIL, qualcuno si sta rendendo conto che forse il problema sta proprio qui. Solo che rendersene conto comporta mettere in discussione il fondamento stesso dei capitalismo, ovvero il capitale e la sua natura. Intendo il capitale come denaro che si traduce in mezzi di produzione per l’esercizio dell’attività di impresa e genera profitti. La creazione del denaro sul debito comporta che la crescita dell’economia sia accompagnata necessariamente dalla crescita del debito e quindi degli interessi che l’utilizzo di questo comporta. Ma gli interessi sono per lo più una rendita, né più né meno di quanto non lo fosse il possesso della terra all’epoca della Rivoluzione Francese. Una rendita che si impadronisce di quote crescenti della produzione e che, sfruttando il proprio dominio, ha determinato per la propria esistenza condizioni di assoluto privilegio. Tra queste, l’evidente sperequazione tra il trattamento fiscale delle rendite da azioni o titoli o gestione di immobili, rispetto alle condizioni direi quasi schiavistiche a cui il regime fiscale sottopone il lavoro. La creazione di denaro sul debito ha due conseguenze immediate. La prima è che il denaro tende ad essere sempre più scarso, poiché questo stato ne aumenta la redditività, e la seconda è che la crescita dell’economia dipende dalla crescita del debito. Da qui derivano sia le profonde sperequazioni nella distribuzione del reddito, al punto che nei “paradisi fiscali” poco più di ottantamila persone posseggono tanto denaro quanto il PIL di USA e Giappone messi assieme, sia le crisi di debito sempre più violente e ravvicinate. Gli effetti del capitale finanziario nei Paesi non sono molto diversi da quelli delle cavallette sui campi di grano. Arrivano in sciami sempre più grandi e incontrollabili, prendono tutto quello che c’è da prendere e poi se ne vanno, lasciando miseria e desolazione.

 

Da quanto detto, le cause di questa crisi paiono, in qualche modo, implicite nelle premesse di quello stesso sistema che ora si trova in una situazione drammatica…

Direi che la situazione di crisi permanente cui accennavo sopra non consente di pensare a cause episodiche. Sono convinto che questa sia la crisi terminale del capitalismo di guerra e che l’ultima guerra venga combattuta con strumenti finanziari ed elettronici e, solo marginalmente, con strumenti bellici. Gli effetti sono esteticamente diversi, ma i risultati non cambiano e su un piano etico si tratta comunque di un conflitto. Dico subito che non si avrà un vincitore, ma tutti i popoli del mondo ne usciranno sconfitti.

Se questo è vero, dobbiamo anche dire che la crisi era prevedibile. Il problema è che per farlo sarebbe stato necessario situarsi al di fuori della logica del sistema per sottoporlo ad una critica rigorosa, e questo pochi erano in grado di farlo e, soprattutto, nessuno di loro è stato ascoltato. Nel 1989, con la scomparsa repentina, ma anch’essa prevedibile, dei regimi dell’URSS e dei paesi satelliti e, negli anni immediatamente successivi, con la “conversione” della Cina al capitalismo, restava solo Cuba a tenere viva l’idea che fosse possibile un sistema economico diverso dal capitalismo delle multinazionali e delle “sette sorelle”. In pratica, l’idea stessa di un’alternativa al capitalismo è tramontata definitivamente proprio quando ce n’era più bisogno. Il capitalismo in occidente era in qualche modo temperato dall’idea della possibilità di un’alternativa, anche se il “comunismo” burocratico dell’URSS non era certo un sistema né appetibile né praticabile. Nei paesi occidentali la ricerca di una via nazionale al socialismo si era tradotta in un sistema di welfare e di redistribuzione del reddito tutto sommato accettabile ed in alcuni paesi efficiente, soprattutto in quelli di area scandinava dove il welfare ancora resiste, anche se con molte difficoltà. Il “trionfo del capitalismo”, dopo la caduta del muro di Berlino, ha portato con sé anche l’affermazione dell’ala più estremista del capitalismo, quella che ha determinato la sostanziale abolizione del welfare in mezza Europa, che ha indotto le imprese a privilegiare l’aspetto finanziario su quello produttivo, che spinge per la privatizzazione di ogni settore delle attività umane, compresi servizi essenzialmente pubblici come la polizia e il fisco, per non parlare della sanità e della scuola. È il trionfo del dominio del denaro sulla vita, dell’interesse sul benessere, del debito sulla produzione.

La società dovrebbe avere come fine la tutela della vita e della libertà dei cittadini per consentire a ciascuno di cercare la felicità, come recita pomposamente la Costituzione americana, e non dubito che i padri fondatori avessero in mente questo, così come non dubito che i nostri padri costituenti volessero davvero una società fondata sul lavoro per il raggiungimento del pieno sviluppo della persona umana. Ma queste sono rimaste solo buone intenzioni prive di alcun significato concreto. I difensori della nostra Costituzione dovrebbero rendersi conto che l’azione dei governi degli ultimi venti anni e la situazione effettiva del Paese contraddicono in modo palese buona parte dello spirito e della lettera della Costituzione. A cose fatte qualcuno chiederà di modificarla, come si chiede all’esercito sconfitto di ammainare la bandiera dopo la battaglia perduta.

È ormai evidente che il modello europeo, la “via socialdemocratica al capitalismo” o, se preferisce, la “via capitalistica al socialismo”, ha perduto la sua battaglia contro il liberismo sfrenato nordamericano e che la crisi europea è soltanto la conseguenza di questa rovinosa sconfitta.

 

Che differenza c’è rispetto alle altre grandi crisi del passato, come ad esempio quella del 1929?

La natura di questa crisi non è affatto diversa da quella delle crisi del passato. Si tratta sempre e comunque di crisi di debito e del panico che queste comportano tra gli operatori economici. La differenza consiste essenzialmente nel modo in cui la crisi si manifesta, negli strumenti che sono stati adottati, nella profondità e vastità di quella attuale, che è molto più grave del disastro del 1929. In altri termini, sostengo che le crisi del capitalismo, dai primi dell’Ottocento sino ai giorni nostri, siano tutte state indotte dai meccanismi di creazione di denaro sul debito, cosa che peraltro era già nota ai tempi di Marx, quando questi notava, nel terzo libro del Capitale, che nel 1850 in Inghilterra circolavano trecento milioni di Sterline in cambiali a fronte di ventitré milioni di banconote. E poiché quelle obbligazioni erano esigibili a semplice richiesta e per l’intero, “non è questa una situazione che ci può far venire le convulsioni in ogni momento?”. Ovviamente oggi le situazioni sono cambiate, i meccanismi di controllo si sono moltiplicati, le obbligazioni sono completamente diverse da quelle di cui parlava Marx. Ma la logica del sistema è identica: basta guardare i bilanci di molte banche per rendersi conto che le convulsioni possono verificarsi davvero in qualunque momento. Ma, a parte queste ultime, che sono comuni a molte situazioni di grande tensione, il comune denominatore è dato dal ruolo del debito e del denaro, sia in moneta che in banconote. La scarsità del denaro produce indebitamento e il rallentamento della crescita economica genera insolvenza diffusa nella società e paura che, a sua volta, induce ulteriore scarsità di moneta. Che differenza c’è, sotto questo aspetto, tra allora e oggi? Le autorità che gestiscono l’economia mentivano allora per “dare fiducia” alla gente e mentono ora per “dare fiducia” ai mercati.

 

A prescindere da somiglianze e differenze, come può una crisi di ricchezze virtuali, nata in ambito finanziario, colpire il sistema dell’economia reale, quindi la produzione di beni e servizi?

Il problema è che il denaro nel capitalismo svolge tre funzioni, di cui due sono utilissime mentre la terza genera tutti i problemi. La funzione di unità di conto, che vuol dire per esempio che i bilanci delle società, qualsiasi cosa producano o facciano, sono esposti in moneta e quindi in una sorta di lingua che ne descrive l’andamento economico, e la funzione di mezzo di scambio, per cui tutti i beni e i servizi hanno un prezzo espresso in moneta e con lo stesso strumento posso comprare le cipolle al mercato, un’automobile e remunerare il lavoro di qualcuno; queste sono le funzioni essenziali.

Quella che crea problemi è la funzione di riserva di valore che è connaturata all’essenza stessa del capitalismo. Si tiene il denaro perché garantisce il futuro e lo si spende per comprare le cose che servono o per investire al fine di ottenere più denaro ed una “garanzia” per il futuro. Ovviamente, quando non c’è “fiducia” nel sistema, quindi principalmente nei momenti di recessione economica, la gente tende a non spenderlo e a tenerlo in banca o “sotto il mattone”. Ma, oltre al risparmio dei privati, il problema deriva dai grandi capitali speculativi, le cavallette di cui parlavo prima. Basta un poco di sfiducia in un’impresa o in uno stato perché capitali di enormi dimensioni fuggano via facendo fallire l’impresa o il Paese. A volte non serve nemmeno che la sfiducia sia provocata da qualche evento oggettivo. Basta solo che qualche grande investitore realizzi i suoi guadagni, magari semplicemente nella persuasione di trovare una migliore collocazione in un altro Paese, per provocare la valanga della fuga generale. Con la stessa logica, all’impresa o al Paese vengono chiesti interessi più alti per “remunerare” il rischio che rappresenta finanziare quell’impresa o quel Paese. Spesso la sfiducia è “provocata” proprio al fine di ottenere interessi più elevati dagli investimenti. Ad esempio, pochi anni fa la Slovenia è entrata nell’area dell’euro con l’aureola di paese sommamente virtuoso, con un basso debito pubblico, uno Stato e un’industria efficienti, una popolazione laboriosa e attiva, ed ora si trova sull’orlo della bancarotta. L’unico dubbio è se la bancarotta ci sarà a ottobre o a novembre prossimi.

L’ottica con la quale operano i gestori di questi grandi capitali è esclusivamente il profitto più elevato possibile, entro un orizzonte temporale a volte delle dimensioni di pochi secondi. Non c’è nessuna strategia “politica” nella testa dei gestori dei fondi di investimento, l’unico obiettivo è quello di chiudere la giornata con un guadagno, anche se piccolo (ma lo 0,1% su cento miliardi sono cento milioni, che rappresentano il lavoro di cinquemila persone per un anno a 20.000 euro annui), e chiudere con un discreto utile, tale comunque da far scattare premi di produzione sempre molto consistenti. Che per ottenere questo obiettivo siano state chiuse venti fabbriche e mandate sul lastrico diecimila persone, i nostri gestori non se ne accorgono nemmeno. È la logica del sistema ad essere totalmente inefficiente, al punto che più il gestore è “bravo” più il suo lavoro produce paradossalmente effetti deleteri per l’economia.

 

È possibile in qualche modo prevedere gli sviluppi futuri della crisi?

Nessuno può farlo realmente. La mia idea, che peraltro ripeto da tempo immemore, è che non se ne esce se non con una trasformazione radicale del sistema finanziario: altrimenti si andrà avanti fino ad un punto in cui le tensioni non diventeranno intollerabili. A quel punto può succedere di tutto, da una guerra mondiale devastante ad una serie di rivolte dei disperati contro i governi, ad un lento affogare in un nuovo medioevo di tutti contro tutti, di bande criminali che dominano il territorio, in un declino culturale e sociale sempre più accelerato, non diversamente da quanto accadde alla caduta dell’Impero Romano. Questa ultima fu dovuta al fatto che il sistema economico che si basava sul lavoro servile e sulle conquiste territoriali non era più efficiente e l’impero sopravviveva solo grazie ad un sistema fiscale sempre più rapinoso ed iniquo. La situazione attuale non è molto diversa da allora. Anche oggi il sistema fiscale favorisce la rendita e punisce chi lavora e, nonostante le promesse e le dichiarazioni di intenti, diventa sempre più rapinoso e pesante. La cosa assurda è che questa pesantezza non serve praticamente a niente. Il debito pubblico è regolarmente cresciuto nonostante le manovre drastiche, e una tassa iniqua come l’IMU ha avuto un gettito di circa 9,6 miliardi, pari al 10% degli interessi di un anno sul debito pubblico, meno del 2% che si pagherà quest’anno in Italia sul debito aggregato, ovvero il debito di Stati, enti locali, imprese e famiglie messo assieme, che a dicembre ammonterà a oltre 500 miliardi, circa un terzo del PIL.

Insomma, se un terzo del PIL va a remunerare la rendita finanziaria, è difficile pensare che la situazione possa reggere ancora a lungo. Come diceva Gandhi, nel mondo ci sono risorse sufficienti per i bisogni di tutti, ma assolutamente insufficienti per l’avidità di pochi.

 

Esistono soluzioni concrete e realizzabili o siamo destinati a precipitare fino in fondo? Magari con la prospettiva che soltanto un altro conflitto mondiale, come nel secolo scorso, possa rappresentare l’unica via d’uscita possibile?

Una guerra come quelle che insanguinarono il secolo scorso non è più una soluzione praticabile. Sia la Prima che la Seconda Guerra Mondiale comportarono un’enorme distruzione di ricchezze ma soprattutto l’impiego di milioni di disoccupati spediti al fronte a fare la guerra. Oggi una guerra sarebbe certo terribilmente distruttiva ma durerebbe solo pochi minuti o pochi giorni. Per risolvere la disoccupazione non è praticabile, poiché le tecnologie belliche non hanno più bisogno di un gran numero di soldati. A meno che il progetto non sia quello di eliminare fisicamente milioni di civili dalla faccia della terra e risolvere il problema in modo radicale (non mi meraviglierei che ci possa essere al mondo qualche pazzo che coltivi un’idea del genere). Anche per questo, un’alternativa si deve trovare subito, e l’alternativa c’è ed è immediatamente praticabile.

Si tratta di eliminare dalla faccia della terra gli interessi sul capitale, e in sostanza questo comporta uscire dall’economia del debito. Ora, se è difficile immaginare che ciò possa avvenire per l’azione dei governi, che in Occidente sono per lo più asserviti agli interessi del capitale finanziario, da qualche tempo alcuni Paesi, e mi riferisco in particolare all’Ecuador, alla Bolivia, all’Islanda, all’Argentina e al Brasile, hanno cominciato a contestare efficacemente le politiche rapinose delle multinazionali e delle loro banche. Questa non è ancora l’alternativa al sistema né la soluzione del problema, ma almeno si dimostra che è possibile fare qualcosa.

Ma qui non si tratta di fare qualcosa o distribuire punizioni esemplari sperando che le cose vadano meglio. Se la crisi è strutturale occorre pensare al modo in cui cambiare la struttura, altrimenti il problema non sarà mai risolto.

La mia idea è che dobbiamo immaginare una nuova epoca dei Comuni, non fondata, però, sulla logica territoriale, ma su comunità in parte territoriali in parte virtuali che generino rapporti economici al di fuori del sistema. Comunità fondate su due capisaldi: un denaro che non sia riserva di valore e quindi, necessariamente, a tasso negativo, e una comunità che distribuisca reddito di cittadinanza a tutti i suoi membri, che si aggiunga al reddito di lavoro per chi ce l’ha e chi vuole farlo. Una comunità fondata su un reale principio di solidarietà tra i suoi membri che però non sacrifichi l’iniziativa individuale sull’altare di una pretesa uguaglianza al ribasso, ma che consenta a tutti di esprimere le proprie capacità nel campo verso cui ciascuno si sente più portato. L’idea di fondo è che la ricchezza non è data da un insieme di cose materiali, ma dalla capacità di una società di utilizzare al meglio le conoscenze di ciascuno consentendo di collocarsi nel posto e con l’impiego giusto. Questa somma di conoscenze individuali costituisce il capitale sociale di qualsiasi società data. È una sua porzione a venire “prestata” alle imprese quando producono un bene qualsiasi, poiché quel bene può essere pensato e prodotto solo in presenza di quelle conoscenze. Questa è la base teorica del Reddito di Cittadinanza, inteso come remunerazione del capitale sociale. Più questo cresce, più la remunerazione deve aumentare. Che poi mille imprese crescano e producano e competano sul mercato per ottenere i migliori risultati e i migliori guadagni è cosa buona. L’attività di impresa è un’attività al servizio della società e chi la intraprende deve essere messo in grado di avere l’interesse, oltre che le capacità e la forza, per farlo. Per le stesse imprese, un sistema del genere, che elimini il peso degli interessi sul capitale e consenta di ottenere finanziamenti in funzione di parametri oggettivi, è il migliore possibile. Il reddito di cittadinanza, oltre a consentire alle imprese sgravi consistenti sul sistema del welfare, creerebbe anche un mercato per i propri prodotti. Per evitare l’accumulazione di beni materiali è sufficiente un sistema fiscale di stampo scandinavo a tassazione progressiva. Chiunque può avere anche cento appartamenti o mille, ma ci paga una barca di quattrini di tasse, così che nessuno debba pagarle per averne una o due.

Ho descritto questa alternativa nei miei libri ed in particolare in uno che ho titolato Faz, acronimo di Zone di Autonomia Finanziaria, ovvero quei nuovi comuni di cui auspico la costruzione. Per quanto riguarda il denaro, se la ricchezza è conoscenza – e di questo do ampia dimostrazione nei miei libri – essa non appartiene ai detentori del capitale finanziario, ma alla società nel suo insieme. Se il denaro deve essere uno strumento di scambio, è sufficiente uno qualsiasi perché lo scambio avvenga. Gli euro, i dollari, gli yen non servono a niente se non a chi ancora dà loro fiducia. Questa è una società in cui la fiducia è una merce. Quella che vogliamo costruire è una società in cui la fiducia sia il fondamento dell’azione sociale. Solo così si esce dal dominio del capitale sulla vita e si costruisce una società a misura d’uomo.

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