Onirikon

Howard Phillips Lovecraft
H.P. Lovecraft #2 – L’orrore cosmico del Maestro di Providence n. 8/2014
Onirikon

I sogni rivestono un ruolo fondamentale nella narrativa di Lovecraft; fin dalla prima gioventù ne hanno influenzato profondamente l’attività creativa. Molti suoi racconti sono ispirati direttamente a sogni, ne contengono alcuni nella trama oppure ne assumono l’atmosfera persino quando sono radicati in un contesto reale. L’aspetto onirico del suo lavoro è indiscutibile. Dal prose-poem intitolato The Poe-et’s nightmare (1916), passando per Nyarlathotep (1920) e Dreams in the Witch House (1932), fino a The shadow out of time (1934-35), Lovecraft incapsula le immagini da incubo e le visioni notturne che scaturiscono dal suo ribollente inconscio nelle storie che scrive, che proprio per questo formano un perfetto “manuale dell’incubo”. E, anche quando non derivano esplicitamente dai sogni, HPL usa spesso un linguaggio d’incubo, onirico e sognante, per plasmare le proprie fantasie narrative. È il caso, ad esempio, dei racconti scritti sulla scia “dunsaniana”.

Oltre a questo generale e retorico uso dei sogni, ci sono numerosi riferimenti a incubi e fantasticherie abnormi nella narrativa del “Sognatore di Providence” (com’è stato giustamente chiamato), che includono richiami e citazioni dei sintomi caratteristici e degli attributi dell’incubo stesso.

Anche nella sua corrispondenza privata questo aspetto è basilare e attesta la predisposizione di HPL all’attività onirica. Sogni e incubi che, al tempo stesso, deliziarono e tormentarono lo scrittore per tutto l’arco della sua esistenza.

Quelle che riportiamo di seguito, in nuova o inedita traduzione, sono cinque “lettere oniriche”, quasi dei micro-racconti, tratte dal carteggio di Lovecraft, le quali offrono un esempio della smodata creatività “notturna” dell’autore e degli archetipi che affollavano le sue notti. La prima “fantasticheria” è estrapolata da una missiva del 15 maggio 1918 a Maurice W. Moe; la seconda da una lettera a Robert H. Barlow datata 11 maggio 1935; le altre tre provengono da una lettera al “Gallomo” (un circolo di corrispondenza di cui HPL faceva parte) del gennaio 1920. I titoli apposti sono nostri.

Quasi tutta la corrispondenza “onirica” di HPL si trova raccolta in The H.P. Lovecraft dream book, a cura di S. T. Joshi, Will Murray e David E. Schultz, Necronomicon Press, West Warwick 1994. È da tale volume che abbiamo scelto e tradotto queste “lettere oniriche”.

 

Pietro Guarriello

I. Il sogno della Città Ancestrale

Se non ci fosse qualche virtù nella pura verità, allora i sonni dei giusti, le nostre delusioni e le nostre follie dovrebbero essere valutati come le nostre ore di sobria veglia, con il conforto che esse ci arrecano. Se la verità non vale a nulla, allora dobbiamo prendere atto che le immagini fantastiche dei nostri sogni hanno la stessa solennità degli eventi della vita di tutti i giorni…

Alcune notti fa ho fatto un sogno bizzarro su una strana città, una città dai molti palazzi con le cupole d’oro, che sorgeva in una valletta circondata da catene di grigie e orribili colline. Non c’era anima viva in questa vasta regione di strade lastricate in pietra, di mura di marmo e colonne, e le numerose statue nelle piazze deserte raffiguravano dei curiosi uomini barbuti avvolti in tuniche che non avevo mai visto sino ad allora, né poi. Ero visivamente consapevole di questa città. Ero in essa e, allo stesso tempo, intorno ad essa. Ma ero certo di non possedere un’esistenza corporea. Mi sembrava di scorgere ogni cosa nello stesso momento, senza limiti di direzione. Non mi muovevo, ma trasferivo la mia coscienza da un punto all’altro, a mio piacimento. Non occupavo nessuno spazio e non avevo nessuna forma. Ero solo una presenza senziente e percettiva.

Ricordo una viva curiosità per quella scena, e la tribolazione per portare alla memoria una qualche corrispondenza: poiché intuivo che un tempo quella città l’avevo conosciuta bene e, se avessi potuto ricordare, sarei stato portato indietro nelle ere fino ad un’epoca spaventosamente remota, molte migliaia di anni distante, quando qualcosa di vago ma orribile era accaduto.

Una volta fui quasi sul punto di rammentare, e ho avuto una paura folle di questa possibilità, benché non sapessi ciò che dovevo richiamare alla mente. Ma a quel punto mi svegliai, ed ero attanagliato dai crampi e con troppe coperte addosso rispetto alla temperatura costantemente aumentata.

 

II. Lo sciame d’oltrespazio

La notte scorsa ho fatto un sogno frammentario ma molto vivido. Ebbene, nel sogno mi trovavo a passeggiare in una regione rurale a me familiare quando, d’improvviso, venivo attaccato da uno sciame di insetti turbinanti che scendevano dal cielo. Erano di forma minuscola e affusolata, e sembravano capaci di perforare il mio cranio e di entrarmi nel cervello, come se la loro sostanza non fosse propriamente solida.

Dopo essermi entrati nella testa, non passò molto tempo che la mia identità e posizione parvero divenire molto incerte. Ricordavo scene aliene ed incredibili: guglie e pinnacoli illuminati da astri viola, edifici fantastici dalle mura ciclopiche, una vegetazione fungosa e multicolore, figure informi che si accalcavano in pianure sconfinate, bizzarre guglie e cascate, monoliti di cui non si scorgeva la cima solcati da scale di corda grandi come rampe di navi, corridoi labirintici e stanze affrescate dalla geometria incredibile, curiosi giardini di piante ignote, esseri amorfi dagli strani vestiti che parlavano con organi non vocali… ed innumerevoli eventi di natura vaga e dalle conseguenze indefinite. Dove mi trovassi non potevo determinarlo, ma c’era una netta sensazione di distanza infinita, di completa alienazione dalla Terra e dalla specie umana. Per qualche tempo nulla di particolare accadde… e io realizzai di star sognando ben prima che mi svegliassi davvero.

 

III. La casa nella palude

Camminavo, o, meglio, mi trascinavo in un luogo che all’apparenza sembrava una palude interminabile e priva di alberi, sotto un cielo plumbeo. A farmi compagnia c’era un uomo anziano – talmente vecchio da spaventarmi – che sentivo di conoscere, o che per lo meno un tempo conoscevo. I capelli bianchi gli ricadevano sulle spalle, e la sua barba canuta era così lunga che quasi arrivava a toccare terra. Nonostante l’età, era più forte di me, giacché sosteneva senza sforzo apparente un’andatura che mi affaticava. Poi, d’un tratto, dinanzi a noi si profilò all’orizzonte un’abitazione solitaria: era simile ad una casa colonica del New England, del tipo costruito dal 1640 al 1680, con il tetto a mansarda esageratamente obliquo ricoperto d’assicelle su tutta la superficie. Il legno appariva marcio, come fosse all’ultimo stadio della decadenza.

Mentre ci avvicinavamo alla casa, il vecchio farfugliò qualcosa, e io riuscii a discernere le seguenti parole: «Non è cambiata». Io non replicai. Al che il vecchio aggiunse: «In duecento anni, non è cambiata». Rimasi ancora in silenzio, e lui disse: «Sei stato un folle ad aspettare di rinascere; io sono stato più saggio, e ho vissuto per tutto questo tempo». Come disse ciò, mi parve di ricordarmi di lui. Ora era abbigliato con indumenti talmente informi e scoloriti che non potevo descriverli – avrebbero anche potuto essere sacchi di iuta cuciti insieme – ma lo ricordavo giovane, vestito di un soprabito rosso e stivali alti, una grande parrucca nera e un capello a tre punte. Il suo viso, in questa mia vaga memoria, era liscio, benché scurito dalla crescita di una barba prodigiosamente fitta. Allora dissi anch’io: «Non è cambiata».

Ci avvicinammo all’abitazione ed entrammo, trovando all’interno un ammasso di intonaco caduto e uno stato di disfacimento generale. Iniziammo a salire una scalinata pericolante. Il vecchio disse: «La troveremo com’era prima». E io aggiunsi: «La troveremo di sopra… anche dopo due secoli la Cosa sarà sempre la stessa».

Salimmo ancora. L’edificio aveva solo due piani, ma l’antica scala sembrava non avere fine. Su, su, e ancora su… finché le pareti intorno si confusero con la nebbia e le nubi che vorticavano… e ancora salivamo… «La troveremo com’era prima… non è cambiata.» Sempre più su, più su… E lì ebbe termine il sogno!

 

IV. L’arcano bassorilievo

Mi trovavo in un museo di antichità da qualche parte a Providence, e parlavo con il curatore, un uomo molto anziano e colto, cui stavo cercando di vendere un curioso bassorilievo che io stesso avevo modellato con della creta. Il vecchio mi sorrideva, chiedendomi per quale motivo cercassi di vendere un manufatto moderno a un museo riservato alle antichità. Io gli risposi con queste parole, che ricordo esattamente – cosa strana per me, che di solito non ricordo le parole esatte dei miei sogni, a parte frasi isolate. Dissi questo: «Perché asserite che quest’oggetto è nuovo? È stato concepito nei miei sogni, e i sogni degli uomini sono più antichi della saggezza d’Egitto o dell’ascetica Sfinge, e di Babilonia cinta di giardini».

Il curatore mi disse allora di mostrargli il bassorilievo, e io lo feci. Era di foggia simile alle sculture degli antichi Egizi, e rappresentava una processione di sacerdoti adoratori di Ra. Appena lo vide, il vecchio cadde in presa al terrore, e con un terribile singulto mi disse: «CHI È LEI?» Risposi che mi chiamavo H. P. Lovecraft, e aggiunsi che ero nipote di Whipple V. Phillips, pensando che un uomo così vecchio avrebbe potuto conoscere mio nonno meglio di me. La sua replica fu: «No, no… prima di Questo!». Gli dissi che non avevo nessuna memoria di identità precedenti, salvo che nei sogni. Allora il curatore mi offrì una somma altissima, che però rifiutai, perché intuii dalla sua espressione sconvolta che intendeva distruggere la mia scultura, una volta che fosse stata sua, mentre io desideravo esporla nel museo. Il mio rifiuto sortì l’effetto di disorientare il vecchio, che mi chiese di stabilire io stesso un prezzo. Ed io, per divertimento, proferii: «Un milione di sterline!» (confusione della valuta!), al che mi accorsi con mio stupore che il vecchio non rideva, ma sembrava solo più preoccupato. Mi aveva preso sul serio! Quindi disse, con voce perplessa, confusa e spaventata: «Mi consulterò con il direttore dell’istituto… la prego, mi richiami tra una settimana».

Non penso che il sogno finì qui, ma non ricordo ulteriori sviluppi. La mia capacità di rammentare i sogni è spesso influenzata da una specie di senso di armonia: posso ricordare solo le cose che hanno una sequenza connessa, per cui le mie narrazioni si fermano non appena il soggetto principale si è esaurito.

 

V. Il sogno del castello infernale

Ero all’interno di un antico castello, ai piedi di un’umida scalinata in pietra. Intorno a me c’erano uomini armati… ma erano tutti addormentati, come se fossero caduti vittime di un incantesimo che li aveva gettati in un sonno profondo! Ero fuori di me e ne scuotevo alcuni, senza però riuscire a svegliarli. Il castello sembrava fosse di mia proprietà. Allora mi misi a correre su e giù per gli scaloni, facendo un rumore di ferraglia – dato che indossavo un’armatura e avevo in mano un pesante spadone – finché dei rumori dal basso mi fermarono, attirando la mia attenzione. Sbirciando da una stretta feritoia, vidi i nostri uomini d’Inghilterra, a cavallo, con le rosse cotte d’armi e i leoni d’oro di Britannia che spiccavano sulle armature. Erano intenti in un mortale combattimento nella piana adiacente al castello, contro un nemico sconosciuto. Anche la parte avversaria montava a cavallo, e indossava un’armatura, il cui stemma era costituito da dragoni rossi su cotte gialle. La battaglia infuriava, sempre più violenta, e io avvertivo il desiderio selvaggio di prendervi parte. Poi il capo dei nostri uomini cavalcò dinanzi all’esercito, e sfidò il capo avversario a singolar tenzone. La sfida fu accettata, e i due eserciti arretrarono, lasciando spazio libero alla contesa. Il comandante nemico pareva una figura mitica nella sua fiera armatura, e il combattimento fu aspro. Alla fine, il nostro capo riuscì a scardinare l’elmo avversario… ma sotto l’elmo non vi era alcuna testa.

In quello stesso momento l’intera armata del nemico sembrò sciogliersi alla vista, e io stesso subii un cambiamento. Non ero più dietro la feritoia, ma su un cavallo dinanzi alla schiera dei nostri uomini, con una gigantesca spada stretta in pugno. A quel punto mi ricordai della feritoia sulla scalinata, e mi avvidi con stupore che il viso del nostro capo, che poco prima avevo osservato, era l’esatta replica del mio. Mi guardai intorno, e alla mia sinistra vidi la forma di un grande e interminabile castello, le cui torri si innalzavano sopra le nubi fino a svanire nel cielo.

Poi, in maniera repentina, il sogno cambiò, e sebbene non fossi ancora sveglio, ero come cosciente di stare andando alla deriva lungo un orribile fiume stagnante su una putrida barca, fra terribili rocce di basalto pendenti sopra la mia testa. Non c’era vento, e mi chiedevo come potessi muovermi con una corrente così debole. Gli insetti avevano forme strane, e io mi spaventai quando il loro numero crebbe e iniziarono a svolazzarmi addosso.

A quel punto mi svegliai davvero… e scoprii che mi ero addormentato sullo scrittoio, con la testa appoggiata nell’incavo tra le braccia.

A questo punto, vi chiederete da dove provengano queste storie. Ed io vi risponderò, in accordo col vostro pragmatismo, che il sogno era reale… reale come la mia stessa presenza a questo tavolo, con la penna in mano!

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