Lunghi addii

Enrico Petrucci
Dylan Dog – Nostro orrore quotidiano n. 16/2020
Lunghi addii

Il 27 ottobre 1992 arriva nelle edicole il numero 74 di «Dylan Dog», Il lungo addio, sceneggiatura di Tiziano Sclavi su soggetto di Mauro Marcheselli. Giunto al sesto anno di pubblicazione, l’Indagatore dell’Incubo è ormai una realtà consolidata e già da un paio d’anni supera nelle vendite «Tex», il fratello maggiore di casa Bonelli. Eppure, nonostante le duecentomila copie, non ha raggiunto l’apice del successo commerciale né la definitiva consacrazione nell’immaginario collettivo. Nel mezzo del percorso che lo porterà nel pantheon culturale italiano si colloca, quasi come linea spartiacque, quel numero 74, con la sua storia dedicata all’altra metà del cielo, come si legge ne Il club dell’orrore che apre il fumetto.

A distinguersi è già la copertina, dai toni decisamente metafisici, realizzata da Angelo Stano: Dylan Dog e la sua consueta “fidanzata del mese”, Marina Kimball, una delle poche di cui i lettori impareranno a ricordare il nome, volteggiano nello spazio interstellare con le mani che quasi si sfiorano, cercando invano di afferrarsi. A far loro compagnia troviamo una ruota panoramica che, isolata dal contesto, sembra ricordare le stazioni orbitanti di 2001: Odissea nello Spazio e, soprattutto, di Solaris di Andrej Tarkovskij. A completare il tutto, vecchie auto americane in orbita assieme a satelliti artificiali.

Prima de Il lungo addio, «Dylan Dog» era un successo da duecentomila copie, ma in qualche modo già superstite di se stesso. Campione di vendite lo era già alla fine degli anni Ottanta – un successo che aveva portato al boom del fumetto horror da edicola, con a capofila la rivista «Splatter» della ACME, pubblicata dal 1989 al 1991. Filone che non tardò ad attirare le ire dei benpensanti, visto che nel 1990 «Splatter» e altri periodici furono vittime di un’interrogazione parlamentare della deputata DC Silvia Costa. L’Indagatore dell’Incubo fu escluso dall’interrogazione, rimanendo comunque nell’ombra, come mandante “colto” del fenomeno. La giornalista di «Repubblica» Marina Garbesi, il 19 ottobre 1990, scrisse in un pezzo dal titolo Horror vietato ai minori. Deputati contro i sado-fumetti: «Un’altra rivista del genere sado-demoniaco, ma più soft e più colto (ha scansato la crociata dei quarantatré onorevoli) è Dylan Dog, duecentomila copie. Insegna: è inutile andare a cercare lontano: la paura è dentro di noi».

Le ire democristiane non scalfirono il successo di «Dylan Dog», che continuò ad aumentare le tirature. Se nell’aprile 1990, su Storia di nessuno (n. 43), si strillava in copertina: «Una tiratura da far paura! 185.000 copie!», il fumetto avrebbe superato le duecentomila copie nei mesi successivi, toccando l’apice nel 1993: 530.000 esemplari (come dichiarato da Marcheselli, intervistato per il trentennale del fumetto su Badtaste.it). Assieme al boom commerciale, inizia il tratto finale del percorso di DD verso la consacrazione nell’immaginario collettivo italiano. Finché, quasi trent’anni dopo quel “sado-demoniaco”, lo stesso quotidiano può dedicare giornate consecutive di paginate alle anteprime dylandoghiane e il suo attuale curatore, Roberto Recchioni, può presentare il numero 400 a Unomattina o su Sky News 24. Certo, tra il 1989 e il 1990 c’era già stati minimali riscontri positivi sulla stampa, ma rimanevano al livello di curiosità da terza pagina o pezzi sui “giovani d’oggi”, non lanci stampa da bestseller.

Il boom che Dylan Dog avrebbe conosciuto a partire dal 1993 sembrava impensabile, visto che la formula dell’Indagatore dell’Incubo sembrava aver raggiunto i suoi limiti. In quel periodo Tiziano Sclavi iniziò a mettere in testa alla rubrica d’apertura dell’albo, Il club dell’orrore, un sonoro Nun ce rompete, dedicato a quel pubblico sempre più esigente che lamentava il troppo successo, i gadget, la qualità delle storie, le citazioni e ispirazioni che forse sconfinavano nel plagio (alle quali fece rispondere per interposta persona un certo William Shakespeare). Non che fossero mancati numeri memorabili a ridosso de Il lungo addio. Ad esempio, Caccia alle streghe (n. 69), del giugno 1992, era un meta-fumetto in cui Sclavi ironizzava proprio sui “censori” e sulle loro cacce alle streghe in parlamento, mentre pochi mesi dopo Il lungo addio sarebbe giunto, sempre su soggetto di Marcheselli, un altro albo destinato a diventare di culto, Johnny Freak (n. 81).

Ma, a livello d’immaginario collettivo, per l’Indagatore dell’Incubo tutto sembra iniziare proprio dopo Il lungo addio. Nel febbraio 1993, la rivista «Max» mette in copertina proprio lui. Il mensile, già famoso per i suoi calendari, al posto della consueta star del cinema, rockstar o top-model sceglie un personaggio immaginario, un anno prima del film Dellamorte Dellamore, diretto da Michele Soavi, che sull’onda del successo del fumetto ne propone una sorta di genesi alternativa. Tratto da un romanzo di Sclavi del 1983, pubblicato solo nel ’91 da un editore minore, vede nei panni del protagonista Francesco Dellamorte Rupert Everett, l’attore britannico su cui il disegnatore Claudio Villa aveva modellato Dylan, su indicazione di Sclavi.

Ma se con il cinema il rapporto di Dylan rimarrà eufemisticamente complicato, il riscontro più grande lo troverà, indirettamente, nel mondo della musica. Nel luglio 1995 il terzo album degli 883, La donna, il sogno & il grande incubo, omaggia Dylan Dog in copertina e libretto. Il video del quarto singolo, Il grande incubo, vede Max Pezzali catapultato in un fumetto dell’orrore. Segue il quinto singolo, Ti sento vivere, il cui testo si vuole ispirato proprio a Il lungo addio. A settembre è il turno di Claudio Baglioni, che nel suo album Io sono qui lo mette in rima con Van Gogh. Non è un semplice caso: l’anno dopo il cantautore romano, allora quarantacinquenne, duetta con l’Indagatore dell’Incubo sulla copertina di «Tutto». All’interno della rivista musicale troviamo una storia di «Dylan Dog», la prima e unica disegnata da Claudio Villa sul testo de Le vie dei colori, canzone dell’album Io sono qui: un evento speciale, realizzato in concomitanza con il numero del decennale, Finché morte non vi separi (n. 121).

Le nozze mistiche tra Dylan Dog e il mondo della musica italiana vengono consacrate il 1° maggio 1997, quando il palco del concertone di San Giovanni vede affiancata una gigantografia di Dylan Dog al suo clarinetto. Nello stesso periodo, arriva il sigillo di Umberto Eco, che intervista Sclavi e afferma: «Posso leggere la Bibbia, Omero e Dylan Dog per giorni e giorni senza annoiarmi». Il semiologo vedrà ricambiata la stima nel gennaio 1998, in Lassù qualcuno ci chiama (n. 136): tra i protagonisti c’è un certo Humbert Coe, Eco nel nome e nell’aspetto (curiosamente, nello stesso periodo Sergio Cofferati, allora segretario della CGIL, sdoganerà con il contributo di Bertinotti l’altro grande personaggio bonelliano, Tex Willer).

Nel novembre 1992, ad ogni modo, il vero successo deve ancora arrivare. Ed ecco giungere quell’albo “strano” e romantico, anticipato già due numeri prima, ne Il club dell’orrore de L’ultimo plenilunio, il primo ad avere un soggetto di Mauro Marcheselli. In apertura de Il lungo addio, Sclavi lo presenta quasi come un semplice omaggio alle lettrici: «Mai pubblicazione letteraria raggiunse una simile percentuale di pubblico femminile. […] A voi che ogni mese mandate a Dylan centinaia di lettere d’amore. A voi Dylan risponde, con amore, regalandovi questa storia d’amore». Quasi che Il lungo addio fosse una semplice “romanticheria” per conquistare definitivamente una bella fetta di pubblico. Ma il successo dell’albo va ben oltre l’elemento nostalgico-sentimentale.

Certo, il canovaccio del “primo amore d’estate al mare”, elemento collettivo che accomuna più generazioni d’italiani, è un ingrediente fondamentale nella formula del successo de Il lungo addio. Ma è altrettanto riduttivo derubricarne il successo a semplice mossa commerciale basata sull’età, pensando a un albo che colpisse l’immaginario di quei lettori, adolescenti nel 1986 e diventati adulti sei anni dopo con l’Indagatore dell’Incubo (è questo l’ingrediente del suo successo secondo David Padovani de Lo Spazio bianco). Ciononostante, l’idea di «Dylan Dog» come fenomeno trasversale, capace di accompagnare dalla preadolescenza all’età adulta, si trova in diverse interpretazioni, tra cui nello stesso Il grande incubo, dove l’estetica dylandoghiana è in qualche modo una metafora (alla maniera degli 883): il sogno/incubo di Pezzali si muove proprio tra la stanza dei giocattoli e la donna sfuggente, con la madre che infine arriva a svegliare il protagonista.

A smentire questa interpretazione è il fatto che Il lungo addio abbia retto molto bene alla prova del tempo, sicuramente più dei successi musicali coevi. Un riscontro è dato dalla sua ristampa nell’aprile 2019, in chiusura della breve collana “Il Dylan Dog di Tiziano Sclavi”. L’albo è stato apprezzato anche da millennials e youtubers, ben diversi dai lettori in target di quel novembre 1992, benché nella versione ricolorata si fossero perse le mezzetinte acquarellate dei flashback come le aveva immaginate il disegnatore, Carlo Ambrosini. È un campione minimale, dato che, nonostante lanci stampa e TV, il personaggio sembra non aver riscosso troppo interesse nelle nuove generazioni, ma è comunque una piccola dimostrazione del fatto che i “nuovi lettori” hanno reagito all’albo nello stesso modo dei vecchi, che continuano a tessere le lodi de Il lungo addio, sempre in cima alle classifiche dei migliori albi della serie, con altri tre o quattro titoli a contendergli il primo posto. Quando non è in classifica, è perché viene considerato troppo fuori dagli schemi per poter concorrere: di nuovo, troppo romantico.

Eppure, Marcheselli soggettista e Sclavi sceneggiatore daranno vita, oltre al già citato Johnny Freak, ad un altro classico, Finché morte non vi separi (n. 121), forse ancora più tragico e romantico, che parla di un amore adulto. Rispetto a Il lungo addio, però, Finché morte non vi separi e la sua Lillie Connoly non hanno retto altrettanto bene alla prova del tempo, nonostante condividano la stessa suggestione onirica. Non solo perché sono arrivati quattro anni dopo, quando l’apice del 1993 aveva iniziato un lento declino. Sebbene il successo del character design della rossa Lillie Connoly superi quello della bionda Marina Kimball, Lillie resta una figlia del suo tempo, quando le vicende dell’IRA e di Bobby Sands vivevano ancora nell’immaginario collettivo, nell’idea di un “terrorismo romantico”. Non solo si tratta di una traccia storico-politica quasi dimenticata, ma c’è anche minore empatia nei confronti della protagonista, soggetta ad allucinazioni. Infine, la trama ricalca troppo un altro degli amori perduti di Dylan Dog, quello “fuori canone” contenuto nel lungo flashback del primo crossover con il detective dell’impossibile Martin Mystère, Ultima fermata l’incubo (1992), dove un giovane Dylan indaga su quella che si scoprirà essere una satanista, un po’ come la Lillie terrorista dell’IRA, per poi rimanere solo dopo la sua morte. Certo, Ultima fermata l’incubo ebbe solo la supervisione di Sclavi, ma il personaggio di Allison Dowell è comunque considerato uno degli “amori storici” dell’Indagatore dell’Incubo.

Al di là delle eventuali scelte di trama e ambientazione, Marina e Lillie restano due eroine romantiche e tragiche degne di un librettista di Puccini, protagoniste di due albi fortemente accomunati da un elemento onirico che prova a farsi metafisico. Per Lillie l’intuizione metafisica resta tale in apertura e chiusura dell’albo: la notte di nozze e il galeone che si assembla fuori dalla finestra, probabile visione del Dylan alcolizzato nel finale. Mentre per Marina Il lungo addio riesce a farsi pienamente metafisico. Ed è questo elemento la chiave della fortuna dell’albo; l’assoluta solitudine dei due protagonisti adulti si fa elemento atemporale quando il nero della notte diventa il nero dello spazio, mentre i flashback vivono in una mezzatinta (tecnica usata successivamente da Ambrosini in una storia da lui sceneggiata, quella della fioraia Marguerite, che cita in chiusura 2001 di Kubrick). In quella solitudine spaziale l’idillio dei flashback, per quanto “determinante”, passa in secondo piano. L’amore estivo in riva al mare, che fa tanto “estate italiana”, può fare a meno di spiagge e ombrelloni, diventando anch’esso assoluto.

Il paradigma diviene piuttosto Solaris di Tarkovskij, con i fantasmi del passato che rivivono nella stazione spaziale orbitante sull’oceano vivente, appunto, di Solaris. Non la solita “citazione dylandoghiana” più o meno esplicita, a cui Sclavi aveva abituato fin dall’inizio i lettori, come in quel compendio di Hollywood che è Cagliostro (con il povero H. P. Lovecraft che noleggia una vecchia Ford T), o il successivo Memorie dall’invisibile, dove oltre agli ovvi riferimenti narrativi si passa da Borges ai Nottambuli di Hopper, fino al Monsieur Verdoux di Chaplin, per chiudere con Un giudice di De André. Si tratta, piuttosto, di un paragone implicito. Si vive di fantasmi e di solitudine: nulla meglio dello spazio cosmico costringe a confrontarsi con i fantasmi di quel che è o non è stato. Una comparazione forse troppo implicita, cosicché, più che il maestro del cinema russo, in genere per Il lungo addio ci si limita a citare Fellini, per l’amarcord tra il balneare e il luna park, o un’ipotetica purezza sentimentale Nouvelle Vague, come fanno rispettivamente Recchioni e Michele Nucci nella ristampa del 2019. Sui temi de Il lungo addio è sicuramente più esaustiva l’analisi che assemblano gli ignoti redattori di Wikipedia: «L’orrore è rappresentato dagli anni che passano, dal confronto tra il prima e il dopo, dalla giovinezza perduta che non potrà più tornare e dalla distruzione di tutti i sogni adolescenziali».

Metafisica di Tarkovskij a parte, Marcheselli e Sclavi non si limitano a risemantizzare l’elemento nostalgico nel contesto dell’orrore dylandoghiano. Nello spunto del canovaccio nostalgico, dell’amore puro da fumetto adolescenziale e dell’ineluttabilità dello scorrere del tempo che si fa orrore esistenziale, riescono ad accennare a tutte le permutazioni degli elementi di nostalgia, rimpianto, routine, noia e incomunicabilità. È proprio quest’insieme di fattori ad aver portato alla longevità del successo de Il lungo addio, sorta di metafisico almanacco dell’orrore del tempo centrato su una relazione. L’incomunicabilità non è certo quella di Antonioni, giocata sull’elemento comico ripetuto che si fa meme, come le battute di Groucho – assenti, però, dal volume. È il nulla di Marina, che per il giovane Dylan può voler dir tutto o, appunto, niente.

Il rimpianto non è solo nostalgia, ma viene incarnato prepotentemente sin dall’inizio: il ragazzino sull’autostrada deserta, il figlio desirato e mai avuto di Marina, che nelle fattezze ricorda più Robby, il rivale del giovane Dylan che lei gli preferirà. Entità che si farà gigantesca (come il bambino del rapporto Brenton in Solaris), di modo che il maggiolone di DD diventerà un giocattolo, pur nell’inconsapevolezza dei due protagonisti.

Ma l’orrore non è solo rimpianto e nostalgia: è pure noia della routine. Anche qui, con una duplice chiave di lettura. In uno dei flashback Marina, realisticamente, prefigura le vite di entrambi. Per lei, una vita come moglie e madre a Moonlight, la località balneare; per Dylan, una vita da scapolo impenitente a Londra. Il giovane non può fare a meno di pensare che sia quello l’orrore, mentre nelle vignette seguenti il volto della ragazza invecchia, fino a decomporsi. La scena si svolge su un treno, di fronte a un passaggio a livello, dove attendono Marina e Dylan ormai adulti.

Un gioco di rimandi, in cui il treno è “retoricamente” la giovinezza che se ne va (lo afferma Dylan, mentre Marina gli fa notare che è la sua solita retorica), ben conscia, allo stesso tempo, di quello che sarà il futuro. Forse l’idillio perfetto non esiste nemmeno nei ricordi, a meno di ignorare le conseguenze svelate dal finale. Per Marina, un matrimonio finito male e la scelta estrema del suicidio, che ricalca le aspirazioni tragiche sulla scogliera di quell’estate lontana. Prima c’era stata la prova di coraggio di Dylan, il tuffo da una scogliera per raggiungere il galeone totemico: ne era quasi morto. Poi, il “vorrei morire” del giovane su quella stessa scogliera. E, di nuovo, la giovane Marina, sempre affacciata sull’abisso dopo la precipitosa partenza di Dylan. Infine, il suicidio di Marina adulta, mentre Dylan s’interroga sull’esito di quell’estate, chiedendosi se lui e Marina si fossero detti addio. Un esito indeterminato, come lo sono i ricordi successivi ai momenti perfetti. Il numero si chiude con la versione più consolatoria, ossia i saluti alla stazione – versione ripresa anche in Saluti da Moonlight (n. 221) del 2008, che pur con i limiti degli albi di quel periodo (c’è anche una pacifica manifestazione per le occupazioni abitative in cui s’infiltrano dei black block), tra una citazione di Keats e l’altra, offre un valido spunto sul tradimento e l’abbandono dei “sogni di gioventù”, ispirato alle vicende di altri villeggianti di Moonlight.

Eppure, l’interrogativo non è solo relativo a quel saluto di fine estate. La stessa natura del viaggio dei due adulti, desiderio espresso da Marina prima di suicidarsi dalla scogliera, resta sfumata. A reggere la sua bara c’è lo stesso pescatore che aveva rianimato il giovane Dylan dopo il tuffo. E Dylan Dog, alla vista della bara, esclama: «Perché piango?… Lo sapevo!… L’ho sempre saputo», quasi che il tragico gesto risalga a venti anni prima e che il matrimonio con Rick e il rimpianto seguente fossero solo la dimostrazione di un inevitabile finale tragico. Il rimpianto di aver sognato una vita di rimpianti, giocando quasi alla maniera nolaniana di Inception.

Un idillio estivo, forse, prodotto solo dai rimorsi che ne sono seguiti, e la cui realtà stessa viene meno. Si compie la domanda di Dylan, al rientro a Craven Road: «Ma quanto tempo ci separa dalla prossima estate?». L’estate come attesa di un momento perfetto, aspirazione che può esistere solo nel ricordo di un momento passato altrettanto perfetto, fosse anche immaginario. Un momento che siamo costretti ad attendere e cercare, come il gatto di Robert A. Heinlein, deciso a farsi aprire tutte le porte, alla ricerca della Porta sull’estate, come titola il romanzo omonimo. Un momento poi traslato su un altro piano: continuare a comprare albi, sperando di trovare quella storia perfetta. Se mai ce ne sono state, Il lungo addio è tra quelle.

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