Lo schermo teatrale. Di soggettive, cortocircuiti, teatri cine-televisivi

Anton Giulio Mancino
Dario Argento n. 15/2022

«Pensier di sangue, d’onde sei nato?», si interroga cantando il protagonista feroce del Macbeth di Giuseppe Verdi. Soggiogato dalle streghe, complice la personale e viscerale ambizione di potere pungolata dall’incontenibile sua (dark) Lady M., il cupo dignitario di corte si esprime come un omicida compulsivo argentiano. Se non fosse sul palcoscenico in una Scozia lontana nel tempo, potrebbe scrivere romanzi gialli o realizzarli, come il Peter Neal di Tenebre (1982). Magari dedicarsi al cinema e al teatro. Perché è questo che fa Dario Argento: concepisce i suoi film lasciando emergere e all’occorrenza stridere gli elementi teatrali di base. Ovvero, trasformando la scena del delitto in uno spettacolo sensuale, irrefrenabile, a metà strada tra la scena intesa in accezione teatrale e la scena primaria che in psicanalisi corrisponde alla prima, determinante scoperta – da parte del bambino o della bambina – dell’atto sessuale consumato dai genitori. La scena, nel cinema teatrale di Argento, è il delitto che si reitera a tempo indeterminato come rituale irresistibile. Perciò, all’occorrenza, necessita di tutti i cosiddetti oggetti di scena, gelosamente contemplati dal soggetto omicida di turno – in cima alla lista quello di Profondo rosso (1975) – e opportunamente ingigantiti dall’obiettivo speciale e dal feticismo della macchina da presa. Queste suppellettili ludiche sono il parto compiaciuto di un’immaginazione fervida e ossessiva, che accomuna l’autore dei delitti e quello del film o dell’opera (teatrale o lirica). Non è un caso che quel Macbeth verdiano, elaborato a partire dall’originale shakespeariano e messo successivamente a punto come libretto da Francesco Maria Piave, Argento non se lo lasci sfuggire.
In Opera (1987), la maledizione conclamata di Macbeth diventa il filo conduttore della catena delittuosa che in qualche modo consente al maestro del giallo, del thriller e dell’horror, di elaborare in modo liberatorio il “lutto” del mancato Rigoletto previsto con la sua regia teatrale nel 1985, allo sferisterio di Macerata1. Ma la vicenda professionale di Argento come direttore di scena di opere liriche, specialmente di quell’opera verdiana a lungo accarezzata, va incontro piuttosto a una benedizione. Nella stagione 2013-14 del Teatro Coccia di Novara l’autore romano riesce finalmente ad allestire il suo Macbeth e a dare fondo alle sue pulsioni, ai suoi stilemi, alle sue scene madri (primarie) di sempre. Le streghe folleggiano completamente nude, sporche ma con un trucco pesante da punk, il contesto è quello delle guerre moderne e Re Duncan viene forsennatamente pugnalato a una finestra in alto molto simile a quella in cui si consumava la barbara mattanza della parapsicologa Helga Ulmann in Profondo rosso: il pianista jazz Marc Daly vi assisteva impotente, come lo spettatore a teatro.
L’essenza teatrale del cinema argentiano si sviluppa, si spiega e si declina in tanti modi. Avendo fin qui citato spesso Profondo rosso, occorre provare a chiedersi in quale circostanza prenda forma il connubio a un livello insospettabile. Chi, a proposito di Argento, tra i tanti esempi che si possono fare di investimento sul teatro nei suoi film – dal cast alle trame, dalla messa in scena dentro la messa in quadro all’impostazione molto recitata dei suoi dialoghi anti-realistici – chiamerebbe in causa, infine, il meta-teatro pirandelliano? Eppure, è da lì che ha origine l’ingresso teatrale cui si assiste nella terza scena di Profondo rosso, inaugurata dalla soggettiva dell’invisibile entità assassina. Racconta l’attrice, autrice e regista Claudia Donadoni che, durante le prove di uno spettacolo musicale basato proprio su Profondo rosso, le indicazioni di scena di Argento fossero di basarsi sul modello di Luigi Pirandello.
La prova del nove, che aiuta quindi a comprendere in profondità – è il caso di dire – questo film cult, arriva con dieci anni d’anticipo su questo film. Grazie a un’altra pellicola, per molti versi insospettabile visto che di solito non viene considerata tale. Invece, è proprio la straordinaria componente cinematografica della più celebre trasposizione televisiva Rai di Sei personaggi in cerca d’autore ad aprire un varco che conduce prima a Profondo rosso, nel 1975, poi all’analoga operazione di Roman Polanski con Venere in pelliccia, nel 2013. Nel 1965, infatti, con Sei personaggi in cerca d’autore viene compiuta una scelta audiovisiva tutt’altro che passiva rispetto allo spettacolo originale della memorabile Compagnia dei Giovani per la regia di Giorgio De Lullo e le prove straordinarie di Rossella Falk, Romolo Valli, Elsa Albani, Ferruccio De Ceresa e Carlo Giuffrè. Non si tratta, insomma, di una semplice “registrazione” avvenuta in teatro a Spoleto. C’è qualcosa di più, che la pista argentiana di Profondo rosso porta infine allo scoperto.
Questo film per la Rai parte con un singolare, insistito e duraturo movimento che dall’ingresso conduce in teatro, attraversa l’androne, procede lungo un corridoio, supera la tenda d’accesso alla platea e arriva in prossimità del palcoscenico, dove stanno per cominciare allusivamente le prove di Il giuoco delle parti. Il tutto senza mai concedere allo spettatore televisivo un controcampo in grado di rivelare a chi appartenga il punto di vista inaugurale. Non è neppure un caso che le caratteristiche marche filmiche, questo notevole Sei personaggi in cerca d’autore le condivida, andando a ritroso, con l’unica pellicola di un altro grande autore teatrale, Samuel Beckett, in veste di sceneggiatore del cortometraggio Film del 1964, diretto da Alan Schneider e interpretato senza proferire parola da Buster Keaton. Sono dunque due, entrambe di matrice teatrale, le ampie aperture in soggettiva che spianano la strada all’ispirazione di Argento per l’ingresso in teatro di Profondo rosso.
Non occorrono chiose per comprendere la strategia della soggettiva cinematografica come strumento principe per spiazzare lo spettatore e costringerlo a chiedersi, mediante la macchina da presa che si fa schermo di una non-persona – o di un macro-personaggio – dedita all’omicidio seriale, di chi siano i contorni occultati del personaggio assente. In Dario Argento il personaggio non è in cerca d’autore, bensì è l’autore stesso, che all’occorrenza presta direttamente le sue mani all’alter ego che uccide.
Dunque, per entrare caso di studio di Profondo rosso occorre munirsi di Pirandello, seguendo le indicazioni di Argento. E rimandare la palla fa tornare all’altro (mancato) caso di studio, cioè Sei personaggi in cerca d’autore della Compagnia dei Giovani nell’edizione Rai. L’espediente utilizzato in questo film, intrinsecamente pirandelliano grazie al senso di spiazzamento esistenziale trasferito di continuo dai personaggi agli spettatori televisivi, nel corso dei decenni contagia necessariamente due cineasti molto in confidenza con la suspense, la paura e le soggettive. A turno Argento e Polanski, volenti o nolenti, citano la scena primaria televisiva di Sei personaggi in cerca d’autore. Fanno tesoro – Argento di sicuro, Polanski di conseguenza – di un signor nessuno che trascende l’evidenza fisica e incede in veste di ulteriore e invisibile personaggio/autore. Possibilmente al riparo da sguardi indiscreti, avanza fino ad arrivare ai piedi del palcoscenico. Non lo si vede in volto perché è costui, indipendentemente dalla connotazione sessuale, a guardare. E guardando non si fa guardare, come nei gialli, nei thriller o nei polizieschi – non soltanto di Argento – in cui si vuole mantenere celata l’identità dell’assassino o del colpevole. In Pirandello, la sola “colpa” del personaggio in commedia, si sa, è quella di esistere. E lo spettatore non ha altra scelta che seguirlo, vedendo ciò che vede lui (o lei, poiché spesso nel cinema e a questo punto nel teatro, o nel cinema-teatro di Argento, la mano omicida è femminile o duplice: maschile e femminile). Senza, cioè, potere identificare da subito chi uccide. La presenza/assenza del serial killer rimanda a quella del fantasma di un autore dapprincipio ricercato in Pirandello dai personaggi e in Argento dalle forze dell’ordine, seguendo una copiosa scia di sangue.
In quel Sei personaggi in cerca d’autore la macchina da presa si vede nella misura in cui vede al posto degli spettatori posizionati davanti al televisore. Entrando, l’entità dichiaratamente cinematografica alza subito lo sguardo dalle pareti al soffitto, passando in rassegna i vari maestosi lampadari. La prima svolta perpendicolare destra mantiene sullo schermo la rassegna dei nomi e dei ruoli di attori e personaggi, mentre la seconda porta dritti in platea, oltre la tenda, e restituisce una a una tutte le figure che hanno concorso specificamente alla “regia” – anche quella apparentemente ignota – del film. La premessa estremamente filmica, che ha come spazio dell’azione quello teatrale di Sei personaggi in cerca d’autore, secondo un principio di rispecchiamenti reciproci, spiega l’omaggio testuale di Argento al Pirandello televisivo. In Profondo rosso, infatti, la presunta e altrettanto invisibile persona pronta a compiere una serie di azioni criminali varca ugualmente la soglia della platea per assistere a una dimostrazione pubblica, molto teatrale e perciò plateale, di quella parapsicologia già molto cara a Pirandello.
Dunque, non serve domandarsi se davvero Argento abbia avuto in mente proprio Sei personaggi in cerca d’autore per Profondo rosso. Il nostro ama e pratica il palcoscenico da sempre. In tantissimi suoi film adopera volentieri attori di teatro. E la più alta concentrazione si ha proprio in Profondo rosso con Gabriele Lavia, Glauco Mauri, Giuliana Calandra. C’è poi Rossella Falk, a proposito di Compagnia dei Giovani, in Nonhosonno (2001). Senza contare le tante volte che sceglie un teatro come scena del delitto. Fanno testo 4 mosche di velluto grigio (1971), Profondo rosso, Opera, Il fantasma dell’Opera (1998) e Nonhosonno. Ma non sono forse palcoscenici tutti quelli in cui si allestisce un omicidio e qualcuno fa da spettatore, costretto infine a ricordare ciò che dapprincipio ha dimenticato o rimosso, per esempio da L’uccello dalle piume di cristallo (1970) a Il gatto a nove code (1971), fino a Trauma (1993)?
A questo punto è giusto che le «coincidenze significative» – concetto che Giorgio Galli mutua da quello di “sincronicità” junghiana – portino puntualmente all’analogo incipit di Venere in pelliccia di Polanski, ulteriore film che senza equivoci rimette in scena e a maggior ragione in quadro una fatale prova teatrale2. Daccapo lo spettatore partecipa della focalizzazione all’inizio impersonale e sovrumana che, come tale, torna alla fine a riconfigurarsi con un opportuno movimento della macchina da presa, sempre in soggettiva, simmetrico e opposto. Il soggetto/personaggio/autore della soggettiva resta sconosciuto finché il movimento della macchina da presa che lo veicola non investe lo spazio esterno, di proprietà riservata del film.
Varcata da subito la sintomatica soglia del teatro, come in Sei personaggi in cerca d’autore e quindi in Profondo rosso, giunge in Venere in pelliccia il raccordo temporaneo tra campo e controcampo che provvede a ricondurre il movimento soggettivo al personaggio femminile, con il compito diabolico di stravolgere l’impianto e il rinnovato gioco delle parti, ergo gli abiti e la posizione del potere in quel caso registico, cioè maschile e d’autore in quanto autoritario.
Semmai, nei casi di Argento e Polanski occorrerebbe indagare su quella componente omicida dell’inquadratura soggettiva allorché si scopra avere contorni femminili. In Venere in pelliccia questa reincarnazione del bisogno pirandelliano di decostruire il dispositivo tradizionale, univoco e ordinario, attraversa l’ampio viale parigino e va a collocarsi, scivolando tra due file simmetriche di alberi. Devia quindi a destra per entrare in teatro. E al termine, quando esce, replica a ritroso il percorso mantenendo la soggettiva, libera ormai dall’obbligo di qualsiasi controcampo personificante. L’indizio principe del procedimento semantico attuato va cercato nell’edificio canonico in cui si immette la donna sostituita e reinterpretata dalla macchina da presa: non si tratta semplicemente di un teatro, in Polanski, ma di un «t…eatre». Sull’insegna in alto manca di proposito, nell’accezione lacaniana, quella “H” cubitale che siglerebbe altrimenti la piena corrispondenza tra la commedia originale e il film derivato. E con essa il consueto dominio, ergo la fagocitazione («EAT») del teatro nei confronti del cinema che per decenni ha penalizzato la consistenza filmica di Sei personaggi in cerca d’autore alla quale Argento, con Profondo rosso, ha restituito da par suo spessore, giustizia e dignità inquietante.

Note
1 Nel 1985 Argento fu chiamato dall’amico Raffaele Curi – per due anni allo Sferisterio di Macerata – a dirigere il Rigoletto, dopo gli abboccamenti falliti con Francesco Rosi, Peter Ustinov e Martin Scorsese. L’autore romano accettò e preparò con entusiasmo bozzetti e idee interpretative. Previsti spargimenti di sangue e vichinghi, nonché il Duca di Mantova calato nei panni di un vampiro. Ma proprio a causa di questo esubero di violenza, la candidatura di Argento fu bocciata. Il regista, deluso, tornò a concentrarsi sul cinema, ma dedicò il successivo Opera proprio allo Sferisterio di Macerata.
2 Cfr. Galli Giorgio, Le coincidenze significative. Da Lovecraft a Jung, da Mussolini a Moro, la sincronicità e la politica, Lindau, Torino 2017 (seconda edizione).

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