"La terza madre". La Madre di tutte le madri

Andrea Pirruccio
Dario Argento n. 15/2022

La terza madre, la madre che mancava, quella che Argento doveva ai suoi fan, alla sua uscita deluse pressoché tutti e fu irriso con gli stessi argomenti (triti e ritriti) con cui la maggior parte dei critici e degli spettatori meno accorti demolisce il cinema del regista romano da quasi un quarantennio: attori mal diretti, sceneggiatura colabrodo, disprezzo per la logica.
Come se la direzione degli attori fosse mai stato un aspetto in cima alle preoccupazioni di Argento; come se i primi due capitoli della trilogia delle Madri rappresentassero degli inattaccabili dispositivi di scrittura e non due esperienze sinestetiche mai più eguagliate. Come se il mercato, nei decenni che separano i primi due capitoli dall’ultimo, non fosse radicalmente cambiato, così come le condizioni produttive con cui Argento si è ritrovato a lavorare. Come se a cambiare non fosse stato lo stesso pubblico.
Le considerazioni sono talmente ovvie che rasentano la banalità: Argento non ha più a disposizione per la fotografia né Luciano Tovoli né Romano Albani, non ha più Davide Bassan alle scenografie. La pellicola impiegata per Suspiria (1977), quella Kodak 30-40 ASA che garantiva colori irripetibili e profondità di campo straordinaria, è ormai una reliquia. È la stessa pellicola a essere stata messa da parte in favore del digitale. E dunque Argento fa l’unica cosa che gli è permessa: si adegua alle condizioni presenti senza abiurare sé stesso, mettendosi in gioco con la generosità e la coerenza di sempre.
Così, mentre le rotte dell’horror del Duemila iniziano a portare altrove, verso un Male che è suggestione solo intuibile (il 2007 è anche l’anno di Paranormal Activity di Oren Peli), La terza madre si apre con una tra le scene più raccapriccianti della carriera dell’autore: l’omicidio feroce di Giselle, sbudellata e strangolata con i suoi stessi intestini. È una dichiarazione d’intenti talmente chiara da risultare cristallina. Una rivendicazione netta: può cambiare tutto, ma la rappresentazione della morte, nel cinema argentiano, deve essere sempre performance atroce, scioccante. Liberata dall’apertura di un’urna ritrovata per caso, Mater Lacrimarum, la più bella delle tre Madri, scatena il caos a Roma.
L’idea di una città in preda a un delirio collettivo sembra prendere spunto dall’albo n. 5 di Dylan Dog (Gli uccisori, febbraio 1987), ispirato a sua volta a La città verrà distrutta all’alba di un regista affettivamente legato ad Argento come George A. Romero (anche lui impegnato, nel 2007, a girare il magnifico Le cronache dei morti viventi, aggiungendo un altro capitolo alla saga di una vita). Una vicinanza, quella tra Dario e il fumetto di Bonelli, che sarà poi sancita nel luglio del 2018 con il n. 383, Profondo nero, di cui Argento firmerà il soggetto e condividerà la sceneggiatura con Stefano Piani. La capitale messa a ferro e fuoco da un’ondata di crimini è una di quelle trovate per cui si rimpiange il fatto che il regista non abbia potuto lavorare con un budget più ampio; tuttavia, la furia iconoclasta delle immagini dedicate a un’umanità deragliata portò all’epoca Giulia D’Agnolo Vallan a parlare di «delirio collettivo di distruzione che fa pensare a Howard Philips Lovecraft». L’ispirazione parzialmente fumettistica è ribadita dal flashback in cui si ricostruisce l’origine dell’urna e il suo viaggio da Aosta a Viterbo, restituito non a caso attraverso una serie di tavole disegnate. Ma, sequenze di follia collettiva a parte, La terza madre è in realtà, genialmente, un film matrilineare su tutte le madri possibili: su quelle che uccidono i loro figli in preda al delirio di massa (e se l’omicidio del figlio di Michael è solo lasciato intuire, quello della donna che scaraventa il neonato dal ponte e quello dell’aiutante di Padre Johannes che sventra il proprio bambino sono agghiaccianti, vere e proprie immagini-UFO per un horror di quegli anni, e non solo); ma anche su quelle che vorrebbero diventarlo a prescindere dai legami di sangue (Sarah, impersonata da Asia Argento, dice di amare il figlio del suo compagno come fosse suo). Ed è, ancora, un film di madri che non ci sono più ma che ancora proteggono dall’Altrove i propri discendenti, come fa Elisa Mandy con Sarah, mostrandole la strada per salvarsi dal Male. La scena in cui la protagonista si risveglia e guarda con tenerezza la fotografia della genitrice che la tiene in braccio da bambina, in una sovrapposizione vertiginosa tra cinema e vita (Asia Argento e Daria Nicolodi, figlia e madre al di là dell’arte), si imprime nel cuore dello spettatore come una tra le immagini più significative e struggenti di tutto il corpus argentiano, motivo già sufficiente per deplorare il tono derisorio con cui il film è stato accolto. E se alla fine non si avvererà la profezia di Michael («Ora abbiamo tutti una madre sola: la madre delle lacrime») sarà proprio perché Sarah riuscirà a riallacciare il legame con la propria mamma, di cui sapeva poco e a cui non aveva perdonato il fatto di averla lasciata sola per combattere le streghe, in un destino che già prefigurava quello che sarebbe diventato il suo. Nonostante i citati limiti di budget spingano spesso l’autore in territori linguisticamente para-televisivi, con quelle alternanze di piani medi precedentemente estranee al suo vocabolario visivo, La terza madre è una conclusione degna della trilogia iniziata nel 1977 anche nella scelta non banale delle location: il film si conclude a Villa Imperiali Becker, edificio secentesco sulle colline torinesi di cui Argento ha saputo utilizzare lo stato di degrado per farne uno spazio ostile, sordido, ideale per ospitare il mefitico sabba terminale. E quando Sarah approda al suo interno, il regista sembra ritrovare il gusto per le riprese impossibili che sono state un suo marchio di fabbrica: pedina la ragazza in un piano-sequenza lunghissimo ed entusiasmante, fino a farla smarrire nei meandri della casa maledetta, la casa di Mater Lacrimarum. Quasi una prova di forza dell’autore, un pugno picchiato con forza sul tavolo, una dimostrazione della potenza della sua idea di messa in scena a dispetto di un apparato produttivo che non crede più nell’horror, come del resto in nessuno dei generi che di quell’apparato contribuirono a fare la fortuna. Un piano-sequenza che si fa sineddoche di un intero film – con i suoi incredibili eccessi splatter – e suona come una sfida. La sfida di un Maestro che lavora con le carte che ha in mano e si vede costretto a fare ricorso a una CGI scadente. E allora, in un ultimo e sublime sberleffo, decide di metterla in crisi, quella CGI, di denunciarne l’inadeguatezza chiudendo la sua opera libera e selvaggia con un fondale talmente posticcio che la stessa protagonista, sua figlia nella vita, non può non riderne sardonica. Perché sa, come noi, che il genio non si può imbrigliare. Basta solo saperlo guardare e riconoscere.

CAST & CREDITS
Regia: Dario Argento; soggetto: Dario Argento; sceneggiatura: Jace Anderson, Dario Argento, Walter Fasano, Adam Gierasch, Simona Simonetti; fotografia: Frederic Fasano; scenografia: Francesca Bocca, Valentina Ferroni; costumi: Ludovica Amati; montaggio: Walter Fasano; musiche: Claudio Simonetti; interpreti: Asia Argento (Sarah Mandy), Cristian Solimeno (Enzo Marchi), Adam James (Michael Pierce), Moran Atias (Mater Lacrimarum), Valeria Cavalli (Marta Colussi), Philippe Leroy (Guglielmo DeWitt), Daria Nicolodi (Elisa Mandy), Coralina Cataldi Tassoni (Giselle), Udo Kier (padre Johannes), Robert Madison (Lissoni); produzione: Claudio Argento e Dario Argento per Medusa Film, Myriad Pictures, Opera Film; origine: Italia, 2007; durata: 98’; home video: Blu-ray inedito, dvd Medusa; colonna sonora: Deep Red.

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