Avviso di sfratto, Bukowski

Vittorio Macioce
Charles Bukowski – Tutti dicevano che era un bastardo n. 11/2016
Avviso di sfratto, Bukowski

Il sole è quasi peggio della pioggia. Sei bagnato lo stesso, con il sudore che scende e inzuppa fino ai calzini, mentre arranchi in salita sui piedi piatti in uno dei settori punitivi della cartografia postale di Los Angeles. Il caldo risveglia i funghi tra le dita e, se d’inverno le mutande ti calano appesantite dalla pioggia, in questi giorni di quasi estate dovresti cambiare la camicia ogni quarto d’ora. I segni che sei un postino, supplente, sono la borsa a tracolla con le lettere in equilibrio precario e il cappello blu. Il resto, la faccia, il collo e il corpaccione, non è certo d’ordinanza. Non per questo, però, qualcuno può davvero lamentarsi di lettere smarrite o che non arrivano. Non sarai l’immagine del postino, ma non ti manca il senso del dovere. Tu, Hank Chinaski, sei l’utopia di Fantozzi. Donne, sesso, sbornie e un capo da sfanculare. Ma, se fosse solo così, sarebbe tutto molto più semplice. Il guaio del postino è che pochi si ricordano la sua faccia, quello che bofonchia e cosa conta davvero nelle storie che racconta: il pacco o il resto.

Se ti vedi con lo sguardo degli altri, quelli come mister Jonstone, Stone come gli sberleffi in faccia, il capo che ti fa sputare sangue perché è un pervertito del potere più misero e meschino, roba da caporali, uno che gode nel prendere a calci un poveraccio che tenta di stiracchiarsi la vita, sei la maschera del precario eterno. Ti fai chiamare Hank Chinaski ma sei solo Charles Bukowski, praticamente un fallito o un disadattato. L’unico posto decente che ti sia mai capitato è questo, il portalettere. Non è neppure male, se pensi che ti lascia parecchio tempo libero. Non ti va di ammetterlo, ma non ti dispiace l’idea di portare uno straccio di divisa. È come appartenere a qualcosa. Come dice Stone? Voi siete la faccia dello Stato Federale. Siete l’America. Forse voleva dire feccia, ma ogni tanto può essere perfino divertente crederci. Fatto sta che sei qui, a dar retta alle vecchie pazze che aspettano davanti alla porta una lettera d’amore: «Postino, postino, c’è una lettera per me?». No, non c’è, è inutile che urli. L’idea di entrare nelle case degli altri, scrutarle, immaginare quello che succede dentro, soprattutto se ci sono donne che fanno qualche pensiero sporco su di te, è stuzzicante.

Se avessi ancora voglia di scrivere, potresti raccontare la storia dei tuoi amori e delle tue avventure. Betty poteva essere tua per sempre, ma è scappata perché voleva essere la sola, le scopate di lusso con Joyce o quanto ti sei sentito coglione con Mary Lou, quei pomeriggi intriganti con Vi e come sei finito a dare retta alle chiacchiere di Fay.

La verità è che hai gironzolato per le biblioteche cercando cose da leggere. Come un malato, un drogato, uno che non riesce a smettere di divorare parole, storie, caratteri, menzogne, diagnosi sulle condizioni del mondo senza che davvero ci sia poi una cura, sempre più esigente, schizzinoso, incavolato, infastidito dalla troppa moneta cattiva che ti spacciano come letteratura e alla fine in crisi di astinenza, perché convinto che tutto ciò che c’è in giro di buono da leggere lo hai letto e allora non ti resta che camminare come un cartografo o un esploratore nelle strade di Los Angeles, seguendo la mappa che quel bastardo di Stone ti passa, quando è in buona, con la speranza di farti sputare il cuore e inventarti un buon modo per sopravvivere alla notte. Se sei solo un messaggero, gli altri non ti fanno pena, o se te la fanno – o, peggio, se ti fanno decisamente schifo – ti basta consegnare la lettera con un mezzo saluto e scappartene via. «Sono troppo solitario, troppo burbero, troppo contrario alla folla, troppo vecchio, troppo fuori tempo, troppo astuto, troppo scaltro per venire risucchiato e coinvolto. Mi sembra di essere l’ultimo esemplare dei solitari.» E anche questa, dopotutto, è una bella scusa.

Se porti le lettere, puoi scrivere senza spendere te stesso. Ci hai provato, a spenderti. Non era nemmeno finita la guerra. Doveva essere il 1944. «Era un racconto su Story, la rivista di Whit Burnett e Martha Foley. Avevo spedito un paio di racconti a settimana per circa un anno e mezzo. La storia che finalmente accettarono era leggera rispetto alle altre, cioè a livello di contenuto e stile e azzardo e sperimentazione e tutto il resto. In quello stesso periodo Carese Crosby accettò un altro racconto e dopo ho lasciato perdere. Ho buttato tutti i racconti e mi sono concentrato sul bere.» Quello che ti frega è il demone che non sta mai zitto, magari solo una forma ossessiva di ambizione, qualcosa del tipo Giovanna D’Arco, senti una voce che ti dice stai sprecando la tua vocazione, magari parla di te come di un grande scrittore che gli editori non sono ancora pronti a capire, ti urla e ti rimprovera che è passato ancora un altro giorno senza fare nulla, come se portare lettere non fosse nulla o abbastanza, che preferisci consumare le ore a masturbarti la carne e la mente e a manipolare gli alibi, che sono la scusa migliore per sbronzare i sensi di colpa. Sei stato dieci anni senza scrivere e non è vero che ti sarebbe venuto facile, scrivere è come pisciare, se solo avessi voluto. No, proprio non ti veniva. Non ti veniva neppure di lavorare.

Quando stai così, l’unica cosa che ti viene facile è lasciarti andare. Alla deriva. Fino a quando non arrivi al punto di fare i conti con te stesso. Il rapporto con il demone è come quello con il padrone di casa. Che gli dici se non hai i soldi? Domani. E vai avanti così, convinto di avere sempre tempo, giorno dopo giorno, per raddrizzarti, mettere le cose a posto, ricominciare a scrivere, lasciare un segno, fosse solo uno, un romanzo buono. Che ci vuole? Lo butti giù ed è fatta. Devi solo farlo partire. Domani. Domani trovi un modo per pagare l’affitto. Qualcosa succede. Solo un’altra notte, solo un’altra angoscia, ecco, adesso ti rilassi un po’ e sei pronto. Quel po’ è come il paradosso di Zenone, pezzettino a pezzettino diventa eterno. Tu sei Achille e il romanzo è la tartaruga. C’è sempre tempo per recuperare. Il demone poi, rispetto al padrone di casa, ti angoscia ma non ti sfratta. Non ti dà una scadenza. Non ti indica un limite. Se si vuole, è anche più stronzo. Colpisce a sorpresa. È quello che ti è capitato, Bukowski, la notte che sei finito nella corsia dei poveri del County General Hospital di L. A. con un’emorragia dal culo e dalla bocca che ti stava dissanguando, abbandonato in mezzo al corridoio per tre giorni, in attesa di una trasfusione. Eri quasi morto. Avviso di sfratto, Bukowski. Il tempo sta per finire. «Sono sopravvissuto, ma quando sono uscito di là il mio cervello era un po’ tocco e dopo dieci anni di astinenza dalla scrittura ho trovato una macchina da scrivere e ho cominciato a scrivere poesie. Non so perché, ma le poesie sembravano una minor perdita di tempo.»

Allora devi ammetterlo. Il berretto da postino supplente ti ha salvato la vita. Dicono che, comunque, ti arrangiavi a presentarti alle sei di mattina sobrio. Poi hai ricominciato a scrivere. Qualcosa devi a Jon e Louise Webb, con la Loujon Press. D’accordo, è poco più di una fanzine, stampa underground, ma su qualcosa il demone aveva forse ragione. Ti fanno uscire It Catches My Heart in its Hands e Crucifix in a Deathhand. Arriva la prima raccolta di racconti, Confessioni di un uomo folle abbastanza da vivere con le bestie. Cinquecento copie. È il 1965. E, l’anno dopo, Tutti gli stronzi del mondo e me. Il ’68 lo festeggi ancora da postino, pubblicando a puntate Taccuino di un vecchio porco, prima su «Open City» e poi sul «Los Angeles Free Press» e sul «Nola Express» di New Orleans. Il resto è quello che ancora fa impazzire Stone, il tuo capo, o se vuoi quello di Chinaski, chi dei due non ha importanza. È il segno che Dio è ingiusto. Così dice lui. Che razza di fortuna va a capitare a un tipo del genere. Non ha senso. Quello che scrive è degno della sua faccia. Il fatto che uno come lui scriva è già una bestemmia a tutto quello che la brava gente sostiene e si affanna ogni giorno a ricordare. Ci vorrebbe una patente per pubblicare qualcosa. Non basta. Ci vorrebbe un’autorizzazione pubblica. Non possono scrivere tutti, ma è quello che succede. Chinaski o Bukowski o come cavolo si chiama trova un sedizioso, pervertito quasi più di lui, che gli versa cento dollari al mese per non pensare più a un cazzo e scoreggiare in giro le sue stronzate. E quello si licenzia. Ha svoltato. Non è neppure un vero editore questo John Martin. Ha una ditta di forniture per ufficio a Santa Barbara. È uno che vende matite, graffette e spillatrici. Uno che colleziona le prime edizioni di libracci e che adesso fonda una cosa che si chiama Black Sparrow, solo per il signor Bukowski. Il minimo che merita è perdere tutto.

Non va così: «Ci siamo seduti a un tavolo, di fronte a un foglio di carta. Io ho preso la penna e lui ha fatto l’elenco di tutte le sue spese mensili. Devi pensare che era il 1965, il suo affitto veniva trentacinque dollari al mese. Poi gli servivano quindici dollari per pagare gli alimenti all’ex moglie, tre dollari per le sigarette, dieci per gli alcolici e altri quindici per il cibo. E, anche se sembra davvero poco, all’epoca riusciva a sopravvivere, si vestiva in modo decente, aveva una vecchia macchina e stava in un appartamento semidistrutto a East Hollywood. Poteva cavarsela, con cento dollari al mese. A quel tempo avevo uno stipendio di quattrocento dollari, quindi gli stavo versando un quarto di quello che guadagnavo. Ma, non appena abbiamo iniziato a lavorare insieme, le cose sono migliorate. Più avanti ho deciso di pagargli un onorario. Gli versavo diecimila dollari ogni due settimane. È passato da cento dollari al mese a diecimila ogni due settimane, e a quei tempi alla fine dell’anno gli saldavo il resto dei soldi che gli dovevo. Più tardi sono arrivati i soldi veri, quando abbiamo iniziato a vendere i diritti dei suoi libri alle case cinematografiche e roba del genere».

L’ultima faccia che vedi all’ufficio postale è quella di Stone.

«Cos’è questa?»

«Una lettera.»

«Non voglio le tue lettere.»

«Me ne vado. È una lettera di licenziamento.»

«Torni a fare il barbone del cazzo.»

«Non sono affari tuoi. Da domani non mi vedi più.»

«Ti sbagli. Non puoi licenziarti così.»

«Sì che posso. L’ho appena fatto.»

«Serve un preavviso.»

«Ti sto preavvisando.»

«Mi stai avvisando che finisci il mese.»

«Quindi?»

«Quindi stai qui fino al 31 dicembre 1970.»

Diciamo che è andata così, anche se tu l’avresti raccontata in modo diverso. John Martin, comunque, ci dice quello che viene dopo. «Bene, inizio a lavorare per te il 2 gennaio, perché l’1 è capodanno e quindi è vacanza. Sappi che i romanzi si vendono meglio della poesia, che ne dici di scriverne uno? Tre o quattro settimane dopo mi telefona. Ce l’ho; vieni a prendertelo. Cosa? E lui: il mio romanzo. Dall’ultima volta che ci siamo sentiti hai scritto un romanzo? E lui: sì. Come cavolo ha fatto? E lui mi ha risposto: la paura può moltissimo. Quel romanzo era Post Office.» La paura ha la faccia di merda di Stone. Puoi anche accettare di sentire le sue urla contro Hank postino, ma non la risata che seppellisce i tuoi sogni come scrittore. «Ricordo una volta che uno dei colleghi improvvisamente disse: non sarò mai libero. Uno dei capi che passava di lì si lasciò sfuggire una risata, godendo del fatto che questo tizio fosse intrappolato per tutta la vita.»

La via di fuga non passa per lo Stato, per la legge, neppure per la rivolta, perché il Leviatano burocratico è troppo forte, troppo reticolare, troppo sistematico. Chinaski ci ha provato, con il candore dell’Io che ancora crede alla favola dello Stato siamo noi o del Tu, cittadino, elettore, sei lo Stato. E invece lo Stato sono loro, non c’è speranza o redenzione se non ti aiuta il destino, il caso, la fortuna e quel maledetto demone che ti porti in corpo. È la stessa strada che porta alla conversione individualista, e in qualche modo capitalistica, del Banchiere anarchico di Fernando Pessoa. Ti salvi da solo ed è già un miracolo al quadrato. Chi difende i diritti dell’uomo senza qualità? Quello che manca nella foto di gruppo, perché più invisibile degli invisibili. Quello senza etichette, che non trova spazio nel calendario delle giornate da dedicare. Il povero cane sciolto, magari banale ma maledettamente reale, perché è per lui che è stata costruita tutta l’architettura sacrosanta dei diritti dell’uomo. È l’io, l’individuo. Senza aggettivi qualificativi, senza generi, senza razza, così universale da superare ogni discussione sul sesso degli angeli, perché il bello degli individui è che sono padroni assoluti della loro sfera privata. La mia casa è il mio castello. È questa l’unica bandiera di Chinaski.

«Erano gli stessi precari a rendere possibile l’esistenza di Jonstone, ubbidendo ai suoi ordini impossibili. Non riuscivo a capire come un uomo così palesemente crudele riuscisse a mantenere quel posto. I fissi se ne fregavano, il sindacalista non valeva una cicca, e così durante uno dei miei giorni liberi preparai un rapporto di trenta pagine, ne spedii una copia a Jonstone e portai l’altra giù al Federal Building. L’impiegato mi disse di aspettare. Aspettai, aspettai e aspettai. Aspettai un’ora e trenta minuti, poi mi portarono da un ometto dai capelli grigi e gli occhi come cenere di sigaretta. Non mi chiese nemmeno di sedermi. Cominciò a urlare appena mi vide entrare dalla porta.

– Ti credi furbo tu, eh, a fare queste puttanate?

– Preferirei che non usasse questo linguaggio, signore.

– Ti credi furbo, eh? Sei uno di quei figli di puttana con un sacco di paroloni in bocca e ti diverti a metter giù merda, eh?

Agitò i fogli verso la mia direzione. E urlò: – Mr. Jonstone è una brava persona!

– Non dica sciocchezze. È ovviamente un sadico.

– Da quanto tempo lavori alle poste, tu?

– Tre settimane.

– Mr. Jonstone lavora alle Poste da trent’anni.

– E questo cosa c’entra?

– Mr. Jonstone è una brava persona, ho detto.

Credo che il poveretto avesse voglia di uccidermi, in realtà. Probabilmente lui e Jonstone andavano a nanna insieme.

– Va bene – dissi – Jonstone è una brava persona. Lasci perdere questa fottuta storia.

Poi me ne andai e il giorno dopo mi presi una vacanza. Non pagata, naturalmente.»

La tua fortuna, Hank, la tua fuga, Bukowski, è trovare uno che si inventa editore perché crede al di là di ogni ragionevole dubbio nel suo talento. Scommette sull’imponderabile e vince. Scommette contro la burocrazia, contro la precarietà, contro i criteri di selezione, contro le leggi del lavoro, contro il proprio tempo e quello che verrà, contro il salario saltuario, contro tuo padre, che in qualche modo c’entra sempre, e contro chi non vede l’impossibile. Ok. È vero. Tu quel debito lo hai ripagato. Non con il successo. Neppure con la gloria e i soldi. Lo hai ripagato con un solo grande gesto: raccontando al mondo di John Fante. «Tiravo via i libri dagli scaffali, ancora e ancora. Leggevo solo le prime righe e sentivo la falsità e li rimettevo a posto. Era un vero show dell’orrore. Niente di legato alla vita, perlomeno non alla mia e a quella in strada e a quella della gente che vedevo in strada e a quello che erano costretti a fare e a quello che erano diventati. E un giorno successe che ho tirato fuori un libro di un tizio chiamato Fante. Le righe mi assalirono. Fuoco. Niente stronzate. Non avevo mai sentito parlare di Fante, nessuno parlava di Fante. Era lì e basta. Un libro. Era intitolato Chiedi alla polvere. Non mi piaceva il titolo ma le parole erano semplici e oneste e piene di passione. Cazzo, pensai, quest’uomo sa scrivere! Bene, ho letto tutti i libri che sono riuscito a trovare e ho capito che c’era ancora gente speciale sulla Terra. Fu decenni più tardi che citai “Fante” nei miei scritti. Non erano ancora stati pubblicati tutti ma erano stati spediti a John Martin della Black Sparrow Press, e una volta lui mi chiese, credo fosse al telefono: “Continui a citare Fante? È uno scrittore reale?”. Gli dissi che lo era e che avrebbe dovuto leggerlo. Presto l’ho risentito, era eccitatissimo: “Fante è grandioso! Grandioso! Non riesco a crederci! Pubblicherò i suoi libri!”. E allora è uscita la serie di Fante per la Black Sparrow. Fante era ancora vivo. Mia moglie mi suggerì che, visto che era una specie di eroe per me, dovevo andarlo a trovare. Era in ospedale, moribondo, cieco e amputato; diabete. Andammo all’ospedale e una volta a casa, dopo che l’avevano dimesso per un po’ di tempo. Era un piccolo bulldog, coraggioso senza provarci. Ma se ne stava andando. Scrisse ancora un libro in quello stato, dettandolo alla moglie. Black Sparrow l’ha pubblicato. Fu uno scrittore fino alla fine. Mi raccontò anche della sua idea per il prossimo romanzo: una donna che gioca a baseball fino ad arrivare alle grandi squadre. “Vai avanti, John, scrivilo” gli dissi. Ma presto se n’è andato…»

Qui c’è la tua grande poesia, postino, in questa storia di destini appesi a una ragnatela di fili. Il venditore di spillatrici che mette su una casa editrice per un solo autore derelitto e ottiene il massimo da questa scommessa. Lo scrittore che si fa leggenda e scova nella discarica dei libri perduti la letteratura unica e irripetibile di John Fante. Forse non sai neppure tu da dove venga il tuo amico John Martin.

Ma, tra l’Italia e l’America, gira a metà dell’Ottocento un altro John Martin, un trombettiere in camicia rossa. Si chiama in realtà Giovanni Martino. È di Sala Consilina, tra la Basilicata e Salerno. A otto anni vede un generale con il poncho che marcia verso Napoli. Il bambino urla: «Voglio parlarti».

Garibaldi lo sente e dice: «Che cosa vuoi da me, ragazzo?».

«Voglio partire con te.»

«Sei troppo piccolo per sparare.»

«Ma io voglio solo suonare la tromba.»

«Quando sarai più grande, verrai con me.»

Nel 1866, Martino quattordicenne suona la carica di Bezzecca, unica vittoria italiana nella terza guerra d’indipendenza. Ma, con l’Italia unita, il Sud fa la fame ancora di più e Martino compra un biglietto per l’America. Va alla conquista del West. Non si chiama più Giovanni Martino ma John Martin e indossa una giubba blu dell’esercito degli Stati Uniti. È a Little Big Horn con i cavalleggeri del generale Custer. Trombettiere. E, siccome la tromba in battaglia non spara, il biondo generale americano ordina a Martin di attraversare la linea indiana e cercare rinforzi. Ce la fa, ma troppo tardi. John Martin sarà l’unico superstite del settimo cavalleggeri. Non è parente del John Martin di Bukowski, ma sarebbe bello.

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