Da qualche mese è uscito in Italia un libro di un autore notevole, ripubblicato di recente anche in portoghese. Dal 1942, anno della prima edizione rumena, di questo libro si erano quasi perdute le tracce. Parliamo di Salazar e la rivoluzione in Portogallo, di Mircea Eliade (Bietti 2013, a cura di Horia Corneliu Cicortaş). Sulle motivazioni, o addirittura sulla necessità di questo ripescaggio, il dibattito è aperto, ma la lettura non è priva di un suo peculiare interesse.
Il celebre storico delle religioni, nato a Bucarest nel 1907, visse qualche anno a Lisbona, lavorando presso la legazione rumena, mentre nel resto d’Europa infuriava la guerra. Lì Eliade scoprì il regime salazarista e se ne innamorò. Gli parve una rivoluzione spirituale da contrapporre non solo al comunismo o al repubblicanesimo rissoso dei lusitani, ma addirittura al liberalismo e alla democrazia parlamentare in genere, tutti intesi come fenomeni di una modernità estranea a un’indole nazionale latina arcaica, presumibilmente genuina e autentica.
Eliade, che in quell’epoca a un’alacre produzione accademica affiancava la narrativa, racconta più di un secolo di vicende portoghesi con un brio davvero romanzesco.
Ma la sua visione della storia e del pensiero politico è a dir poco discutibile, utile solo a farci capire come la battaglia per la democrazia fosse una partita dal risultato tutt’altro che scontato, con fior d’intellettuali pronti a farsi trascinare su posizioni oggi imbarazzanti, ieri pericolose. Un imbarazzo che il curatore, Horia Corneliu Cicortaş, nella postfazione prova a dissimulare indulgendo al solito vecchio vizio di sdoganare la dittatura portoghese come una tirannide light, dietetica, o di difendere l’intellettuale famoso di turno da preconcetti di chissà quale oscura matrice. In realtà, la lettura del libro non lascia alcun dubbio sul fascino che questa «forma cristiana di totalitarismo» (parole di Eliade) esercitava sul diplomatico che, avendo vissuto sotto i terribili bombardamenti di Londra del 1940, a Lisbona deve aver apprezzato l’oasi di pace che Salazar era riuscito a conservare con la neutralità. Per chi volesse saperne di più sulle liaisons dangereuses di Eliade al tempo dei fascismi e anche sul suo periodo portoghese, resta consigliabile l’introduzione di Pietro Angelini al Trattato di storia delle religioni dello scrittore rumeno (Bollati Boringhieri, 2008).
Di certo, leggendo questo saggio si coglie come l’autore abbia ammirato soprattutto il modo in cui la destra portoghese seppe far piazza pulita di ogni pur timida forma di parlamentarismo, qui associato alle peggiori iatture che in quegli ameni anni si abbattevano sull’umanità. Ecco dunque proprio i capitoli biografici sull’uomo Salazar scivolare miserevolmente nell’agiografia, mentre le sottolineature puntigliose e continue dell’origine ebraica di certi loschi (secondo l’autore) figuri della prima Repubblica, spazzati via dal golpe del 1926, ci sembrano quanto meno di cattivo gusto, visti gli anni in cui il rumeno scriveva.
Ma come non ricordare allora che, in patria, l’autore era stato un adepto della milizia antisemita di Corneliu Codreanu, nota come “Guardia di ferro”? In realtà, nota Cicortaş, esistono indizi interessanti, per esempio nel diario che Eliade tenne in quel periodo, che fanno pensare a un possibile pentimento per aver scritto un’opera così documentata eppure così avventata, la cui ristampa oggi vale solo come testimonianza storica di un abbaglio.
Fra le annotazioni più curiose di quel diario, ce n’è una, piuttosto significativa, datata 16 novembre 1943. Eliade torna incantato e carico di libri da un viaggio a Parigi (che pure nel ‘43 non doveva essere un posticino delizioso, ma s’è capito che il nostro esperto di mistica antica era a suo agio fra le svastiche) e scrive: «Vivere in Portogallo, quando esiste Parigi!». Insomma la madre di tutta l’aborrita modernità, culla di ogni deprecabile illuminismo e altri “ismi” peggiori, aveva già conquistato il cuore e la mente di questo intellettuale che ci spiegherà, precisamente dalle cattedre di Parigi e poi di Chicago, come la religione serve ai popoli per proteggersi dalla «caduta nella Storia». Salazar e la rivoluzione in Portogallo ha il merito di rivelare che il suo egregio magistero anti-eurocentrico trova un aggancio segreto e un po’ inquietante nella biografia di un uomo che non deve aver subito apprezzato gli scenari geopolitici dell’Europa rinata dalla guerra, neanche al di qua della cortina di ferro dove, in esilio, visse il resto della propria vita.
L’esilio coinciderà comunque con il successo editoriale e accademico in un mondo che, proprio in quanto laico e democratico, aveva le spalle sufficientemente larghe per accogliere e lodare la sua lezione sulle religioni arcaiche. In Italia, dove era già noto sin dagli anni Trenta, se lo contenderanno sia Julius Evola sia i comunisti dell’editrice Einaudi, i quali, sulle orme di Gramsci, lentamente scoprivano cultura e religiosità popolari in un campo di studi in cui si provava a conciliare il marxismo con l’esistenzialismo alla Martin Heidegger.
(Marcello Sacco, «Sul romanzo», 16 febbraio 2014)