"Una gita scolastica". Sorella Morte e l’arte di dimenticare

Ilaria Floreano
Pupi Avati n. 10/2019

Delle metafore che la grande letteratura ci ha regalato per esprimere in una parola o poche di più ragionamenti complessi, quella della madeleine elaborata da Proust è certamente tra le più abusate, spesso da chi – di Alla ricerca del tempo perduto – non ha letto nemmeno un rigo. Chi l’ha fatto, sa che di “detonatori della memoria” il francese ne sperimenta diversi oltre alla famigerata conchiglietta: il muro giallo nella Veduta di Delft di Vermeer; la frase musicale dalla Sonata per pianoforte e violino di Vinteuil; a volte gli basta inciampare in un pietrino.
Ci vien da pensare che se Pupi Avati nei suoi film usa nomi di conoscenti ormai morti, rievoca fole ascoltate da bambino, affida ai personaggi aneddoti e manie di parenti stretti, forse lo fa perché tra tutti i nostri cineasti è quello che ha capito meglio il metodo-Proust e lo applica scientificamente (da sveglio): per lui il tempo non può andare perduto, ed ecco spiegata la foga con cui lavora per tenere presente e vivo il suon delle stagioni vissute.
Eppure, la battuta su cui si chiude Una gita scolastica (1983) è: «Nessuno era rimasto indietro a ricordare. Così quella loro gita poteva essere dimenticata per sempre».
Paradossale, sublime ribaltamento: il regista che ripercorre indefessamente le strade tra Sasso Marconi, Bologna, Roma e ritorno alla ricerca della sconfinata giovinezza – un po’ come il “fratello di Loris” batterà ansimante e sudato ancora e ancora le montagne di La via degli angeli (1999) – davvero può pacificamente accettare che una cosa venga dimenticata?
Tu chiamale se vuoi esorcizzazioni.
Nastro d’argento come miglior film, soggetto, musica, attrice esordiente (Lidia Broccolino) e attore protagonista (Carlo Delle Piane, anche Premio Pasinetti a Venezia), Una gita scolastica gode della levità di tutte le opere in stato di grazia, pur essendo intrisa di malinconia – in fondo è la rievocazione fantasmatica che l’anziana “signorina” Laura, poco prima di morire, fa della mitica gita vinta grazie all’ottima media voti insieme ai compagni della 3aG del Liceo Galvani, di cui è l’unica superstite, l’unica che ancora può ricordare, ancora per poco… – e ha quell’energia che anima il Sogno di una notta di mezza estate di William Shakespeare, pure nella sua rivisitazione secondo Woody Allen. Forse perché benedetta dall’«incanto» veemente ed effimero che sospinge i ragazzi su e giù per i boschi, destinazione Firenze.
La forma mentis di Avati, che è stato bambino – dunque ha irrimediabilmente preso forma – in un’epoca in cui il pensiero magico veniva impastato amabilmente con il razionale, è la stessa del professor Balla, che insegna Lettere, teme il preside, vive con la madre, a 46 anni non ha mai avuto una donna, si innamora follemente della collega di Disegno, e non a caso guida la sua classe lungo sentieri che conosce a memoria, trascinandola per deviazioni di chilometri in quella terra dove ci sono la casa in cui è nato, il cortile in cui ha imparato a tirare di boxe, il podere del suo amico con il ciliegio in frutto…
«L’incanto è con noi, possiamo andare»: l’uomo colto, timido e inamidato trova del tutto plausibile e naturale fermarsi in un punto preciso, accanto a un certo albero, ad aspettare che arrivi lo “spirito” senza il quale il viaggio certamente non potrebbe proseguire. E lo spirito arriva, sotto forma di folata di vento, dispettoso e giocherellone come lo sono questi fanciulli pieni di ansie, desideri e velleità, elettrici dell’elettricità che hanno i primi passi compiuti lontano da casa in compagnia degli amici, la quale Avati restituisce con vibrante partecipazione – li fa cantare, correre, saltare, baciarsi, litigare, barare – e Pasquale Rachini illumina soffusamente, per poi a un certo punto con un “trucco” farli sparire tutti in un banco di nebbia (memento mori…). Ciascuno con il suo zainetto – tranne uno costretto a girare con la valigia, i ragazzi imbrillantinati con la paglietta e/o il bastone, le fanciulle con cappelli a tesa larga e abiti blu da collegiali, che però quando è notte si trasformano in Nàiadi con la ridarella, caste per necessità e maliziose per fantasia.
Se “nostalgia” potrebbe essere il primo soprannome di Avati, “tenerezza” sarebbe il secondo, affezionato com’è a un’idea di donna oggi inconcepibile, nei suoi film stoicamente ricorrente (ma perché era così che andava! negli anni in cui Pupi era prima bimbo, poi ragazzino, poi giovane): giunte all’albergo, dopo essersi fatte disinfestare alla bell’e meglio da due concierge fin troppo zelanti, le ragazze si tolgono i grembiuloni e si ricoprono di trine e veli bianchi – gli stessi che la mattina hanno visto sulle bambine nel cortile della casa di Guglielmo Marconi… e sul volto della sposa morta insieme allo sposo prima di potersi sposare… infanzia-gioventù-vita-morte… con la penultima che sempre contempla l’ultima, senza paura – intrecciandosi nastri e fiori fra i capelli. Si considerano elementi ornamentali tra cui scegliere, si auto-espongono come fossero quadri, ma non c’è traccia di sottomissione: per loro è normale farsi belle per l’altro, vivere quello che hanno sognato, essere innamorate dello stesso ragazzo ed eventualmente passarselo. Si preparano per i loro compagni, rese audaci dalla condizione extra-domestica, li attendono invano e poi li inseguono a Porretta Terme, dove li trovano abbracciati a tipe ben più scafate. Ma non hanno paura di dichiarare il loro sentimento, per un bacio sono disposte a quella che oggi suona come la più turpe umiliazione – «Nemmeno per scherzo? Neanche tra una ragazza e l’altra?» – e se c’è una delusione, tant pis, il giorno dopo è tutto passato.
Semplice, no?
L’impegnativa, filosofica camminata verso Firenze – meta raggiunta in grande ritardo, subito da lasciare – è tutta un andirivieni di emozioni, dove si ha anche l’occasione di difendere l’onore della vita contemplativa facendo a botte con soldati sprezzanti e incrociare i ciclisti del giro d’Italia, offrire una borraccia, vederne uno spingerne un altro, quest’ultimo cadere, imprecare, rimettersi in sella. E così avanti, e poi indietro, come durante l’ultimo appello, un passo avanti e uno indietro esclamando «Presente!», come i martelletti sulle corde del pianoforte (Vinteuil…), fino al gesto di coraggio che scompagina la vita del professore – è il suo viaggio, questo, non solo il momento più bello della vita di Laura, che sulla foto di gruppo ormai sbiadita aveva scritto in corsivo “io” sulla sua pettorina, per ricordarsi che quella ragazza, «l’unica con gli occhi chiusi» (perché la morte ci accompagna sempre, da subito, senza scampo… e potrebbe arrivare «questo stesso pomeriggio» – di nuovo Proust), sì, era proprio lei.
Ed ecco che anche il ricordo è finito, la nebbia torna ad avvolgere e inghiottire, stavolta per sempre. «Solo un momento dura l’incanto/ Poi dovrai vivere la vita com’è».
A-dieu.

 

CAST & CREDITS

Regia: Pupi Avati; soggetto: Antonio Avati, Pupi Avati; sceneggiatura: Antonio Avati, Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giancarlo Basili, Annalisa Cecchini, Leonardo Scarpa; costumi: Steno Tonelli; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Carlo Delle Piane (professor Carlo Balla), Tiziana Pini (professoressa Serena Stanziani), Giancarlo Torri (Augusto Baldi), Lidia Broccolino (Laura da giovane), Nik Novecento (Baraldi), Bob Tonelli (albergatore); produzione: Antonio Avati e Gianni Minervini per A.M.A. Film; origine: Italia, 1983; durata: 90’; home video: Blu-ray inedito, dvd Ermitage; colonna sonora: RCA.

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