«Un film è una macchina estremamente complessa e faticosa. Il fumetto, invece, è libero. Sereno. Si è solo in due, lo sceneggiatore e il disegnatore. E se vuoi mostrare qualcosa di spettacolare, che al cinema sarebbe costosissimo, in un albo a fumetti non devi nemmeno preoccuparti del budget».
Con queste parole Dario Argento racconta una storia, un’esperienza, una filosofia: quella della differenza tra cinema e fumetto. Il “Master of horror”, luminare del brivido e pittore della suspense a tinte giallo-scarlatte, demarca una posizione, confessa un modo di intendere l’artwork e ne evidenza le criticità. O meglio, sottolinea le distanze che intercorrono tra due dimensioni lontane ma parallele, slegate ma connesse, aperte ma confluenti. Sulla bilancia dei valori troviamo una serie di elementi, di variabili potenziali che discriminano la valutazione e incidono sulla scelta esecutiva: soldi, semplificazione o articolazione produttiva, impiego massiccio od ottimale di risorse. Nel caso dei film, per esempio, è evidente quanto l’incidenza dei costi sia un fattore determinante per la realizzazione di un prodotto. Sul versante fumetto, invece, come precisa lo stesso Argento, la possibilità di fare economia, di ottenere con il minimo mezzo il massimo risultato, in un’ottica di contenimento spese, sembra un’ipotesi percorribile, più facile da attuare a livello teorico. È evidente che decidere di impegnarsi in un lavoro a fumetti possa essere più semplice, ma il risultato è sempre più appagante rispetto allo sviluppo di un film? A questo punto è opportuno riflettere sui raccordi e gli effetti tra le diverse macro-aree.
Nel paradiso delle idee c’è spazio per ogni forma di creatività e frontiera d’espressione. La ragnatela dei media è una fortezza liquida, tanto estesa quanto permeabile: cattura archetipi e li cristallizza fino a renderli concreti, corpi in metamorfosi di pulsante vitalità che vibrano in attesa di trovare una destinazione. Storie, personaggi, immaginari e universi sono frammenti differenti ma complementari, pezzi unici legati da un fil rouge: il desiderio di raccontare, di condividere una novità, un prospetto plane novum da parte dell’autore, del padre biologico che lo ha concepito.
Dalle pagine di un libro ai fotogrammi di una pellicola, sono le idee (nuove) a governare il mezzo. Idee scritte sulla carta, approdo fertile dell’immaginazione, in bianco e nero o a colori. Che siano statiche o in movimento, racchiuse in un volume scribacchiato o immortalate sul ventre plastico della celluloide. Il panorama massmediale è un mercato di libero scambio dove questi pensieri – e concetti – si riproducono da un settore a un altro in totale sinergia, in un clima di coesistenza pacifica. Oggi l’interdipendenza maggiore si instaura tra fumetto e cinema, tra chi ispira e chi viene ispirato, tra chi propone visioni e chi presenta soluzioni. È un collegamento sinottico che nasce con lo scopo di essere ampliato, sviluppato e, infine, realizzato. Che emerge con l’intento di dare origine e tramandare storie di generazione… in De generazione. Come l’omonimo film collettivo del 1994 con cui i Manetti Bros. debuttano al cinema, firmando la regia dell’episodio Consegna a domicilio. La fonte di ispirazione, dichiarata, è la serie tv del 1959 Ai confini della realtà, a cui segue, due anni più tardi, una pubblicazione di quattro fumetti per conto di Dell Comics in collaborazione con Western Publishing. Ed è qui che inizia il contatto tra i due mondi, tra due binari equidistanti ma integrati, dove generi diversi si depositano, convivono e cambiano, si mescolano e relazionano con sottile eufonia.
Il cinema sta al fumetto come il fumetto sta al cinema. Una proporzione che di matematico ha soltanto la formula, non lo sviluppo. La sintesi, non l’elaborazione. Perché il cinema dei Manetti è permeato di disegni, colori e storyboard. Di storie che escono dai fumetti e diventano vive, reali e tangibili.
Ed è così che, alle soglie del nuovo millennio, alle luci del 2000, si palesa sul grande schermo Zora la vampira, operazione dal sapore revival che intride la commedia di campiture horror, riadatta sotto forma di parodia le tavole di Renzo Barbieri e Giuseppe Pederiali eliminando il tenore originariamente erotico, le serigrafa su pellicola con rimandi alla tv italiana (Carràmba! Che sorpresa) e incursioni nella selva blaxploitation del Blacula di William Crain (1972, a sua volta influenzato dal Dracula di Bram Stoker).
Ma è tra le mura di casa Rai che i Manetti Bros. sperimentano e creano, sposano la loro forma mentis cinefila a uno stile fresco e pulsante, moderno e pop: dopo la parentesi di Torino Boys (1997), nel 2006 rimbalza in tv un personaggio scomodo, di rottura, eclettico e anticonvenzionale, destinato a diventare uno dei più amati dal pubblico: l’ispettore Coliandro. Plasmato sulla mimica e la fisicità di Giampaolo Morelli, L’ispettore Coliandro sfodera nel mazzo delle sue suggestioni un campionario di modelli iconoclasti del cinema poliziesco, dal Nico Giraldi (“Er Pirata”) di Tomas Milian all’imperturbabile Callaghan (alias “Harry la carogna” «perché fregava sempre tutti quanti»), eroe-antieroe urbano di San Francisco interpretato da Clint Eastwood. L’ispettore Coliandro è una comunione compiuta di fonti e legami, di narrativa e cinema: il suo approdo nell’etere televisivo arriva quindici anni dopo gli esordi su carta stampata per mano di Carlo Lucarelli, prima nel racconto breve Nikita, inserito nella raccolta I delitti del gruppo 13, e successivamente nei romanzi stand-alone Falange armata (1993) e Il giorno del lupo (1994). Due opere di successo che spinsero Granata Press a pubblicare nel ’93 le storie a fumetti scritte da Lucarelli e illustrate da Onofrio Catacchio sulla rivista «Nova Express» (unite nel ’94 in un volume per la collana Trame e poi ristampato da Edizioni BD nel 2003 e da Editoriale Cosmo nel 2016).
Per un personaggio come Coliandro, che esce dai romanzi e fa il salto in video, ce n’è un altro che dal cinema targato Manetti si presterebbe al percorso inverso, abbandonando le luci del set per riempire le nuvole di carta stampata: è il vulcanico Lollo Love, cantante neomelodico impersonato da Morelli in Song’e Napule (2014). Incontenibile e carismatico, Love si è insediato nell’immaginario cinematografico dell’ultimo decennio; un divo da rivista, fotogenico e piacione, perfetto da esportare in spin-off/crossover editoriali al cinema, in tv (in formato Coliandro) o a fumetti.
È una sorta di matriosca creativa, di struttura a scatole cinesi, quella che caratterizza lo stile dei Manetti, veri e propri designer che prendono spunto da altri media per generare prodotti, novità, opere di divulgazione che, a loro volta, ispirano altre forme d’arte inclusive e reciproche. In quest’ottica di interscambio culturale, di sapere e conoscenza, è evidente quanto sia fisiologica la correlazione tra i vari ecosistemi mediali. Che non provoca distruzione ma, al contrario, favorisce unione, innovazione ed evoluzione. Concetti chiave nel pensiero manettiano, che non solo si materializzano nel gemellaggio di sangue tra Antonio e Marco, ma esistono per ragioni elettive, superiori. Come l’incubatrice che custodisce le sette sorelle: architettura, musica, pittura, scultura, poesia, danza e cinema. E in tutto ciò, il fumetto dove si colloca? Nel perimetro d’azione di ogni arte: è ballo dell’immaginazione, ritmica narrativa, dipinto di versi vignettati, rilievo di storyboard (soprattutto) per il cinema. Un ricettacolo delle idee libere e più nobili, scenografate con gusto e originalità, come rimarcava Argento.
Sono i personaggi e le storie a gravitare nell’orbita del cinema dei Manetti, autori tout court che padroneggiano la macchina filmica con estrema intelligenza e rispetto per la materia. Antonio e Marco rispecchiano l’anima di un cinema popolare fieramente italiano, figlio dei grandi artigiani dell’industria degli anni Sessanta-Settanta-Ottanta, che vive nella varietà dei generi, nell’esigenza di avere un’alternativa, un’opzione pronta, per soddisfare ogni tipo di pubblico – basti pensare ai mix&match di film come Paura (2012), L’arrivo di Wang (2011, che ha qualcosa in comune con il racconto Story of Your Life di Ted Chiang), Piano 17 (2005, con l’escamotage dell’ascensore che ha influenzato The End? L’inferno fuori, prodotto dai Bros.) e Ammore e malavita (2017). E per benedire il legame tra il cinema e altri canali di comunicazione. Fumetti inclusi.