
«In quel tempo di mezzo inverno benché si recasse
ogni pomeriggio di sole sulla terrazza del Caffè alle Zattere,
vale a dire in un luogo per niente spiacevole e anzi rallegrato
dalle scarse cose liete che si possono trovare
in una città umida qual è Venezia durante la brutta stagione,
Antonio aveva soprattutto voglia di morire…»
Giuseppe Berto, La cosa buffa
Un film come La cosa buffa possiede una quantità di elementi di interesse tali da renderlo sottilmente affascinante e ingiustamente abbandonato tra i ricordi di un cinema “minore”. Si tratta di un’opera tratta dall’omonimo romanzo di Giuseppe Berto (che partecipò anche alla stesura della sceneggiatura), fedele al testo originale, mossa e allo stesso tempo impalpabile.
Se la trama erotico-sentimentale appare datata negli imbarazzi, nei sospiri, nelle corse al ralenti che vedono coinvolti i protagonisti, la bravura di Lado consiste nella capacità di trarre, da un materiale legato a un preciso contesto letterario-sociale, un film che vive di dettagli, di inquadrature sorprendenti per modernità, di una sensibilità in grado di ritrarre una condizione dello spirito. La cosa buffa è un “quadro” di un più ampio romanzo di formazione; un capitolo di un affresco novecentesco in cui si delinea, in forma di commedia, la messa in scena di una “età di crisi” segnata da rivoluzioni profonde: il fallimento del sentimento amoroso e l’incapacità degli esseri umani di rispondere a un ideale romantico, indeboliti da incessanti autoanalisi e dagli squilibri del desiderio. Una crisi che si fa ancora più profonda e destabilizzante nel maschio: Antonio, il giovane protagonista, è profondamente cosciente della propria inettitudine, che cerca svevianamente di mascherare attraverso una serie di autoinganni e spostamenti del desiderio.
La cosa buffa è una rappresentazione degli artifici dell’Io, pronti a escogitare alibi ed elevare una debole storia sentimentale a sublime proiezione amorosa: una menzogna complice in cui i protagonisti amano perdersi, ipnotizzati dalla bellezza di una Venezia-teatro di posa in cui va in scena l’ombra tremula e fuggevole di una passione.
Il romanzo procedeva attraverso una prosa luminosa e inarrestabile, fatta di periodi lunghi, priva di punteggiatura, eppure colorita e impusiva quanto i sentimenti dei due giovani. Lado trasferisce lo stile di Berto in un linguaggio cinematografico continuamente “doppio”, in un intrecciarsi di significante/significato: all’immagine letterale e “innocente” dei ragazzi che si rincorrono nei viottoli e calli della città lagunare si sovrappone la “presenza” del regista, il cui occhio magico ritaglia un’avventura romantica fatta di luce, acqua, cieli, architettura decadente, scale su cui fermarsi per un bacio.
La cosa buffa è vicino all’immaginario, è il sogno d’un sogno, la rappresentazione d’un desiderio. Antonio costruisce un amore ideale per sopperire al proprio vuoto di ideali, mancanza di reale ambizione, instabilità economica. Alimenta il proprio inconscio di maschio aderente a una identità collettiva frequentando l’amico Benito, con cui condivide un fallimentare cameratismo sessista e un’esistenza di tranquillizzanti apparenze. Maria, una meravigliosa Ottavia Piccolo, è una diciottenne che possiede tutto il misterioso incanto di una ragazza «sul limitare di gioventù». Proveniente da un’agiata famiglia veneziana, è un’adolescente colta, con una propensione all’espressione melodrammatica del sentimento: Berto descrive il loro incontro come l’esplosione di una «cosmica esaltazione».
Vittime consenzienti di una reciproca eccitazione, Antonio e Maria riflettono, nell’estasi di un amore tragico (che in realtà è «cosa buffa»), la monotonia di una vita senza scosse. Venezia è lo specchio incantato di questo amore pronto a dissolversi tra le nebbie invernali che cullano i palazzi morenti.
Gianni Morandi decise di partecipare al progetto dopo il rifiuto di Massimo Ranieri, intimorito da un ruolo che prevedeva erotismo e nudo integrale (lo ritroveremo, tuttavia, due anni dopo in La cugina, dello stesso Lado); sorprendentemente, Morandi offre una delle prove più sfumate e convincenti della propria carriera d’attore: il suo Antonio è impacciato, indeciso, perso nella vaghezza dei sentimenti; quasi consapevole di indossare una maschera da innamorato, si muove “recitando” la propria passione ed esprimendola attraverso un flusso di coscienza atto a giustificarla a se stesso. Ma Lado sa osservarlo da vicino e sa esprimere l’intima estraneità del personaggio nei confronti degli accadimenti, la sua necessità di proiettarsi, quasi finzionalmente, in un universo erotico e affettivo in grado di sottrarlo a un giovanile spleen.
La giovane Maria che egli incontra al caffè Le Zattere viene immediatamente soffusa da un alone di letteraria impossibilità: Antonio prova piacere nell’immaginarla come una bellezza pura e stilnovista, una delicata creatura atemporale. Lado ricrea le sensazioni del protagonista dedicando alla Piccolo inquadrature di sconfinata delicatezza: Maria appare evanescente, irreale, tanto nei primi piani (grazie anche alla fotografia di Marco di Giacomo, che conferisce al volto della ragazza una luce di arcana indefinitezza) quanto nei campi lunghi in cui il corpo di lei “scompare”, inghiottito dalla malinconia di Venezia. E vi è senz’altro un’analogia tra Maria e Venezia, “corpi” illusori e sfuggenti, bellezze tanto rarefatte quanto concrete e vive: l’aggraziata, timida Maria, scrive Berto, «non mostrava alcun proposito di sottrarsi», e i due giovani precipitano in una relazione dalla forte connotazione erotica, in cui le esperienze sessuali si tingono di un grottesco che è la mancata attuazione di quel “sublime” sognato da entrambi.
Antonio manifesta una quasi immediata inaffidabilità: le sue divagazioni oniriche gli rivelano, nel sonno, il velleitarismo del suo status amoroso (memorabile il sogno del matrimonio, gestito dal regista come un incubo allucinato e surrealista).
Lado ci fa intuire, tra le pieghe della commedia erotica, la tragedia dell’esperienza umana: il film è un continuo ambire a un cielo mai raggiunto. Antonio e Maria deludono se stessi quanto l’altro, e si allontanano lentamente aderendo alle proprie fantasie – quasi un doppio sogno – le cui direzioni si rivelano sempre più divergenti. Emerge un tratto prepotente, che è tipico della poetica di Berto, ovvero la depressione del protagonista; Lado lo avvicina furtivamente, per raggiungerne lo sguardo perennemente velato dagli occhiali: una montatura esile e dorata attraverso la quale Antonio filtra il mondo per proteggere la propria sensibilità delusa.
CAST & CREDITS
Regia: Aldo Lado; soggetto: Giuseppe Berto (dal suo omonimo romanzo); sceneggiatura: Aldo Lado, Alessandro Parenzo, Giuseppe Berto (collaborazione); fotografia: Franco Di Giacomo; scenografia: Alessandro Parenzo; costumi: Piero Cicoletti; montaggio: Alberto Gallitti; musiche: Ennio Morricone; interpreti: Ottavia Piccolo (Maria Borghetto), Gianni Morandi (Antonio), Angela Goodwin (la padrona), Fabio Garriba (Benito), Claudia Giannotti (sorella di Antonio), Nino Formicola (padre di Antonio), Rosita Torosh (Vera, come Rosita Toros), Luigi Casellato (Amedeo), Dominique Darel (Marika); produzione: Euro International Film, Carlton Film Export; origine: Italia, Francia, 1972; durata: 97’; home video: vhs Avo Film, dvd inedito, Blu-ray inedito; colonna sonora: EU Import.