Spettri della mia vita. Fenomenologia del fantasma nell’orrore contemporaneo, tra revenant e ghost
Saverio FeliciVent’anni fa eravamo tutti pazzi per i giapponesi. Lo slasher moriva insieme alle sue novecentesche nevrosi, e mentre l’horror mainstream americano annaspava nei suoi compromessi con l’estetica Nineties imposta da MTV, a parlare dei nuovi, più reali incubi digitali era rimasto solo l’Estremo Oriente. E faceva paura, come sempre fa paura l’infiltrarsi di un elemento estraneo nella nostra fragile concezione di ordinario (è l’ormai celebre definizione di weird data da Mark Fisher – da cui prendiamo in prestito il titolo di questo intervento).
Ma il successo internazionale di Hideo Nakata, Takashi Shimizu, Daisuke Yamanouchi e Kiyoshi Kurosawa andava oltre la fascinazione esotica per i nuovi, stranianti manierismi asiatici. Paralizzato dal primo, violento riflusso economico dopo il trionfale trentennio precedente, il Giappone stava battezzando prima di tutti la nuova generazione di incubi che avrebbe caratterizzato gli anni a venire: non senza una vena reazionaria, il J-horror raccontò l’emergere di un invisibile computazionale senza forma né confini, immateriale e pertanto onnipotente. Il tono (più o meno) utopistico con cui il cyberpunk locale aveva raccontato il fondersi della tecnologia digitale nel quotidiano lasciava il posto alla più gretta paranoia: a rivelarla una nuova oggettistica maledetta, figlia dei tempi (camcorder, VHS, registratori, cellulari) e i fantasmi che la abitavano. Negli anni successivi saranno lo shock del terrorismo e il risvegliarsi della Storia nei deserti mediorientali a rimettere in moto gli ingranaggi del genere nel cinema occidentale, distolto momentaneamente dalla contemplazione di sé e dei propri spettri perché alle prese con un ritorno dell’altro: ecco così il revival per qualche (gloriosa) annata delle vecchie, brutali ossessioni seventies per maniaci armati di mannaia, invasioni domestiche e armi da tortura. Oggi anche quest’ultima eco si è conclusa: il sangue si è asciugato – i fantasmi sono tornati. Anzi, nel cinema horror contemporaneo sono più numerosi dei vivi.
A dispetto della sua limitata storia cinematografica, la figura del Fantasma, un tempo ambasciatore di esotiche cinematografie straniere, è oggi preponderante. Le più diverse interpretazioni convergono a raccontare in chiave fantastica l’era dell’informazione e il suo rapporto con l’invisibile, il trapassato, l’astratto; tra queste letture e revisioni vi è anche quella di Mike Flanagan, nel cui cinema, forse più che in quello di tutti i suoi colleghi, il genere recupera un suo punto di rottura e si fa riflessione ultima su sé stesso come scenario orrorifico dominato da spettri – i veri terminali delle più astratte inquietudini contemporanee.
Il percorso del regista di Salem, per quanto autoriale, si colloca in tal senso al centro del varco tracciato dalle correnti principali che in questi anni hanno definito il sottogenere: prima fra tutte quella della Blumhouse e del suo doppelgänger James Wan, che della ghost story rappresentano i maggiori imprenditori attuali. La factory di Jason Blum, che nella creazione a getto continuo di boogeymen analogici ha realizzato la vera prosecuzione del monster movie anni Ottanta (e Cinquanta, e Trenta…) è in particolare responsabile di quella che appare come la definitiva incarnazione odierna dell’archetipo: demoni e spiriti in ogni forma e colore, design accattivante, aggressivi e fin troppo presenti. Del resto sono proprio la Presenza e sua relativa manifestazione la questione su cui divergono le varie letture date al fantasma cinematografico. E se nell’universo di Insidious (2011) e L’evocazione. The Conjuring (2013) l’esistenza dello spettro è assodata, percepita come un trucco in bella vista, i personaggi di Flanagan combattono costantemente con l’angoscia del dubbio. Tormento alimentato dall’autore stesso, che taglia, sfoca, mistifica l’apparizione. Un sottrarsi alla luce che rende l’interpretazione del regista infinitamente più interessante tanto dell’orgogliosamente superficiale modus operandi Blumhouse quanto della sua discussa fazione opposta: quel post-horror (o elevated horror, o indie-horror che dir si voglia) che infiammò i cinefili tra il 2014 e il 2018 imponendosi come grande alternativa “autoriale” alle declinazioni più popolari del tema. Una scena tanto florida quanto difficilmente assimilabile al resto della produzione de paura: l’acclamatissima proposta di David Robert Mitchell, Jennifer Kent o Ari Aster identifica infatti nello spettro non un soggetto attivo, ma un’entità essenzialmente poetica, funzionale all’espressione allegorica di un tema. Integrato nel rigido discorso simbolico di character studies in fondo convenzionali, il vuoto che il fantasma rappresenta scompare – annullando la centralità della creatura in sé.
Questa stessa rinnovata centralità del soggetto-Spettro è però il cuore dell’ossessione odierna nei suoi confronti. Mettendo in discussione la percezione sensoriale del protagonista, questo cinema obbliga i suoi personaggi a una riconsiderazione della loro identità, del loro senso di Io, e dunque del loro rapporto con il mondo. Da Stephen T. Asma a Eugene Thacker, in molti hanno definito l’orrore del soprannaturale come il rifiuto di fronte a una possibilità non-umana di esistenza. Rifacendoci alla terminologia derridiana, sembra che la storia di fantasmi oggi stia cercando nell’immagine audiovisiva una sintesi tra l’angoscia del revenant (il rimosso che ritorna) e quella del ghost (l’apparizione di ciò che è Altro); lontano dalle cornici gotiche della letteratura classica, il fantasma contemporaneo si palesa tra i led dei dispositivi elettronici casalinghi annunciando la presenza di un nuovo reale – indipendente dai, persino indifferente ai, personaggi umani. Visione che, ancor più che di maestri come Ramsey Campbell o Thomas Ligotti, è propria di Stephen King – del quale Flanagan è oggi il principale referente filmico.
È per questo che nelle ghost stories di Flanagan gli spiriti rispettano la propria caratteristica decisiva: non sono lì. Fuori fuoco e fuori campo, non ci sono, né si vedono: persino le loro più sfrontate apparizioni non sembrano dirimere il sospetto. Il suo cinema sfida le percezioni del protagonista-spettatore in maniera essenzialmente tecnica, mai metaforica. Scardina la dimensione spazio-temporale umana e ne impone attraverso il cinema una nuova: liquida, digitale, in cui presenti molteplici sembrano convergere. Il piano sequenza (gesto su cui l’autore ritorna costantemente) viene deviato contro sé stesso: non solo il long take non riesce più ad abbattere le barriere tra rappresentazione e reale, ma nel flusso visuale senza montaggio è la nostra stessa concezione di verità ad apparirci artefatta, illusoria. Non dal fantastico muovono i presupposti narrativi di questo cinema (come è invece il caso nella più lovecraftiana letteratura new weird) ma dalla realtà – la nostra. È l’avvento dello spettro a imporle dimensioni spaziotemporali nuove: nel sesto episodio di Hill House, capolavoro di decostruzione, il flashback e il flashforward convergono nella stessa sequenza (come avveniva in Oculus, che già nel 2013 trovava nella tecnologia lo strumento di dialogo con le presenze assassine, svelando la via per il superamento della materia).
«Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà»: l’incipit di Shirley Jackson attraversa il tempo come indicazione di un’immanenza dell’invisibile che apre alla trascendenza pura, lì in quella casa stregata di Hill House, Loggia Nera del nuovo secolo dove ciò che non è si mischia a ciò che non è stato – e i fantasmi di ogni vita passata e presente rivelano un Oltre dagli accenti quasi cristiani.
È stato scritto a più riprese della componente desiderante insita nella contemplazione dell’orrore, dell’attrazione per quell’alterità che suggerisca un passo successivo, che spezzi la catena dei significati aprendo lo spazio al nuovo. Apparsi all’inizio del millennio come un rimosso strisciante nel rumore bianco del digitale, gli Spettri delle nostre vite sono quelli delle identità volatili, di un’umanità riscopertasi fragile, sul punto di “perdere la propria presenza” e dissolversi nella nebbia dell’informazione. Ma in una prospettiva pressoché cosmica quelle stesse vibrazioni che vent’anni fa nutrivano incubi anticipano oggi la possibilità di nuove vite. Gli haunting, è stato scritto, ci legano a un passato che non è stato: nostalgia e dolore non ne sono esclusi. Forse l’aldilà annunciato dagli spettri di questi anni non pretende più di ricongiungerci a ciò che si è perso, ma di indicare nuovi presenti alternativi.