1975.
Aveva ventotto anni Stephen King quando uscì Le notti di Salem, il suo secondo romanzo, scritto dopo il folgorante esordio Carrie. La rotta da seguire era tracciata ed era horror, filone perfetto in cui riversare le impurità umane e le paure ancestrali radicate nell’inconscio collettivo. Là dove la linea teorica della psicanalisi junghista può trovare domicilio negli archetipi del racconto, nel gorgo del mondo reale e nelle sue oscure deformità.
King credeva fermamente nell’ineluttabilità del destino, nel disegno imprevedibile del mistero e nella fatalità all’origine delle cose. Decise di non trascurare il suo “sesto senso”, i segnali che la sorte gli aveva lanciato, e di farne un marchio di fabbrica. Quello che lo accompagnerà nel corso di tutta la sua produzione letteraria, nell’arco di una prolifica e fortunatissima carriera. Ma c’è forse un dettaglio, non di poco conto, che influenzerà irrimediabilmente il suo futuro artistico traghettato sul grande schermo.
Galeotta fu quella notte a Salem e chi la provocò. Si, perché proprio a Salem, nella terra delle streghe e delle sue leggende, il 20 maggio 1978, veniva alla luce un bambino talentuoso che sarebbe diventato, in proiezione futura, il narratore visivo più ispirato dei libri firmati dal “Monarca del Maine”.
Nome: Mike. Cognome: Flanagan. Professione: regista. Segni particolari: kinghiano. E destinato a un cammino luminoso, forse proprio per queste premesse, e a un’impetuosa ascesa nel panorama cinematografico mondiale.
Le traiettorie tra King e Flanagan iniziano a incrociarsi nel 2016, quando il regista di Salem decide di realizzare uno slasher movie dai crismi classici, declinato in una home invasion inquietante e tesissima. Per farlo Flanagan si concede un omaggio non banale: opta per un protagonista che di mestiere fa lo scrittore. Di romanzi gialli, come il re del brivido. Al contempo intercetta il clima progressista a lui coevo, e in particolare le pulsioni culturali dell’America contemporanea orientate al woman’s world: rilegge lo spunto di partenza del Tenebre (1982) di Dario Argento, giallo scientifico da manuale, icona del genere, e lo traduce al femminile, connotandolo con essenziali e chirurgici interventi di caratterizzazione degni di un veterano del thrilling su carta. Dunque sceglie non un lui – come il vero King o l’immaginario Peter Neal incarnato da Anthony Franciosa, ma una lei, Madison “Maddie” Young. Non solo: la rende sorda e muta, a seguito di un’operazione fallita per correggere i danni di una meningite contratta in adolescenza. Il risultato è Hush (2016), film che viaggia sul sottile confine fra thriller e horror, prodotto dagli specialisti della Blumhouse e (sotto)titolato in italiano Il terrore del silenzio. Terrore e silenzio, due concetti che racchiudono lo stato d’animo della protagonista e la sua incomunicabilità, e che Flanagan rende per immagini, forte della sua dirompente carica espressiva.
Come un allenatore di calcio, Flanagan non fa pretattica per distogliere l’attenzione del pubblico. Al contrario, dichiara subito la sua formazione ideale schierando un “tridente” di categoria: nella casa di Maddie, disposti sulla mensola di una cassettiera, vengono ripresi Mr. Mercedes, Revival e The Dome. Tutti libri pubblicati da King tra il 2009 e il 2015, per dichiarare subito il literary taste della protagonista e, ancora più esplicitamente, l’attaccamento alla materia kinghiana – enigmatica e nebulosa – dello stesso Flanagan. Un check point di inquadrature mirate e ben assestate che scorrono velocemente sotto gli occhi dello spettatore, quasi a voler suggerire che nulla è lasciato al caso e che citare è un’arte raffinata, uno stuzzicante gioco di prestigio destinato a diventare easter egg per gli amanti della prima ora e i fan più esigenti.
Ed è qui che il ponderabile diventa imponderabile, l’intuizione nobile, l’idea travalica il soggetto del singolo film e guarda al futuro, allargando il campo di visione con una programmazione orizzontale ragionata e lungimirante. Flanagan passa dall’ossequiare i testi di King a introdurne di nuovi, di falsi, di derivati. Come? Consegnando nelle mani di Sarah, amica di Maddie, un libro misterioso dal titolo sinistro: Midnight Mass. Dapprima svela il fronte della copertina e poi la quarta del libro, in cui compare la biografia della scrittrice. In calce al trafiletto il commento: «Il suo primo libro, Midnight Mass, è stato acclamato della critica internazionale.»
Elogio che Flanagan riceverà da un autore, il più “importante”, che di libri ne ha scritti tanti, riscuotendo successo in ogni angolo del pianeta.
Stephen King, ovviamente1. Ancora una volta il destino.
E se è vero che «in ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico», come suggerisce Claire Ibbetson in La migliore offerta di Giuseppe Tornatore (2013), l’opera “inventata” da Flanagan per Maddie sfocia liquidamente nella pseudobiblia, ovvero un libro immaginario trattato come vero. Midnight Mass entra così nella finzione cinematografia di Hush, in prima istanza nella diegesi del racconto stesso e, successivamente, in un universo narrativo più esteso ed allargato: il Mike Flanagan Universe, ancora da esplorare, ipotizzare, plasmare. Un artificio brillante che acquisirà ulteriore valore nel 2017, quando il regista si trova di fronte alla sfida più difficile della sua carriera, l’adattamento per il grande schermo di un testo kinghiano complicatissimo, pensato esplicitamente per la lettura e in teoria inadatto alla pellicola: Il gioco di Gerald.
È il film intimista e virtuoso che chiude il cerchio aperto da Hush, uno showdown dirompente che sancisce la fine dei “giochi”. E Flanagan, da buon illusionista della macchina da presa, ama giocare. Per mitigare la propria sete di autorialità, il cineasta vuole rimettere in scena il rompicapo dei libri di Hush, ma non può citare i romanzi di King in un film basato su un romanzo di King stesso. Ecco, dunque, l’intuizione: perché non scherzare con il pubblico? Perché non citare un libro “non vero”, come quello scritto dalla Maddie Young in Il terrore del silenzio?
Detto fatto. Da un’altra mensola, questa volta nella camera di Jessie e Gerald, spunta Midnight Mass. Il libro inventato in Hush – che nel 2021 diventerà una serie Netflix (!) – riappare come un’ombra limacciosa e tempestiva, a ricordare che il passato è sempre in agguato, pronto a scuotere e tormentare. Qui il gioco di dettagli si conclude e lascia il posto al romanzo, alla sua nuda raffigurazione.
Flanagan deve maneggiare oltre 370 pagine dense, terse, fittissime, in cui King alterna con padronanza la narrativa più immediata, il thriller, con il dramma introspettivo intriso di metafore. La storia è quella di Jessie e Gerald Burlingame2, coniugi che si concedono un week end nella loro casa al lago alla ricerca di una serenità smarrita da tempo. Gerald, con il consenso di Jessie, decide di lanciarsi in un gioco erotico e ammanetta la moglie al letto. Sull’orlo di un improvviso ripensamento, la donna mostra indecisione e mentre sta per sottrarsi, il marito viene colto da un arresto cardiaco, batte la testa e si accascia a terra. Il pavimento si colora di rosso: è il sangue di Gerald, la morte sopraggiunge. Game over. Jessie è sotto shock, resta imprigionata a letto senza possibilità di ricevere soccorso. Non ha via d’uscita, l’unico modo per sopravvivere è liberarsi dalle manette. Ma prima deve affrontare un lungo percorso di autoanalisi in cui riaffiorano i traumi infantili, la molestia subita dal padre, le infinite cavillature del matrimonio con Gerald, un cane randagio affamato e un mostruoso uomo affetto da acromegalia.
Si capisce perché si tratti di un testo apparentemente infilmabile, talmente distante dal linguaggio cinematografico da prestarsi alla pura sperimentazione, alla creazione più disinvolta e, quindi, all’originalità. Perché se è vero che la pagina kinghiana «è un’immagine autosufficiente»3, il cinema di Flanagan è un mosaico di immagini sovrapposte – una griffe, un’impronta – che vive all’interno dei suoi film.
Lontano dalle paludi della semplificazione, il regista cattura ogni riga del racconto e la assimila con rispettosa devozione, apportando le giuste variazioni per comporre il suo quadro filmico. Con un lavoro di distillazione concettuale, Flanagan preleva le assordanti voci che opprimevano Jessie nel libro di King e le trasforma in un concerto intonato di proiezioni mentali. E così, nel suo viaggio di riappropriazione identitaria, Jessie si trova ad affrontare un’altra sé, più diretta e spietata, e una versione insolita di Gerald, in una resa dei conti che si rivela una dolorosa presa di coscienza della verità. Flanagan adotta il minimalismo ambientale di un’unica location: lavora su tempo e spazio, crea una stanza di presenze ingombranti e cala la protagonista – interpretata da un’ispirata Carla Gugino – al centro di un kammerspielfilm d’atmosfera, ruvido, spaventoso e impressionista. Un dramma da camera potente e di suspense che si tramuta lentamente in un campo minato di simbolismi e suggestioni: la sceneggiatura, firmata dal regista insieme al fedelissimo Jeff Howard, assume i contorni di una seduta di autoanalisi, condivisa e lucidissima, in cui Flanagan annega le paure di Jessie fino a farle galleggiare in superficie, corpi esanimi che abbracciano la morte e si palesano davanti ai suoi occhi. Come I piallatori di parquet di Gustave Caillebotte, i fantasmi di Jessie strisciano sul pavimento attorno al letto e la intrappolano nel terrore dei suoi pensieri, subdoli e spaventosi veicoli di allucinazione che riaccendono dolori mai sopiti e complicati da estirpare.
In un tourbillon emotivo che rende giustizia alla fonte, Flanagan non riduce tutto alla cornice analogica del teatro filmato, ma alza l’asticella con sequenze di assoluta bellezza, dall’elevato indice estetico e figurativo.
In particolare, la scena in flashback dell’eclissi solare rosso fuoco che fissa il momento clou del lungometraggio. Flanagan usa il colore, un rosso vivido e abbagliante, come elemento cromatico per risolvere l’arco psicologico di Jessie. Quel rosso che diventa protagonista, come nelle opere di Antonioni o Argento. Di nuovo le immagini si sovrappongono e diventano allegorie, acquiscono il disvelamento e il senso di claustrofobia: il progressivo oscuramento del sole trova il proprio, raccapricciante contraltare nell’atto di brutalizzazione di un padre nei confronti della figlia. Un flusso agghiacciante di fotogrammi provenienti dal passato che Flanagan alterna con un montaggio essenziale e una mise en scène cruda e chiarificatrice.
Il passato può essere cancellato solo con un gesto di autolesionismo. E per compiere questo passaggio, teorico ma fondamentale ai fini dell’emancipazione di Jessie, Flanagan si avvale di tutta la sua destrezza dimostrando di essere un autore con la A maiuscola: entra nel perimetro dello splatter e sceglie di mostrare in primo piano, a favore di camera, il momento esatto in cui Jessie si libera dalle manette tagliandosi il polso con un frammento di vetro. Un climax violentissimo che non rimane inchiodato al sensazionalismo di circostanza, ma rappresenta l’evasione di Jessie dalla prigione del dolore, l’ultima tappa verso l’agognata liberazione. Scarnificandosi letteralmente il male di dosso per riabbracciare la propria vita.
Le tematiche di King confluiscono con naturalezza nel cinema di Flanagan, in una sorta di legame circolare tra storie, personaggi e incubi. Nel finale, in voice over, Jessie racconta le sue confessioni in una lettera indirizzata alla ragazza che fu, scritta con la stessa mano flagellata e prossima alla purificazione. E qui l’inchiostro su carta non può che tingersi simbolicamente di rosso, come se fosse King a scrivere. Perché il rosso è il colore del fato, quello che anima il Midnight (Mass) del libro di Maddie letto da Jessie, del sangue fluido di Gerald, dell’ipnotica eclissi di sole, del male impellente, della sofferenza, dell’orrore invisibile, della follia. Come il fil rouge spirituale (che si completerà poi con Doctor Sleep [2019]) che unisce il re del brivido al suo pittore, lo scrittore al regista. O più semplicemente King a Flanagan, nel rosso segno del destino.
Note
1 All’uscita del film, nel 2016, l’autore di Portland lodò il lavoro del regista scrivendo su Twitter: «Quanto è bello Hush? Lassù con Halloween [1978, ndr] e, ancora di più, Wait Until Dark [Gli occhi della notte, 1968, ndr]».
2 King gioca con le parole e da Gerald Burlingame viene estratto Gerald’s Game, titolo originale del libro.
3 Vedi Calzoni Giacomo, Stephen King. Dal libro allo schermo, Minimum Fax, Roma 2020.
CAST & CREDITS
Regia: Mike Flanagan; soggetto: Stephen King dall’omonimo romanzo; sceneggiatura: Mike Flanagan, Jeff Howard; fotografia: Michael Fimognari; scenografia: Patrick M. Sullivan Jr.; costumi: Lynette Meyer; montaggio: Mike Flanagan; musiche: The Newton Brothers; interpreti: Carla Gugino (Jessie), Bruce Greenwood (Gerald), Chiara Aurelia (Jessie da giovane), Carel Struycken (Raymond Andrew Joubert), Henry Thomas (Tom), Kate Siegel (Sally), Adalyn Jones (Maddie), Bryce Harper (James), Guendalina McCann (Giudice), Jamie Flanagan (impiegato del tribunale); produzione: Intrepid Pictures; origine: USA, 2017; durata: 103 minuti; home video: inedito; piattaforma: Netflix.