L’India e l’Occidente
Mircea Eliade
Gli echi delle polemiche e delle discussioni su Oriente e Occidente sono appena stati ridotti al silenzio. Si parlava di un’influenza fatale dello spirito asiatico – in particolare di India e Cina – sullo spirito occidentale. S’intentava, addirittura, una difesa dell’Occidente (1).
Il problema è mal posto. Un’influenza “diretta” dell’Asia sulla massa intellettuale europea è infatti impossibile. Quel che circola nei salotti e nei giornali con insegne orientali è soltanto un gradevole miscuglio di origine teosofica. L’Asia è inaccessibile alla maggioranza degli intellettuali europei. Tutte le nostre interpretazioni delle religioni e delle filosofie orientali sono dubbie. Perfino i più consacrati indologi incappano talvolta in grossolani errori di comprensione. I casi recenti del professor Louis de la Vallée Poussin – che suddivide la storia del buddhismo secondo uno schema utilizzato per la Chiesa Romano-Cattolica – e del professor Arthur B. Keith, che ritiene il buddhismo primitivo una credenza e una pratica magica – quando in realtà è tutt’altro – sono piuttosto eloquenti.
L’orientalizzazione di una certa classe d’intellettuali europei non è che improvvisazione e adattamento. Perfino gli “Amici dell’Oriente” – di Parigi o di chissà dove – si nutrono di traduzioni ed estratti manipolati.
È difficile conoscere l’Asia. Essere influenzati dallo spirito asiatico puro è quasi impossibile, per un motivo molto semplice: lo spirito asiatico consiste in alcune esperienze fondamentali, non in dottrine. Queste ultime sono solo l’espressione condensata di lunghe pratiche spirituali, che pochissimi europei possono realizzare.
Parlare di un’India “barbara”, di un’Asia “socializzata”, di una Cina “primitiva” – vuol dire ripetere l’errore dei turisti frettolosi. Al contrario, non abbiamo forse motivi per ritenere l’India superiore all’Occidente? Ai tempi in cui l’Europa brancolava ancora nella semioscurità dei concetti, in India Panini scriveva una formidabile Grammatica, monumento geniale, forse la più alta produzione dello spirito umano (Stcherbatsky).
Dobbiamo capire, però, che vi sono differenze insormontabili, fondamentali e strutturali, tra India ed Europa. Certo, è rischioso generalizzare schematicamente i tratti dello spirito asiatico. Eccezioni, oscillamenti, salti e sterzate verso assi estranei – avvengono anche in India. Ma le dobbiamo osservare con molta attenzione, per non confonderle con le analoghe esperienze europee.
Valga come esempio il problema del materialismo filosofico indiano. Dai semplici e superficiali Nastika (i quali dicono “no” dinanzi a qualsiasi affermazione che non sia basata sui sensi) alla dialettica Samkhya e al buddhismo: quante differenze, quante sfumature, quanti retroscena! I materialisti indiani (Lokayata o Carvaka), presenti già dal periodo epico, hanno sempre costituito un’evidente minoranza. “Materialisti”, nel senso europeo della cultura, quasi non ce ne sono. Perfino coloro che negano un’anima avente un sostrato animico, come i buddhisti, accettano e praticano tutta una serie di dottrine ed esperienze che non sono materialiste (il problema è discusso nel mio studio Linee di orientamento nel materialismo asiatico, in cui sono raccolte e tradotte fonti indiane, persiane e cinesi) (2).
Esiste una spiritualità occidentale. Ma essa appartiene solo ai ceti dell’élite. Ed è solo una visione concettuale dell’Universo e dell’Uomo. Raramente gli europei sperimentano quotidianamente ciò che affermano per iscritto o nelle proprie conversazioni. Un’esperienza spirituale propriamente detta è rinvenibile solo tra i cosiddetti “mistici” europei: tutti quelli che praticano e predicano una “realizzazione”, una sperimentazione nel corpo – vale a dire nell’esistenza concreta e non nel gioco della mente – della “verità”, sono classificati come mistici.
L’Europa è caratterizzata da una doppia personalità: quella del pensatore e quella dell’uomo d’azione. Il primo scrive libri, tiene corsi universitari, è parte della cosiddetta “atmosfera culturale” della sua città o del suo Paese; l’altro è un comune mortale, con miserie e invidie ordinarie. Il professore di filosofia, quando seppellisce uno dei propri figli, dimentica di essere materialista o idealista; piange, si agita, va in chiesa – come qualsiasi individuo anonimo.
In India è tutt’altra cosa. Qui non c’è iato tra dottrina e vita. Questa osservazione è già stata fatta, ma è impressionante ed emozionante constatarla personalmente. La vita spirituale ricopre qui un ruolo di grande peso. E non è solo quel che si usa chiamare “vita contemplativa”; è anzi una fatica dura, arida e senza fine, che comprende pratiche fisiologiche, dialettica, meditazione e Yoga. Tutti i sistemi e le mistiche indiane – a eccezione dell’ortodossia Mimamsa e del materialismo (Carvaka) – contengono una parte di Yoga. Si può dire dunque che tutte le filosofie indiane contengono un elemento mistico fondamentale. Sennonché, sul significato del termine “mistico” in India dobbiamo essere molto prudenti. In Europa, misticismo vuol dire amore e conoscenza sperimentale di Dio. In India significa anche questo, ma include parimenti qualsiasi attività sovrarazionale. Esistono anche mistiche senza Dio, come il buddhismo.
Non so quale potrebbe essere lo scopo della vita per gli europei; di soluzioni ne sono state date, e in gran numero. In India, invece, predomina indubbiamente un unico fine: la liberazione. Siano essi monisti (come i vedantici) o dualisti (come il Samkhya), teisti (Yoga) o atei (buddhismo), tutti riconoscono di avere come fine della propria esistenza la liberazione spirituale dall’esistenza. Ciò può sembrare paradossale. In India è naturale, però, l’uso del male contro il male. La materia, il non io, è per i vedantici illusione; lo scopo è l’elevazione dell’anima e la sua fusione nel Brahman. Se è vero che su questo Brahman molto ci sarebbe da dire, tutti riconoscono che esso trascende l’esistenza fenomenica. La Materia (Natura, prakriti) è altrettanto reale dell’anima, nella concezione della filosofia Samkhya; scopo della vita è il distacco completo dell’anima dalla materia, tramite la conoscenza. Gli esempi possono essere moltiplicati.
La vita è sofferenza. Si capisce come questa verità non possa raggiungere una condivisione universale e incontestata, tranne che in un Paese in cui la problematica dell’anima e le sue leggi sono predominanti. Pessimismo? Non credo possano chiamarsi pessimiste quelle dottrine che affermano e predicano i mezzi di salvezza, ammettendo una “felicità” finale. Su questa “felicità” suprema si possono inoltre fare molte osservazioni interessanti, proprio per i suoi lati negativi. L’operazione è tuttavia rischiosa, perché vi s’incontra quell’enigmatico istinto dell’India che risponde al nome di Nirvana. È a questo concetto che si deve la maggior parte delle pseudo-interpretazioni e dei travisamenti europei.
Il primato dello spirituale è reale e universale. Lo spirituale si sperimenta, non si discute. In un certo senso, il problema dell’anima è intimo, personale. Qui l’individuo si salva con i propri mezzi e sforzi. Il maestro gli mostra la via, attraverso fatti concreti e la rivelazione delle verità nascoste. Ma la liberazione è generata da sforzi continui, rigorosamente disciplinati, che durano decine d’anni.
A un europeo istruito questa “liberazione” potrà sembrare una chimera. L’India è però ossessionata da una libertà dell’anima nell’assoluto, un’auto-contemplazione che trascende spazio e tempo. Del resto, in Europa come in Asia, è quando la coscienza ravvisa l’illusione amara del tempo che la sete di assoluto diventa violenta.
Tutto per l’anima. Da qui un disprezzo per quell’attività che non è subordinata alla sua liberazione. Tutti conoscono i testi classici della Bhagavad-gita. Per gli indiani, l’anima è d’altronde al di sopra delle possibilità d’agire. La mente (buddhi) agisce per suo mezzo. Dice Shankaracarya: «Per i folli l’anima sembra attiva, mentre in realtà solo i sensi sono attivi; esattamente come la luna sembra muoversi, mentre sono le nuvole a passare» (Atma Buddha Prakasika, I, 19). Davies paragona la concezione dell’anima in India (riferendosi al Samkhya) a quella del monarca orientale, invisibile e tuttavia servito da tutti.
La vita è offerta all’anima: non certo, però, per parlarne o scriverne.
Tale è l’India; e non abbiamo motivi per collocarla al di sotto o al di sopra dell’Europa, bensì accanto a essa. Altri gli istinti, altre le nostalgie, altro il ruolo delle masse. Per questo reputo gratuiti l’entusiasmo e la propaganda di una “vita spirituale” indiana. Pochissimi europei avrebbero il coraggio di sperimentarla nella sua purezza.
Per gli assetati di spiritualità, anche in Europa si trovano parecchie sorgenti.
Calcutta, 82 Ripon Street,
6 febbraio 1929
- Riferimento al libro di Henri Massis Défense de l’Occident, dato alle stampe due anni prima, recensito da Eliade su Cuvântul del 2 ottobre 1927 (N. d. T.).
- Lo studio menzionato da Eliade non venne mai dato alle stampe (N. d. T.).