Editoriale: il secolo breve della Romania
Andrea ScarabelliQuesto fascicolo di «Antarès» non è solo testimonianza della fecondità di un contesto culturale assai poco studiato in Italia – e, spesso e volentieri, in maniera parziale e scarsamente scientifica – come quello romeno tra le due guerre, ma anche e soprattutto un esercizio che, muovendo da un contesto particolare, si spinge verso una più generale riflessione sulla nostra attualità, nel suo rapporto con il proprio passato.
Molti sono infatti i modi di affrontare la storia: il più diffuso ordina in maniera lineare passato, presente e futuro, utilizzando come chiave di lettura i valori del presente. Le categorie con cui viene analizzato il nostro tempo sono, per così dire, “proiettate” anche sulle epoche passate, le quali vengono così riscritte in base alla sensibilità degli studiosi di turno. Eppure, chi misura – tutta – la storia in base ai criteri dell’utilitarismo e del materialismo non s’interfaccia realmente con il passato ma sempre solo con se stesso. D’altra parte, è noto come una visione del mondo non possa essere fatta oggetto di studio senza essere snaturata: il confronto con la storia esige cautela e accortezza, nonché il rispetto del suo eros peculiare. Passato e presente non devono essere subordinati a un’idea unica, quale che sia – tra epoche storiche differenti si stagliano abissi, talvolta incolmabili, i quali, da un certo punto di vista, impediscono una loro comprensione che voglia dirsi totale.
Studiare quella generazione romena che annoverò tra le proprie fila intellettuali come Emil Cioran, Mircea Eliade, Constantin Noica e Vintilă Horia equivale a fronteggiare uno degli scarti di cui sopra. I nomi menzionati sono infatti indici di una rivolta contro le categorie ottocentesche, il cui naufragio fu palese nei primi decenni di un secolo bifronte, dilaniato tra Belle Époques, esposizioni universali e le carneficine di due conflitti mondiali.
Agli inizi del Ventesimo secolo l’Europa fu percorsa da un brivido di novità. Nuove generazioni nate a seguito del crollo del positivismo e dello scientismo del secolo precedente presentarono il conto a una modernità in procinto di crollare. Si trattò di una vera e propria “contestazione”, che diede il colpo di grazia al mondo razionalista, borghese, ancora discepolo del contratto sociale e posto sotto l’egida di quella tecnica che, dopo aver sedotto l’Europa del XIX secolo, di lì a poco l’avrebbe messa a ferro e fuoco.
Fu quella generazione ribelle e anticonformista che diede i natali ai Prezzolini e ai Papini, ai Longanesi e alle riviste vociane, ai motti incendiari dei futuristi – nel loro tentativo di dotare le macchine di una nuova mistica –, ai Burzio, ai Michelstaedter, agli Jünger e agli Spengler, ai Drieu e ai Céline. Antimoderni? Forse, non fosse altro per il fatto che è la loro stessa esistenza a testimoniare la frattura incolmabile tra il XIX e il XX secolo. È del tutto naturale che i sostenitori di una visione progressista della storia non riconoscano a queste generazioni diritto di cittadinanza alcuna nella cultura “alta”. Ma occorre fare i conti con loro, per capire meglio quelle stesse antinomie che sono marchio indelebile della nostra epoca.
Anche la Romania conobbe una “giovane” generazione di “inattuali”, il cui maestro fu quel Socrate (anti)moderno conosciuto con il nome di Nae Ionescu, il quale si rifiutò di mettere per iscritto il proprio pensiero, ritenendo che la vera tradizione filosofica fosse quella che affida all’oralità i propri insegnamenti. Il suo magistero diede i natali a una generazione che agli ultimi strascichi dell’Ottocento oppose nuovi valori, abbracciando la necessità di porsi al di là della modernità. È anche in quest’ottica che possiamo analizzare le invettive di Emil Cioran contro il mito del progresso, contro quella Storia – con la dovuta maiuscola – propria all’ottimismo idealistico del XIX secolo, ma anche contro l’elemento bizantino-ortodosso, ch’egli considerava come una zavorra della tradizione spirituale romena; e che altro rappresenta la riscoperta della dimensione del sacro da parte di Mircea Eliade se non una reazione alla miopia di quell’Illuminismo che viveva nell’illusione – altrettanto religiosa e fideistica – di averla relegata tra i rottami di un’epoca buia? Cos’altro rappresentano gli studi di Ioan Petru Culianu se non il tentativo di ridimensionare l’arroganza della modernità, che attraverso la scienza e la tecnica squalifica come superstiziosa ogni forma di pratica non materialista, ricercando dimensioni altre da essa?
Questo il valore della loro testimonianza nel contesto delle attività della rivista «Antarès». La riflessione sull’antimodernismo proposta da questi personaggi – la quale, priva di qualsivoglia pretesa di esaustività, non è che un modesto esercizio propedeutico a un loro approfondimento in questa direzione – è stimolata anche da due recenti pubblicazioni per i tipi di Bietti, all’interno della collana “l’Archeometro”: il saggio di Eliade Salazar e la rivoluzione in Portogallo e il carteggio di Cioran L’agonia dell’Occidente (un estratto del quale è pubblicato in questo fascicolo).
La realizzazione di questo numero è stata resa possibile da feconde collaborazioni, testimonianza di come vi siano generazioni di ricercatori intenzionati a sviluppare in maniera scientifica e accurata argomenti trattati superficialmente dai più, specialmente in un Paese nel quale le attività degli studiosi sono sovente limitate da un certo basso giornalismo. Un ringraziamento particolare va qui a Horia Corneliu Cicortaş, senza l’aiuto del quale questo numero non avrebbe mai visto la luce così com’è.
In conclusione, l’eredità e il retaggio della “giovane generazione”, cui è dedicato questo contributo bibliografico, attestano non solo la necessità di fare i conti con la realtà romena, ma ci spingono anche nella direzione di un nuovo confronto con quello che è stato definito il “secolo breve”. Il secolo breve dell’Europa, della Romania, dell’Occidente, i cui ultimi bagliori rischiarano ancora le nebbie del nuovo millennio.