Matsumoto-Miyazaki. Di padri, di Europa, di donne

Enrico Petrucci
Gli ultimi Samurai – Anime e manga, fiabe dall’era atomica n. 17/2021
Matsumoto-Miyazaki. Di padri, di Europa, di donne

Leiji Matsumoto, classe 1938; Hayao Miyazaki, classe 1941. Sono tra gli autori più noti in Occidente e tra i pochi che hanno travalicato il pubblico degli appassionati del fumetto e dell’animazione nipponica, trovando riscontro nel pubblico generalista europeo e americano. Un successo dovuto, oltre che a evidenti capacità artistiche, all’abilità di entrambi d’integrare e ibridare nella componente tradizionale nipponica una forte componente europea. Per Matsumoto questo aspetto è un’ispirazione estetica, cinematografica e tradizionale: donne e architetture europee, il cinema di Julien Duvivier e il western, suggestioni norrene e un immaginario diesel-punk tra anni Trenta e Quaranta. Per Miyazaki, invece, la componente Europa ha solide fondamenta culturali. Da un lato, l’approfondita passione per autori come Antoine de Saint-Exupéry, André Malraux, Thomas Mann, Paul Valéry e Jules Verne, costantemente citati e celebrati. Dall’altro, una minuziosa ossessione per la storia dell’aviazione, che lo porterà ad omaggiare l’Italia più volte. Semplificando, scrittori francesi e aerei italiani. La casa di produzione fondata con il collega Takahata (scomparso nel 2018) e il produttore Suzuki prende il nome Ghibli, nel duplice significato del vento del deserto, come nei voli dell’Aeropostalé di Saint-Exupéry, e soprattutto del bimotore Caproni Bergamasca Ca.309, vero mulo dell’aria nei primi giorni della guerra in Africa settentrionale.

Un’Europa che inevitabilmente sentirà la chiamata di questi autori. Per caso, all’inizio degli anni Ottanta, quando la Rai e i fratelli Marco e Gina Pagot proporranno alla giapponese TMS una serie ispirata a Sherlock Holmes, all’inizio affidata all’estro di Miyazaki, autore affermato ma finito in produzioni di seconda fila dopo aver mancato il successo commerciale con la serie Conan e il film dedicato a Lupin III, Il Castello di Cagliostro. Poi, per nostalgia, nei primi anni 2000, quando il duo francese elettro-dance Daft Punk affiderà a Matsumoto una serie di videoclip per il loro terzo album, e che diventerà un film dal titolo Interstella 5555. Poi con il Leone d’Oro alla carriera di Miyazaki, e i viaggi e omaggi di Matsumoto all’Italia, compreso un disegno per le vittime del terremoto di Amatrice o quello di ringraziamento alla città di Torino, dove rimase ricoverato a fine 2019.

Accanto alle ispirazioni europee, ad accomunarli c’è la prima infanzia nel Giappone della seconda guerra mondiale, con i rispettivi padri che ebbero parte attiva nello sforzo bellico nipponico. Quello di Matsumoto fu pilota militare nella Francia negli anni Trenta. Il padre e lo zio di Miyazaki, invece, erano i titolari di una piccola ditta che forniva componenti aeronautici, destinati tra gli altri ai Mitsubishi A6M, i caccia Zero, simbolo della fugace superiorità nipponica all’inizio del conflitto. In Matsumoto la figura paterna viene non solo omaggiata nel capitano Okita di Corazzata spaziale Yamato, uno dei suoi classici, ma si rivela determinante come memoria filogenetica ancestrale, in cui le esperienze degli antenati prima di noi, in qualche modo, sopravvivono e si trasmettono. Matsumoto arriva ad affermare che quell’immaginario di architetture e donne europee fosse già stato trasmesso nel suo Dna dai viaggi paterni. Memoria filogenetica che diviene determinante anche nel film L’Arcadia della mia giovinezza, in cui la figura di Harlock e la sua amicizia con il sodale Tochiro si protraggono tra secoli e generazioni.

Per il giovane Miyazaki, invece, avere un padre che ha tratto diretto profitto dallo sforzo bellico porta ad un inevitabile conflitto(1). La riconciliazione sarà postuma, solo con il film Si alza il vento, in cui reinventa la biografia proprio del progettista del caccia Zero (e di cui sarà co-protagonista onirico un grande italiano dimenticato, il progettista Gianni Caproni). Un padre che, come scoprirà da adulto, era pur consapevole dei limiti della sua fortuna nata dagli armamenti, tanto da regalare a un bimbo sfollato una stecca di cioccolato, «un’enormità per l’epoca». Un lusso di cui aveva privato persino i suoi figli. Un inevitabile contrasto tra le generazioni che fa capolino nelle opere di Miyazaki, come in Conan ragazzo del futuro.

Seguendo la distinzione proposta da Andrea Fontana in La bomba e l’onda: storia dell’animazione giapponese da Hiroshima a Fukushima (Edizioni Bietti, Milano 2013), i due non erano quindi solo figli di quella generazione che aveva portato il Giappone in guerra, ma anche di due esponenti di primo piano del Giappone imperiale.

In comune hanno anche le donne disegnate. Entrambi sono capaci di portare personaggi femminili in ruoli di primo piano, in un contesto culturale – quello degli anni Settanta-Ottanta – in cui le produzioni televisive occidentali non riescono ad andare oltre le Charlie’s Angels e il tenente Uhura del primo Star Trek(2). Le donne dei due autori, invece, possono permettersi di salvare qualunque situazione, affascinare, tenere a bada pirati di ogni sorta o essere esse stesse pirati di prim’ordine. Ma sanno anche svenire, secondo il più classico dei cliché. Proprio come in uno degli episodi di Sherlock Holmes curati da Miyazaki, dove Mrs. Hudson salva un pilota dal suo apparecchio in fiamme, di fronte alla manifesta incapacità maschile del duo Holmes-Watson. Per poi svenire, appunto, mentre il duo di investigatori si chiede come sia meglio rianimarla, eroina d’azione e “fanciulla d’altri tempi” senza contraddizioni. O come Maetel, la protagonista di Galaxy Express 999, opera cardine di Matsumoto, dove l’eterea figura è una sorta di Virgilio che accompagna il protagonista in una lunga carrellata di pianeti che altro non sono se non quadri distopici. Portando, infine, il giovane Tetsuro alla consapevolezza dei limiti dell’eternità promessa dalle macchine.

Eppure, se la forza e il mistero femminile sono determinanti in entrambi gli immaginari, per i due maestri l’idea di emancipazione occidentale contemporanea sembra rimanere remota. Durante una conferenza stampa tenuta a Venezia, dopo una prolissa domanda d’apertura sui ruoli femminili e la loro forza, Miyazaki si limitò inizialmente a dire: «Perché mi piacciono le donne». Di fronte all’imbarazzo del pubblico e del presidente Müller, sorridendo, completò la risposta divagando a modo suo. Forse un simile dubbio e imbarazzo colsero anche il traduttore di Matsumoto durante una conferenza al Lucca Comics&Games del 2018. Di fronte alla domanda sui ruoli femminili, il maestro divagò sul suo interesse e la sua abilità di ritrarre bellezze europee influenzate da Marianne Hold, protagonista di quel Marianne de ma Jeunesse di Duvivier che ispirò (senza voler dimenticare l’elemento filogenetico) titolo, location e atmosfere del suo L’Arcadia della mia giovinezza. Dopo aver fedelmente riportato la visione di Matsumoto, il traduttore precisò che, mentre la domanda verteva sul carattere, il maestro aveva preferito parlare dell’estetica.

Ad accomunare i due, come già detto, è soprattutto l’attenzione verso l’Europa che caratterizza buona parte della loro produzione, a differenza di altri autori, per cui l’“esotismo europeo” rimane un aspetto da esplorare una tantum. Ma le similitudini si fermano qui. Stile di disegno, visioni e carattere dei personaggi sono agli antipodi.

Tratto elegante e longilineo per Matsumoto, dolce e rotondo per Miyazaki. Nella scala cromatica di Matsumoto dominano i toni freddi del buio dello spazio siderale, mentre l’altro preferisce i colori saturi dei suoi paesaggi e dei suoi cieli. Un setting quasi costante nei mondi di Matsumoto, che divengono un solo continuum contrapposto alla totale imprevedibilità delle visioni di Miyazaki, intrecciati tra fantastico e reale, Giappone ed Europa. Ma, soprattutto, sono completamente antitetici nella costruzione dei loro personaggi. Per Matsumoto si tratta di figure essenziali, prive (con l’esclusione del protagonista di Galaxy Express 999) di un percorso di crescita o maturazione. Si riducono a “tipi”. D’altronde, come spiega l’autore, storie e ambientazioni sono diverse e si contaminano fra loro, arrivando all’estremo: «Tutte le storie sono parte di un unico pezzo e non voglio dare fine a nessuna di esse» (Press Café @ Lucca Comics and Games, 1° novembre 2018). Le storie di Matsumoto si intrecciano tra loro, si scoprono sequel e prequel allo stesso tempo, rimanendo fatalmente incompiute. L’autore non può mettere la parola fine ai personaggi, che rimangono icone essenziali ormai dotate di vita propria. Tipi, appunto.

Per Miyazaki, invece, il percorso individuale dei protagonisti, siano essi giovani o adulti, la fa da padrone. In quelli per bambini e ragazzi il percorso è sempre evidente. Ma persino Porco rosso, un film apparentemente leggero, nasconde sotto i colori saturi e il senso di meraviglia la storia di Marco Pagot, un reduce sfigurato(3) incapace di superare i traumi del conflitto, ridotto a vivere evitando di confrontarsi e reintegrarsi con la società (e l’amore). Vive con leggerezza sul palcoscenico di un conflitto non violento tra pirati dell’aria e cacciatori di taglie, tutti egualmente membri di quella generazione perduta che si ritrova ogni sera nello stesso locale. Analogamente, Nausicaä, pur essendo un’eroina predestinata con tanto di profezie, affronta un percorso di consapevolezza pressoché unico nel genere post-atomico.

Una differenza assoluta nell’interpretare il ruolo di creatore di storie, che nel nostro “Paese dei campanili” aggiunge un ulteriore solco a spezzare i due immaginari. Da un lato il Capitan Harlock di Matsumoto che diventa un’“icona fascista”(4), mentre Porco Rosso un santino antifascista dei 25 aprile da nerd(5).

Per il pirata spaziale, oltre all’immaginario da saga nordica(6) e il suo scrollarsi di dosso la politica imbelle, anche chi ne critica l’appropriazione nel pantheon della destra contemporanea arriva a riconoscerne la “figura evoliana dell’uomo in piedi tra le rovine.” Un atteggiamento interiore che appare manifesto in qualunque opera di Matsumoto, dove il collasso della civiltà, sia esso endogeno o esogeno, è sempre il punto di partenza. Le rovine, nei suoi mondi, sono sempre evidenti. Per estensione letterale, si potrebbe applicare a qualunque ambientazione post-atomica. Da lì alle conclusioni dell’allora parlamentare di Democrazia Proletaria Silverio Corvisieri, che sulle pagine di «Repubblica» tuonava contro Goldrake e la retorica del «grande combattente», il passo è breve.

Le rovine (e chi si tiene in piedi tra esse) non mancano nemmeno nei mondi di Miyazaki, fieramente marxista – e assoluto padrone del genere post-atomico in capisaldi come Conan, Nausicaä e il videoclip On your mark –, che deve il suo sodalizio con il collega Isao Takahata proprio all’attività sindacale. Le rovine di una civiltà caduta nel consumismo, l’incipit de La città incantata esemplificato dai genitori della protagonista che si riducono a maiali in un all you can eat, «tanto possiamo pagare con le carte di credito». Le rovine dell’inevitabile conflitto tra progresso e tradizione, modernità e ambiente, come ne La principessa fantasma. I personaggi di Miyazaki si confrontano con quelle rovine, le devono comprendere, non possono semplicemente ergersi sopra di esse. Insomma, hanno la consapevolezza di essere anche loro figli di quel mondo che ha generato la distruzione. Non agisce, in loro, l’immanenza di un archetipo che può esistere sopra e al di fuori di essi. In questo contesto, persino la sua iconica battuta «Meglio porco che fascista», diventata motto del 25 aprile contemporaneo, appare stridente con il contesto dell’opera. Nel fumetto di poche pagine che ispira il film, a corredo di una vignetta in cui disegna i caccia italiani che inseguono Porco Rosso, fa notare che quel simbolo, l’insegna col fascio littorio della Regia Aeronautica, è qualcosa che non vorrebbe mai disegnare. Ma poi nel film, quando si omaggia l’uomo, Arturo Ferrarin, e il suo Macchi 39, uniche entità reali e realistiche, non può esimersi dal disegnare il velivolo correttamente, con il “deprecato simbolo” bene in vista.

Come fa notare Gualtiero Cannarsi, adattatore delle opere dello Studio Ghibli spesso giustamente criticato per i suoi manierismi (Netflix nel 2019 ritirò il suo adattamento della serie Neon Genesis Evangelion per le proteste dei fan), il protagonista in quel momento non sta rinnegando soltanto il fascismo, ma la stessa possibilità di reintrodursi nella società, e quindi necessariamente l’amore(7).

Una battuta che si mangia il film, nonostante abbia avuto il merito di sdoganare al grande pubblico italiano – soprattutto a quella fetta più radical-chic padrona di gran parte dell’apparato industriale-culturale – il potenziale culturale dei cosiddetti “cartoni giapponesi”, rimasto in sordina per più di vent’anni forse proprio per colpa dell’anatema di Sivieri e dei suoi epigoni impegnati, oltre che per una serie di pregiudizi verso il Giappone. D’altronde, la frase oscura ben altre e profonde considerazioni di Miyazaki, come: «Preferiresti un mondo senza piramidi?», pronunciata da quel Gianni Caproni che è mentore immaginario del creatore dello zero. Oppure: «La mia vita è sostenuta dalla morte dei miei dieci fratelli», pronunciata da Nausicaä quasi al termine del suo viaggio per darsi forza.

Un “dualismo politico” tra i due autori più immaginato dal pubblico che reale e, al tempo stesso, un’ulteriore dimostrazione di come la loro ispirazione europea non sia rimasta un semplice esotismo, ma abbia saputo far risuonare anche le corde di un pubblico distante.

Note

  1. Cfr. Mario Serenellini, Hayao Miyazaki. La mia favola continua, in «La Repubblica», 2 febbraio 2014.
  2. In Italia aveva fatto capolino nel 1977 la Petra Chérie del fumettista Attilio Micheluzzi, anche pilota da caccia nella grande guerra, non dissimile da certe suggestioni di Matsumoto e Miyazaki. Si tratta comunque di personaggi di nicchia che non raggiunsero il grande pubblico.
  3. Nel film è detta “maledizione”, ma per gli appassionati di aviazione e cinema di guerra appare come implicito riferimento ai volti dei piloti sfigurati dalle fiamme, come il pilota Evans de I lunghi giorni delle aquile (1969), interpretato da un vero reduce della battaglia d’Inghilterra, Bill Foxley.
  4. Leonardo Bianchi, Come Capitan Harlock è diventato un’icona fascista, in «Vice», 18 aprile 2019.
  5. Come mostrato ad esempio nei siti Orgoglio nerd e Niente da dire.
  6. Carlomanno Adinolfi, Il Bushido del papà di Harlock, in «Il Primato Nazionale», dicembre 2018.
  7. Si veda il post sul forum www.studioghibli.org del 19 novembre 2010, h. 16:19.

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