Elegante istigatore al voyeurismo, Ozon gioca con l’ossessione scopica dei suoi personaggi e dei suoi spettatori, fin dal titolo: chi non vorrebbe guardare la giovane e bella protagonista? Lo sguardo dell’altro è ciò che tenta di definire Isabelle, mentre lei si presenta come enigma sfuggente. Il film si apre sull’atto (più volte reiterato) di spiare: vediamo “Isa” tramite la soggettiva stilistica del fratellino Victor (spettatore silente che tenta di dare un senso agli altri membri della famiglia, in modo meno cruento del suo omonimo nel corto del 1993), munito di binocolo per osservare la ragazza, nuda e scintillante di acqua salata come, appunto, nella fantasia erotica di un pre-adolescente. L’inquadratura si apre alla complicità maliziosa di una semi-soggettiva: anche noi guardiamo Isabelle, siamo voyeur di una Venere lolitesca, data alla vita tramite la spiaggia (tòpos ozoniano qui doppiamente simbolico di nascita: Isa non solo emerge dalle acque, ma su quella stessa sabbia perde la verginità). Nonostante l’accomodante incipit, non è allo spettatore che Ozon offre la sua solidarietà, concessa a Isa soltanto: gli sguardi altrui sono, viceversa, costantemente frustrati nelle aspettative, costretti a rielaborare stereotipi, a scontrarsi con il pregiudizio e con la necessità di ricondurre lo sconosciuto al familiare, di fronte al mistero della protagonista, che gioca a prendere la forma di quegli sguardi puntati su di lei. Mentre si prepara alla sua prima volta, l’emozione è quella della performance, non del sentimento, il trucco e parrucco allo specchio sono quelli di un’interprete che si prepara a calarsi nel personaggio.
La tensione tutta ozoniana fra persona e personaggio è l’anima del film, la messinscena che inesorabilmente (come già in Angel. La vita, il romanzo [2007] o in Nella casa [2011]) rende vani i confini tra racconto e vita. Non sapendo ancora cosa è, Isa decide di essere cosa gli altri vedono; ma d’altronde, come commenta il giovane amante tedesco, non l’ha «mai vista, una come lei». Poco più tardi, spente le 17 candeline, è la voce di Françoise Hardy, le cui canzoni scandiscono il racconto in quattro stagioni, a sottolineare in L’amour d’un garçon che «Non sono più la ragazzina che hai conosciuto».
L’ellissi che dal prologo conduce all’autunno è un vuoto allettante: ritroviamo Isa, con il “nome d’arte” Léa, liceale di mattina e prostituta di lusso il tardo pomeriggio. Lo fa con logica imperscrutabile, con cocciutaggine infantile, come la penitenza di un gioco “verità o obbligo” (come quello dei piccoli protagonisti del corto Action Verité: la durata arbitraria degli obblighi, la forzata maturità dell’erotismo). Anche il cambio d’abiti che ne segnala la “trasformazione” ha i tratti goffi di chi stia scimmiottando uno stereotipo: dai maglioni sformati alla camicetta di seta rubata dall’armadio di mamma, il rossetto rosso e i tacchi alti. Ora sono gli sguardi dei clienti a darle forma. Irrispettosi, guidati dall’autoassoluzione, emettono nuove etichette: «Puttana una volta, puttana per sempre».
Isa/Léa si adegua, alza le tariffe, impara a fingere meglio: «Non ho niente da offrirti se non ciò che i miei occhi vedono», recita Hardy in A quoi ça sert. L’inverno è la stagione dello svelamento: la morte del cliente più anziano e più affettuoso di Isa, stroncato da un infarto durante il coito, innesca le indagini che portano a scoprire la sua doppia vita. Ora sono la madre e il patrigno a tentare di ca(r)pire l’inafferrabile psicologia dell’adolescente, cui Ozon offre la complicità di una regia che non tradisce, di Isa, nulla più di ciò che lei sa, concedendo al suo personaggio lo spazio per costruire se stessa, per farsi persona, sgusciando fuori dai lassi recinti di chi la guarda – spettatore compreso. La mamma intimorita dalla sua sensualità sinora sottovalutata (era per lei «un maschio mancato»); il patrigno messo in scacco dal pigro sessismo («Trovi normale che faccia la puttana perché è bella?!»); gli amici che assecondano la voglia di scandalo (quando Isa fa la babysitter, si chiedono «Com’era vestita?»). Fino a quel momento scontrosa, Isa muta pelle e si veste del ruolo di Lolita seducente e inaffidabile; alla polizia dice che l’idea le è venuta vedendo in tv un servizio sulle studentesse bisognose di denaro; allo psicologo suggerisce maliziosamente di pagare le sedute con i soldi guadagnati dalla prostituzione. Messa in punizione, per Isa è tempo di un nuovo travestimento: quello da adolescente ordinaria, che si trucca poco e tenta l’approccio con ragazzi della sua età. «Non voglio, la prima sera» si nega al giovane spasimante, dopo i primi baci, recitando il copione della diciassettenne virginale, e vivendo una sembianza d’amore sulle note di Premier rencontre della Hardy.
Nell’epilogo primaverile fa la sua entrata in scena il personaggio chiave del film, la vedova del cliente morto nell’amplesso con Isa: Charlotte Rampling porta con sé i suoi trascorsi ozoniani da compagna di fantasmatiche presenze, da creatrice di spettri di carne (la scrittrice di Swimming Pool [2003], la moglie che nega l’evidenza della scomparsa in Sotto la sabbia [2000]), e il film si tramuta nel parto della sua mente, nell’ipotesi di una donna tradita. Come può essere, si chiede la vedova Alice, la donna fra le cui gambe è morto mio marito? Giovane e bella. «Troppo giovane e troppo bella», commenta di fronte alla vera Isa, più di come l’aveva immaginata: perché è lei ad averla immaginata, un’adolescente costruita come collage del suo sentire borghese. Lo statuto di realtà di ciò che abbiamo visto è messo in dubbio: è Alice ad avere creato una ragazza che legge in metrò Le relazioni pericolose e fantastica sul suo ruolo di seduttrice; che ha un problema con il padre assente; che vuole punire una madre fedifraga: sono le ipotesi della signora della Parigi bene, per dare corpo a un fantasma. Preleva suggestioni da un tg, forse da un film (Student Services di Emmanuelle Bercot [2010]; Elles di Malgoska Szumowska [2011]; titoli del cui moralismo Ozon si prende gioco con classe); immagina una fanciulla che cercava in quell’uomo un padre surrogato, un’adolescente come tante, che si scambia baci sul Pont des Arts sepolto di lucchetti; lo stereotipo di una diciassettenne nell’immaginario di un’attempata borghese. Che infatti, come colonna sonora, le affida l’anacronistica Françoise Hardy: le canzoni della sua adolescenza. Isabelle era il personaggio di Alice. Alla fine, quando si risveglia in una camera d’albergo, sola, è dal sogno di un’altra che si sta svegliando: Hardy canta «Io sono io». Isabelle, la persona, nasce in quel momento.