«Pulp»: Bukowski si scopre noir
Giorgio Ballario«Stavo in ufficio, il contratto d’affitto era scaduto e McKelvey voleva ricorrere al tribunale per sfrattarmi. Era una giornata infernale e il condizionatore d’aria era rotto. Sul piano della scrivania stava camminando lentamente una mosca. Allungai un braccio, abbattei il palmo aperto della mano e la spedii all’altro mondo. Mentre mi pulivo la mano sulla gamba destra dei pantaloni, squillò il telefono.»(1) Comincia così, con un perfetto incipit hard-boiled in stile anni Trenta o Quaranta, Pulp, l’ultimo romanzo di Charles Bukowski, uscito nel 1994. Di più: l’ultima opera del vecchio Hank, che fra l’altro di romanzi ne ha scritti pochi (sei), prediligendo nell’arco della sua lunga carriera i componimenti poetici e la forma narrativa del racconto. La scena è chiara fin dalle prime righe, e diventa più esplicita ancora in quelle successive: siamo nell’ufficio logoro e scalcagnato di un investigatore privato, come nella miglior tradizione americana, e sta per succedere qualcosa. C’è un cliente in arrivo, anzi una cliente. Guarda caso, una stangona con gambe e tette mozzafiato, classica femme fatale da film noir hollywoodiano del dopoguerra (avete presente Gilda, con l’esplosiva Rita Hayworth?), che fa girare la testa al nostro antieroe sin dal momento in cui varca la porta dell’ufficio.
Potrebbe essere l’attacco di un romanzo di Raymond Chandler, padre del noir hard-boiled nonché capostipite di una lunghissima serie di detective-stories che continua anche ai giorni nostri, non solo nella narrativa a stelle e strisce. La figura dell’investigatore privato maltrattato dal destino, solitario, in disarmo ma non ancora del tutto vinto e con una certa propensione ad alzare il gomito, ha avuto una miriade di figli e nipotini anche nel Vecchio Continente e in America Latina, dove molti protagonisti di romanzi gialli degli ultimi trent’anni sono ampiamente debitori del Philip Marlowe chandleriano, o magari del Sam Spade creato da Dashiell Hammett, o del Mike Hammer di Mickey Spillane. Pensiamo al Nestor Burma di Léo Malet, al Pepe Carvalho uscito dalla penna di Vázquez Montalbán, all’investigatore turco-tedesco del compianto Jakob Arjouni, al cileno Cayetano Brulé interprete della serie di Roberto Ampuero o, per rimanere in Italia, al protagonista dei migliori romanzi di Giorgio Scerbanenco, l’ex medico Duca Lamberti, radiato dall’ordine per aver praticato un’eutanasia.
Nelle prime pagine di Pulp, Bukowski sembra quindi seguire i più tradizionali cliché dei romanzi noir americani che hanno segnato la sua giovinezza, ma basta sfogliare poche pagine per capire che la storia ambientata a Los Angeles, come gran parte delle opere di Hank, va a parare altrove. Pulp non è un romanzo hard-boiled, e nemmeno la semplice parodia di un hard-boiled.
C’è chi ha parlato di un vero testamento spirituale, visto che l’autore l’ha scritto quand’era ormai consapevole di essere arrivato a fine corsa, ammalato di tubercolosi da alcuni anni e colpito infine da una leucemia. Per altri, invece, è un tentativo di irridere ed esorcizzare la morte, al punto da farne la protagonista in carne, ossa e curve della sua ultima opera. La femme fatale che irrompe nell’ufficio del detective privato Nick Belane («il più dritto di Los Angeles»), infatti, altri non è che la Signora Morte, e ha un incarico delicato da affidare all’investigatore: rintracciare «il più grande scrittore francese», Louis-Ferdinand Céline. Ecco un frammento del loro primo dialogo:
«Céline è morto, lui ed Hemingway sono morti a un giorno di distanza l’uno dall’altro, trentadue anni fa.
– Di Hemingway lo so, lui ce l’ho.
– È sicura che fosse Hemingway?
– Oh, sì.
– E allora perché non è sicura che questo sia il vero Céline?
– Non lo so. Ho una specie di blocco, in questa faccenda. Non mi è mai successo prima. Forse è troppo tempo che sono sulla breccia. Quindi sono venuta da te. Barton dice che sei bravo.
– E lei pensa che il vero Céline sia vivo? Lo vuole?
– Assolutamente, grassone.
– Belane. Nick Belane.
– D’accordo, Belane. Voglio essere certa. Dev’essere il vero Céline, non un incompetente che si spaccia per lui. Ce ne sono troppi, di quelli»(2).
Come s’intuisce dal dialogo surreale, siamo ormai lontanissimi dai terreni classici del noir hard-boiled, anche se stile e stilemi continuano a essere quelli di Chandler o Hammett. E siamo anche al di là della pura e semplice parodia, benché il nome del detective faccia apertamente il verso al Rick Blaine di Casablanca, interpretato da Humphrey Bogart. Bogart che, peraltro, ha pure vestito i panni del Sam Spade de Il mistero del falco e di Marlowe ne Il grande sonno. Alla fine, quindi, tutto si tiene.
Più si procede nella lettura e più si entra in un mondo bizzarro, lontano anche dalle tradizionali tematiche bukowskiane (il sesso esplicito, la sbronza, la critica sociale della cultura dominante): è come se l’autore avesse deciso di concentrare nella sua ultima opera un coacervo ingarbugliato di paradossi filosofici ed esistenziali, giocando a rimpiattino con la Morte ma anche con il lettore più affezionato, che non può che rimanere spiazzato di fronte a questa ultima giravolta. Un vero pastiche: non a caso, “pasticcio” è una possibile traduzione del termine inglese pulp.
«Ecco il libro più atipico, folle e geniale di Mr. Charles Bukowski» scrive Giuseppe Praino su Paperstreet.it, «e sembra quasi volontario il fatto di averlo partorito pochi giorni prima della propria morte, come un alcolico testamento spirituale. Si percepiscono degli echi malinconici, una consapevolezza del destino, ma nell’accezione che un personaggio come Bukowski poteva attribuire al termine: rassegnazione, ma nessun rimpianto.»
Man mano, la trama si complica. All’indagine per rintracciare Céline se ne aggiungono ben presto altre due: un impresario di pompe funebri vuole che Belane fermi la donna aliena che lo perseguita; ma, soprattutto, c’è da risalire alla vera identità dell’enigmatico Passero Rosso, che rivelerà il proprio volto soltanto nelle ultime righe del romanzo. Ma, in realtà, la complicazione è solo apparente, perché, come detto, Pulp non è un giallo né un noir e le indagini poliziesche sono solo il pretesto fornito a Belane/Bukowski per affrontare i grandi misteri dell’esistenza.
«Il registro autobiografico, cui lo scrittore ci ha abituato, si fa più sfumato e quasi si perde – ma mai del tutto, non per gli iniziati bukowskiani – nei contrasti accesi del noir, un genere, quest’ultimo, pieno di insidie e cliché» sottolinea Roberto Alfatti Appetiti nella sua originale biografia di Hank. «Bukowski lo affronta con il suo stile, facendo i conti con le sue personali ossessioni: la Signora Morte e Céline. Con la prima, ormai, dialoga da tempo, mentre con lo scrittore francese si è confrontato da sempre, sin dalla scoperta del Voyage.»(3)
Ed ecco allora che, fra un dialogo serrato e l’altro, fra un giro in auto nell’amata Los Angeles e una sosta allo storico bar Musso’s, fra un drink e una scazzottata, Belane/Bukowski si diverte a infarcire il romanzo di pensieri, riflessioni e aforismi che danno il senso del malinconico addio dell’autore alla vita. «Ero dotato, sono dotato. A volte mi guardo le mani e mi rendo conto che sarei potuto diventare un grande pianista o qualcosa del genere. Ma che cos’hanno fatto le mie mani? Mi hanno grattato le palle, hanno scritto assegni, hanno allacciato scarpe, hanno tirato la catena del water, ecc. Ho sprecato le mani. E la testa»(4); «Figlio di puttana, l’uomo è nato per conquistare a fatica ogni centimetro di terreno. Nato per lottare, nato per morire»(5); «Il sesso era un trabocchetto, una trappola. Andava bene per gli animali. Avevo troppo buon senso per sciocchezze simili.»(6) E ancora: «Ai vecchi tempi […] la vita degli scrittori era più interessante dei loro romanzi. Al giorno d’oggi non sono interessanti né la vita né gli scritti»(7); «Voglio dire, mettiamola così: voi immaginate che niente abbia un senso, ma non può essere che tutto sia così, perché vi rendete conto che non ha senso e questa vostra consapevolezza gli dà quasi un senso. Avete capito quello che intendo? Un pessimismo ottimistico»(8); «Non arrivavo da nessuna parte, e neanche il resto del mondo, per quello. Stavamo tutti in giro in attesa di morire e nel frattempo facevamo alcune cosette per riempire lo spazio. Certuni non facevano neanche le cosette. Eravamo delle verdure»(9); «L’uomo nasce per morire. Che significato ha? Stare lì ad aspettare»(10).
Una ventata di lucido pessimismo? Un malinconico disincanto? Lo sberleffo finale nei confronti della morte imminente? Forse Pulp è un po’ tutto questo, oltre al gioco di voler ricostruire la Los Angeles oleografica dei romanzi e dei film polizieschi degli anni Quaranta, che di sicuro hanno avuto grande influenza sulla formazione dell’allora giovane Bukowski. Sono temi già ampiamente presenti nei precedenti lavori di Hank – che si tratti di romanzi, racconti o poesie – ma in Pulp assumono una profondità e un’essenzialità in grado di sconcertare anche il più fedele lettore bukowskiano.
Come scrive Lorenzo Spurio sul blog Letteratura e Cultura, «Belane è un inetto in tutto: ha alle spalle tre matrimoni che, a detta sua, sono finiti per semplici incomprensioni, ma nemmeno il ritorno sulla scena di una sua ex moglie sembra tirarlo fuori da quel clima di depressione e vittimismo che si è creato addosso, arrivando persino a considerare il suicidio. Non mancano le amate scommesse ai cavalli, marchio di fabbrica di Bukowski, e i riferimenti al bere, all’ubriacarsi, all’alcolismo; mentre il sesso, tema da sempre caro a Bukowski, è sì presente, ma in forma diversa. Belane, infatti, non è un donnaiolo, non è uno ossessionato dal sesso, pronto a corteggiare una donna oppure a prendersela per sé con la forza. Riferimenti al sesso sono sparsi qua e là nel romanzo, ma Belane non è mai coinvolto in un amplesso amoroso. Neppure quando l’ex moglie gli propone, in cambio di venti dollari, una prestazione orale, lui accetta. Sotto questo punto di vista Belane è un Chinaski molto più cauto e meno ossessionato dal tema».
Se Belane è un Chinaski ormai arrivato a fine corsa, lontano dalla scanzonata carnalità del più classico degli alter ego bukowskiani, l’intero romanzo è un viaggio al termine non della notte – come lascerebbe intuire la presenza immanente di Céline – ma, caso mai, della vita. La morte, il nulla, l’assurdità dell’esistenza e l’impossibilità (o incapacità) di dare un senso alla condizione umana sono da sempre cardini dell’opera di Bukowski, ma in questo romanzo raggiungono vette inesplorate.
Quando scrive le ultime pagine di Pulp, Buk è ormai gravemente malato ed è costretto a frequenti ricoveri per sottoporsi a cicli di chemioterapia al San Pedro Peninsula Hospital, dove poi morirà il 9 marzo del 1994. Osserva Alfatti Appetiti, nella biografia già citata: «Non ha paura della morte e, se ne ha, la tiene per sé. Preferisce sfidarla. “Io mi porto la morte nel taschino. A volte la tiro fuori e le parlo: Ciao bella, come va? Quand’è che vieni a prendermi? Sono pronto” annota nel diario di bordo»(11).
Un concetto che il suo alter ego Nick Belane ribadisce nelle pagine dell’ultimo romanzo: «Poi… comparve la signora Morte. Vicino al Passero. E non mi era mai sembrata così bella neanche lei»(12). Fino all’epilogo straziante in cui Bukowski solleva il velo sull’enigma del Passero Rosso, che alcuni hanno interpretato come allegoria della leucemia che lo stava consumando: «Non può essere vero, pensai. Non è questo il modo in cui deve succedere. No, non è questo il modo in cui deve succedere. Poi, mentre guardavo, il Passero aprì lentamente il becco. Comparve un enorme vuoto. E dentro il becco c’era un grande vortice giallo, più dinamico del sole, incredibile. Questo non è il modo in cui succede, pensai di nuovo. Il becco si spalancò, la testa del Passero si avvicinò e il giallo sfavillante e accecante mi fu sopra e mi avvolse»(13).
Fine di Pulp, fine di Nick Belane, fine di Charles Bukowski.
- Charles Bukowski, Pulp, Feltrinelli, Milano 1995, p. 9.
- Ivi, p. 12.
- Roberto Alfatti Appetiti, Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski, Edizioni Bietti, Milano 2014, p. 302.
- Charles Bukowski, op. cit., p. 13.
- Ivi, p. 25.
- Ivi, p. 32.
- Ivi, p. 47.
- Ivi, pp. 136-137.
- Ivi, p. 156.
- Ivi, p. 15.
- Roberto Alfatti Appetiti, op. cit., pp. 303-304.
- Charles Bukowski, op. cit., p. 181.
- Ivi, p. 182.