L'ultimo poeta maledetto
Massimiliano Gobbo
Molto s’è detto e scritto su Henry Charles “Hank” Bukowski, profeta del così detto realismo sporco, politicamente scorrettissimo, irriverente e controcorrente, che ha segnato la lunga e intensa stagione della letteratura statunitense del dopoguerra. Bukowski è stato tutto e il contrario di tutto, un autore dalla sensibilità straordinaria, con uno sguardo inquieto e attento ai problemi e alle brutture della società a stelle e strisce. Cronista fedele a se stesso e alla sua verità, ha cantato l’America dei sottoscala, dei vicoli ingombri d’immondizia, quel misterioso grottesco che abita ognuno di noi.
Questa icona del suo tempo si proietta e giganteggia ancora nell’immaginario collettivo di milioni di lettori, come pure, in modo decisamente più banale, nei “consumatori” internettiani delle sue frasi, dei suoi slogan, che sembrano fatti apposta per celebrare quel mondo decadente e pieno d’ipocrisia che noi chiamiamo, con vanaglorioso eufemismo, modernità. Ma il vecchio Hank ci ha insegnato anche un’altra cosa, che ha a che fare con il mondo dell’arte e della letteratura (fermandoci a queste): ci ha insegnato che la bellezza, quintessenza dell’arte stessa, esiste anche nelle dimensioni del grottesco e dell’impresentabile. Assieme al suo alter ego letterario Henry Chinaski, ci ha regalato, al modo d’un antico profeta – avendone anche l’aria, con quella sua espressione un po’ esaltata, i capelli scarmigliati e la barba incolta –, una chiave inedita e inaudita di lettura della realtà. Ci ha aperto gli occhi e il cuore, e, afferrandoci con mano ferma, senza far troppi complimenti ci ha fatto annusare la puzza di un’America – e, di riflesso, d’un Occidente – abituata a puntare il suo occhio miope sui luccichii del reparto benessere del mondo, ignorando colpevolmente l’interrato, in cui scorrazzano topi e scarafaggi.
Nelle sue pagine una puttana assume la dignità d’una madonna rinascimentale, un ubriacone i panni d’un antico filosofo, un covo di derelitti la grandezza d’un simposio d’intellettuali illuminati. I suoi personaggi sono icone lussuriose, viziosi relitti d’un tempo e d’una società corrotti, i discepoli d’un modus vivendi all’insegna del noto sesso, droga e rock’n’roll (moderni baccanali che a lui non spiacevano). Più diretto d’un Salinger, più roboante – nella sua scurrilità – d’un Raymond Carver, più promiscuo e provocatorio d’un Andy Warhol, ci ha regalato momenti d’indimenticabile e inimitabile poesia, cartografie del lato oscuro dell’anima. L’ultimo dei poeti maledetti, che ha fatto del maledettismo uno stile di vita e un Leitmotiv letterario. Sarebbe piaciuto a Freud, che, lo sanno tutti, “vedeva il sesso dappertutto”, forse un po’ meno al suo discepolo prediletto e ribelle Jung. Di sicuro sarebbe stato simpatico anche a Federico Nietzsche, anche se il buon Chinaski rappresenta uno strano tipo d’oltreuomo.
Un tipo strano, a metà tra una rock star reduce da Woodstock travolta dall’abuso di droghe e alcol e un membro della Scapigliatura in ritardo d’un secolo. Uno scrittore che ha ridestato almeno due generazioni d’americani, allevati a forza di luoghi comuni e ipocrisie. Conducendo, in tempi non sospetti, una guerra contro il politicamente corretto e il buonismo, quando non li si chiamava ancora in questo modo.
Se ha venerato il vizio e un certo tipo di esistenze perdute nel vortice della corruzione morale e fisica, lo ha fatto pagando sempre il conto; lui, che non era un furbo – diremmo oggi – del cartellino, ha comunque timbrato, ogni giorno che Dio gli ha dato, la sua timecard, e lo ha fatto nel modo a lui più congeniale: «Ecco il problema di chi beve, pensai versandomene un altro: se succede qualcosa di brutto si beve per dimenticare; se succede qualcosa di bello si beve per festeggiare; se non succede niente si beve per far succedere qualcosa».
Ma chi era Charles Bukowski, questo scrittore filosofo che scrutava il mondo dal fondo d’una bottiglia? Ecco una domanda a cui, in modo paradossale, è difficile e a un tempo facile rispondere. Il nostro fu molte cose, lo abbiamo già sostenuto: non desiderando ripeterci, ci limiteremo a dire cosa non era. Hank non era un ipocrita né un codardo, nella letteratura come nella vita. Non era un ruffiano, un piaggiatore, come certi “illustri” scrittori contemporanei. Non era un vigliacco, un cacasotto, uno che ha paura di fare nomi e cognomi… Non era neppure un buonista; quelli li avrebbe presi a calci in culo. E, inaspettatamente, non era neanche volgare, poiché l’arte, quella vera, non lo è mai.
Il vecchio Hank, con la sua aria ineffabile, ti guarda, attraverso le vecchie foto che lo ritraggono in posa intimistica. Sembra chiederti, tenendo la sua eterna sigaretta fra le labbra rinsecchite: «Ma tu esisti, sei vivo?».
E ora, come di consueto, diamo un’occhiata ai racconti selezionati per celebrarne al meglio la figura. Cominciamo da Vieni via con me di Simona Vassetti. Perché un professore di liceo passa le sue serate in un sordido bar frequentato da ubriaconi e donne di dubbia moralità? Se la spiegazione si trova nel reggiseno d’una procace rossa, il senso della storia appare chiarissimo nella sua dimensione bukowskiana. Francesco Brandoli ci presenta il suo Solo se chiedi scusa a Dostoevskij. Un uomo in cerca d’avventure, una cameriera provocante, un locale squallidissimo – su tutto, la presenza ingombrante del grande narratore russo. Ecco gli ingredienti di questo racconto dal tratto grottesco, non privo d’una certa poesia. Che ci fa un tizio, in tutto e per tutto simile al caro Hank, nel continente indiano, all’ombra d’una torre misteriosa tetramente sorvolata da uno stormo di corvi? Fra domande di tenore escatologico, vaghi riferimenti a sentieri conducenti all’illuminazione e un molto più prosaico «va’ a quel paese!», Gianpiero Mattanza ci regala un racconto a tratti surreali che ben s’inserisce nel solco bukowskiano. A chiusura, un misterioso racconto scovato da chi scrive nei labirinti sotterranei di un’università californiana. La firma non lascia dubbio alcuno sulla sua autenticità.