Evocati non sempre a proposito come modello per Donald Trump, gli anni Ottanta di Ronald Reagan e della «Me Generation» rivelano anche in questo paragone la loro opacità, difficili da riassumere in una definizione precisa e identitaria. Sono stati gli anni della lotta agli “imperi del male” (che però si chiudono con il summit di Mosca dell’88 e il riconoscimento della glasnost gorbacioviana), sono stati gli anni della Reaganomics e del «liberismo senza freni» (salvo quando bisognava aiutare le industrie nazionali dell’auto e dell’acciaio), ma anche dell’esplosione dell’Aids (la morte di Rock Hudson, nel 1985, diventerà una data emblematica), degli yuppie e di Mtv. Come dire: sotto la retorica patriottica tanto cara al presidente-attore si agitavano molte più contraddizioni di quanto si potesse allora immaginare. E che il cinema di quegli anni – tra i più ricchi e popolari della rinascita hollywoodiana – può aiutare a decifrare meglio, anche perché proprio Reagan si sere dei film come nessun altro presidente prima, evocandone figure e immagini per la sua politica, a cominciare dalle «guerre stellari» contro il nemico comunista.
Questa è la strada che ci propone Pier Maria Bocchi con Invasion USA pubblicato dall’editore Bietti (pagine 208, €18), di scavare cioè, come dice il sottotitolo, tra «idee e ideologie del cinema americano degli anni Ottanta», per capire meglio un decennio che ha finito per pagare lo scotto dei suoi slogan e delle sue troppo generiche asserzioni.
E lo fa, come si può intuire dal titolo che riprende un war movie di serie B del 1985, diretto da Joseph Zito e prodotto dalla Cannon di Golan e Globus, senza fermarsi soltanto ai campioni d’incasso che dominavano i box office e l’immaginario (gli anni Ottanta sono quelli del trionfo di Indiana Jones, Ritorno al futuro, dei Rambo e degli Acchiappafantasmi, di E.T.) ma smontando i luoghi comuni e i facili meccanismi retorici per portare in superficie le linee di forza e le tendenza produttive ben più importanti di quel che non si credesse.
Senza dimenticare i capisaldi dei grandi autori (la lotta tra individuo e società in Woody Allen, il lucido pessimismo di John Carpenter, gli aggiustasmenti della morale in De Palma, la trilogia “yuppie” di Scorsese), senza minimizzare la «fuga dal reale» che sembra avallare il successo della fantascienza e poi di fantasy e avventura, Pier Maria Bocchi propone due percorsi di lettura che si intrecciano strettamente.
Da una parte l’evoluzione dell’industria che sfrutta sempre di più le risorse del marketing (i theme park movie che invadono la realtà con i loro prodotti) ed effetti sempre più speciali (Tron è il primo film che fa interagire un attore in carne e ossa con un ambiente virtuale) mentre le major subiscono le conseguenze delle nuove logiche corporative e aprono spazi per nuovi protagonisti (la Hemdale, la Cannon, la New Line e, nel campo della distribuzione, la Miramax dei fratelli Weinstein); dall’altra, un’attenta e stimolante (ri)lettura dei film che permette di smantellare l’apaprenza monolitica del cinema del decennio.
Sono le pagine più appassionanti del libro, in cui opere apparentemente innocue come quelle su un’adolescenza romantica e ribelle o che esaltano il fascino del corpo maschile e femminile o incensano l’efficienza della legalità e dei suoi avvocati o ancora si rifugiano nel piacere horror, finiscono per piazzare dinamite nell’immaginario repressivo e patriottardo degli anni Reagan, svelandone le tante crepe. Che l’ultimo capitolo analizza
in profondità attraverso 21, sorprendenti titoli, da Koyaanisqatsi a Henry. Pioggia di sangue a 9 settimane e 1/2.
Paolo Mereghetti ©Corriere della sera
9 novembre 2016