
Fu una sera, in un circolo Arci della Sicilia profonda. Stenio Solinas, intellettuale di destra, partecipava a un dibattito. Un uomo cieco, appoggiato a un bastone, protesta: “Ma chi minchia andiamo invitando? Mica mi incantano, sempre fascisti sono”. Appoggiato al suo bastone bianco, l’uomo “fissa” Solinas che fuma un sigaro. “Sentisti?”, gli dice. “Sì, è senza offesa siete come l’ultimo dei Mohicani”, la risposta. E quello, ridendo: “Sono? E voi allora? Siamo gli ultimi Mohicani”.
Superstiti. Ultimi di una specie. Condizione di sopravvissuti. La risposta dell’uomo scatena in Solinas una sorta di amaro, affascinante amarcord. “La mia è stata l’ultima generazione ad avere ancora fatto in tempo a godere delle illusioni della politica in tutta la loro apparente e vera magnificenza…” – i partiti, le ideologie, le passioni, i dibattiti, persino gli odi. Non si fa nulla più: un mondo inabissato come Atlantide, scomparso sotto interi oceani. “La sensazione generazionale di essere come gli ultimi Mohicani, gli ultimi ad aver conosciuto cosa fosse la politica, nel senso delle idee e delle ideologie, di una visione del mondo, per capirci meglio, fino a impregnarsi di essa e a consumarvi sopra gli anni, i migliori e insieme i peggiori della nostra vita…”.
Nella notte umida di pioggia, davanti a un cieco che per tutta la vita era stato dall’altra parte rispetto alla sua, comincia il viaggio di Solinas. Un viaggio a ritroso – faticoso e dolente e, lo stesso, vitale. Mica è nostalgia, la sua. Ché anzi, la sinistra era quella che era, l’epica dell’8 settembre che sulle colonne dell’Unità Italo Calvino quasi raccontava col pathos dell’epica omerica, “il mito del ritorno a casa: il dover tornare a casa su mezzi di fortuna, per paesi irti di nemici”, epica “calviniana sentimental-consolatoria”, scrive, “un paese senza ambizioni nazionali ma faticatore, un po’ Arlecchino e un po’ Pulcinella, per far dimenticare il Capitan Fracassa e Matamoro finito in tragedia”.
E la destra, sull’altro fronte, “qualunquista e conformista, nostalgica, bigotta, clientelare, timorosa del nuovo, aggrappata al vecchio, né reazionaria né conservatrice”, un po’ di post fascismo da operetta, la Dc che tutto incarna e contiene, il mito del berlusconismo (pur essendo Berlusconi “il primo politico postmoderno”) che finisce dove il successo lo soffoca nel fallimento, “l’assenza di tragicità. Il tragico in politica è un valore, contiene in sé la catarsi e il sacrificio, l’etica e il rispetto delle idee, la durezza della leadership”.
È rimpianto, forse, quello di Solinas. È la fatica del Nulla – quello letterario, quello politico – che sempre gli ultimi Mohicani sono costretti malamente a (soprav)vivere: paesaggio senza più orizzonti. Ha fatto da molti anni, Solinas, i conti con la sua parte: attraverso libri, articoli, amare riflessioni: “Si erano cullati nel rifiuto della storia, ma poi la storia aveva finito con il cadergli sulla testa. Non avendo mai fatto i conti con il proprio passato ne erano diventati la caricatura”.
Ma è ben più della destra che il Mohicano Solinas vede svanire. Raccoglie, nel suo percorso inverso, le briciole di tante passioni che ormai non appassionano più: c’è Leopardi e c’è Gramsci, Pasolini e Bertolucci, i “Quaderni piacentini” e pure Nanni Moretti o una canzone di Bruno Lauzi… Viaggi all’estero – “jungerianamente avevo cercato il mio ‘passaggio al bosco’”, ritorni in patria, fuga e di nuovo qui. Da ragazzo aveva scelto una frase di Guglielmo il Taciturno: “Non occorre riuscire per perseverare, né sperare per intraprendere”. E adesso? “Tanti, troppi anni dopo, sono ancora fermo lì…”. Si vorrebbe far battaglia, ma adesso persino il campo di battaglia è scomparso. “Siamo un paese che si è messo i pantaloni sotto le chiappe e se li tira su ogni volta che fa un passo”.
(«Il Foglio», 1 agosto 2013)