Cinemonitor: a colloquio con Anton Giulio Mancino su «La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio»
Anton Giulio Mancino
A colloquio con Anton Giulio Mancino, autore di La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio (Edizioni Bietti Heterotopia), immersione in un labirinto intricatissimo tra cronaca e cinema, ossessioni dell’autore (intendiamo Bellocchio quanto Mancino) e concreti riferimenti ad un evento che ha cambiato l’Italia.
La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio (Edizioni Bietti Heterotopia) assomiglia più a un film di Francesco Rosi che a qualsiasi altro libro di saggistica cinematografica: da una parte coinvolge e, dall’altra, indaga, va a fondo, fornisce spiegazioni… Com’era, nella tua mente, il progetto iniziale di questo libro?
Sono molto contento che dia questa impressione a chi lo legge, essendomi per molti anni occupato proprio dei film di Rosi. Paradossalmente questo libro sul cinema di Bellocchio l’avevo concepito diversamente. Non riuscirei a immaginare un autore più lontano da Rosi. Anzi, l’interesse per Bellocchio andava esattamente nella direzione opposta a quella del paradigma di film italiano che ho altrove definitivo “politico-indiziario”, di cui Rosi credo sia il più compiuto e coerente esponente. Bellocchio si colloca agli antipodi di Rosi, per il modo in cui il discorso politico attraversa i suoi film. Originariamente avevo pensato a una monografia organizzata non cronologicamente, né per singoli titoli. Desideravo un impianto più libero e in sintonia con un autore come Bellocchio che della libertà intellettuale e artistica, del bisogno fisiologico, quasi un’insofferenza istintiva, di scrollarsi di dosso ogni forma di magistero ideologico, estetico e culturale, ha fatto quasi una religione. Avevo immaginato un libro scandito da capitoli incentrati ognuno su una figura con cui i film di Bellocchio dichiaratamente o allusivamente avevano interagito. Un capitolo su Marlon Brando, uno su Luigi Pirandello, uno su Giovanni Pascoli, uno su Anton Cechov, uno su Benito Mussolini. Quindi, doverosamente, anche uno su Aldo Moro, per completare il quadro, poiché non c’era stato solo Buongiorno, notte, ma, sullo stesso argomento, anche Diavolo in corpo, o il documentario Sogni infranti. Ragionamenti e deliri. A questo punto ho iniziato a rivedermi tutti i film, in ordine cronologico, annotando qualsiasi appunto, senza uno schema preciso, lasciando che fossero insomma le coincidenze a stabilire cosa considerare esattamente. Ma con Enrico IV è scattato qualcosa, un’epifania, avendo già un po’ studiato per conto mio il caso Moro. Ho avuto la sensazione che il “pazzo” che tale non è, desunto dall’opera di Pirandello, nel 1984, avesse molti punti di contatto con la conclamata e inaccettabile “pazzia” attribuita a Moro durante i giorni del sequestro, a proposito delle lettere. Ho cominciato a seguire questa pista e a verificare se esistessero altri segnali sparsi. Così mi sono accorto di un sorprendente gioco di richiami, fittissimo e molto strutturato, anche nei film non direttamente incentrati sull’argomento. Il capitolo su Moro è cresciuto a dismisura e alla fine ho deciso di trasformarlo nell’asse portante, inglobando all’interno quelli che ormai erano diventati gli ex altri capitoli.
Attraverso tre titoli in particolare (Enrico IV, Il principe di Homburg e Buongiorno, notte) e altri riferimenti alla filmografia bellocchiana, ricostruisci un punto nodale della storia d’Italia: come si sono rivelate ai tuoi occhi queste “congiunture segrete”? E quali sono?
Di Enrico IV ho già spiegato l’effetto di serendipità, che ha innescato l’intero percorso di scrittura e stravolto il progetto originale. Buongiorno, notte per ovvie ragioni sarebbe diventato il centro dell’intero nuovo progetto, purché riletto alla luce di una serie di indicazioni “interne” che arricchivano e quasi trascendevano la trama apparente. Il modo in cui questo film può essere raccontato viene contraddetto dall’altro modo, quello con cui le immagini, i suoni, i dialoghi, insomma l’ordine del discorso lo restituiscono effettivamente. Cioè mediante una trasgressione sistematica affidata a incongruenze e trasgressioni rispetto alla logica, alla storia e alla cronologica ufficiale. Analizzando più da presso questo costrutto testuale estremamente suggestivo e complesso si arriva a una visione assai poco allineata del caso Moro, a dir poco vertiginosa, inedita e sconvolgente anche sul piano strettamente conoscitivo. Quanto a Il principe di Homburg, mi ha molto colpito in prima istanza la situazione drammatica, molto emblematica, del protagonista, imprigionato e condannato a morte, che cerca assolutamente di sottrarsi a questo implacabile ordine proveniente dall’alto, dal Grande Elettore. Non so se mi spiego.
Nella stesura, che tipo di importanza ha avuto il confronto con storici che si sono occupati del caso Moro, come Paola Magnarelli, Giovanni Sabbatucci, Sergio Flamigni, Giuseppe De Lutiis?
Fondamentale e prezioso. Stavo oramai scrivendo un libro di cinema che era implicitamente un libro di storia. Occorreva un confronto mirato con storici contemporaneisti e studiosi del caso Moro, espressione di diverse e legittime chiavi interpretative. Sarebbe stato impensabile non consultarli anche di persona o telefonicamente, sottoporre loro le mie ipotesi, gli elementi su cui stavo lavorando. A loro va la mia infinita gratitudine, spesso anche per l’incoraggiamento e l’attenzione al mio percorso di ricerca.
Colpisce la tua capacità di portare avanti, allo stesso tempo, un libro di critica cinematografica e un saggio storico, un approccio interpretativo al cinema di Bellocchio che diventa, inoltre, filtro per ipotesi ardite: come hai lavorato a questo particolare “effetto”?
Direi che tale “effetto” è stato un risultato automatico, frutto peraltro di un lavoro di riscrittura e ripensamento continui. Quando sei su una strada che si sta rivelando sempre più corretta a livello di cognizione di causa dei fattori linguistici del film, quindi anche storiograficamente importante, senza soluzioni di continuità se si guarda alla chiave di accesso al caso Moro fornita da Bellocchio, ecco che la sintesi delle due prospettive e metodologie diventa una conseguenza persino piacevole a livello di scrittura, di stile. Se i libri di cinema fossero più spesso libri di storia, coraggiosamente e senza complessi di inferiorità o eccessiva preoccupazione di tenere separati gli ambiti di indagine, scatterebbe altrettanto automaticamente tale opportunità.
Come sempre in Bellocchio è fondamentale il “gioco” dei nomi. In Buongiorno, notte e negli altri film cui fai riferimento il rimando dei personaggi con i veri brigatisti e con gli altri attori della vicenda è più intricato che mai…
Assolutamente. Per pudore però evito di fare esempi specifici poiché per comprendere come funziona il codice onomastico nei film di Bellocchio è bene non ridurlo a poche parole. Mi permetto di rimandare alla lettura del libro, alla scoperta di sorprese che hanno a suo tempo lasciato interdetto il sottoscritto.
Nell’introduzione, o meglio nella “retroduzione”, fai riferimento alla cortesia e alla disponibilità di Bellocchio: non si è sentito per nulla “scoperto” dal tuo saggio?
La sua apertura verso il tipo di lavoro che stavo facendo è stata encomiabile. Ideale per uno studioso. Da un autore così intelligente e aperto non c’era da aspettarselo? E mi riferisco sia a quando il libro era in corso d’opera, fase in cui ho scelto di mantenere una autonomia interpretativa, pur basata su una quantità enorme di testi, materiali, documenti, dichiarazioni, interviste. Sia a dopo l’uscita del libro. Bellocchio l’ha letto attentamente e ha contattato la casa editrice dicendo che l’aveva molto apprezzato e si rendeva disponibile a presentarlo pubblicamente. Cosa che poi ha fatto a Roma lo scorso 11 novembre. Una serata indimenticabile, significativa anche volendola considerare l’occasione per una cordialissima legittimazione del lavoro svolto che va ben oltre il fatto personale, a beneficio di una conoscenza allargata.
di Marco Chiani ©cinemonitor.it
9 dicembre 2014