Il gotico padano. Dialogo con Pupi Avati (4a ed.)
Claudio Bartolini & Ruggero Adamovit
La Recensione del libro Il gotico padano – Dialogo con Pupi Avati, pubblicato da Bietti Edizioni e firmato da Claudio Bartolini e Ruggero Adamovit, con prefazione di Pupi Avati e postfazione di Lino Capolicchio. Un viaggio letterario e visivo che attraversa sessant’anni di cinema tra nebbia, fede e memoria, da Balsamus a La casa dalle finestre che ridono, da Zeder fino a L’orto americano. Un libro da leggere, guardare e toccare, dove la paura diventa poesia.
Il gotico padano – Pupi Avati e l’anima oscura del Po
C’è un’Emilia-Romagna che non compare sulle guide turistiche: una pianura dove la nebbia si mischia alla colpa e i santi convivono con i fantasmi. È la terra di Pupi Avati, regista capace di trasformare la memoria rurale in un racconto gotico, più morale che spaventoso, più metafisico che truculento. A narrarla, con eleganza e passione, è Il gotico padano – Dialogo con Pupi Avati, firmato da Claudio Bartolini e Ruggero Adamovit, tornato in libreria in una quarta edizione aggiornata (39 euro, disponibile in libreria e online).
Definito dallo stesso Avati “il miglior libro mai scritto sul mio cinema gotico”, il volume non è un semplice saggio ma una mappa sentimentale dell’orrore contadino, un pellegrinaggio tra le ombre del Po e i fantasmi del cinema.
«I miei colori. Escono dalle vene. Son dolci i mì culor. Dolci. Iè dolz come l’autun, iè cheld cum al sanguv».
Le parole deliranti di Bruno Legnani, il pittore delle agonie de La casa dalle finestre che ridono, sembrano riemergere dalle pagine del libro come un’invocazione.
Sfogliandolo, si sente ancora l’eco di quella voce posseduta: la purezza, il sangue, la luce che contamina. Ogni capitolo è un viaggio tra superstizione e redenzione, una danza macabra che unisce paesaggio padano, nebbia, fango, carne e mito.
È un libro che sembra scritto sull’acqua e sul vino: un dialogo col demonio e con Dio, come tutto il cinema di Avati.
Il libro è strutturato come un viaggio in dodici capitoli e due inserti fotografici a colori.
La prima sezione, Pupi Avati ha paura, esplora le origini contadine e religiose del suo immaginario; la seconda, Pupi Avati fa paura, analizza i film più oscuri, da Zeder a Il signor Diavolo. Chiude il volume “L’archivio del gotico”, un capitolo di grande valore documentale che raccoglie interviste e testimonianze di attori e tecnici – da Antonio Avati a Chiara Caselli, da Lino Capolicchio a Gabriele Lavia, da Francesca Marciano a Filippo Scotti – insieme a fotografie e materiali inediti.
Un mosaico di memorie che trasforma il libro in un vero archivio vivente del cinema avatiano, continuamente aggiornato, un luogo dove le voci del set continuano a parlare anche dopo la fine del ciak.
Il gotico padano attraversa l’intera filmografia del regista, come una via crucis laica che parte dal 1968 con Balsamus, l’uomo di Satana — la corte dei miracoli, gli incantesimi cialtroneschi, le domande sull’essere primordiale — e arriva fino al 2024, allo sguardo smarrito di Filippo Scotti in L’orto americano.
Un viaggio che ci riporta, ancora una volta, nei luoghi dove “le acque dolci incontrano le salate, dove il Po si getta nell’Adriatico”: un’interzona che avrebbe affascinato William Burroughs, e che Avati abita da sempre.
La casa, il cimitero e la risata dei morti
La casa dalle finestre che ridono (1976) è il cuore pulsante del gotico padano. Vidi per la prima volta il film una sera d’agosto del 1982, su Rai Uno, accanto a mio padre. Ricordo lo spavento, il silenzio, il finale sconvolgente. Da quella notte persino le lumache nel frigorifero mi sembrarono mostruose. Col tempo ho imparato ad amarle — soprattutto le monachelle pugliesi — ma quella paura resta.
Nel libro, Bartolini racconta la genesi del film come un rito collettivo, un’epifania del male nella normalità. Il restauro di un affresco diventa scavo nell’anima: “La paura nasce quando la normalità si incrina”, dice Avati. Sette anni dopo, Zeder (1983) trasforma la superstizione in scienza e la fede in esperimento. Il mistero dei “terreni K” è la metafora perfetta del cinema avatiano: un luogo dove la morte fermenta, e la memoria diventa resurrezione. Nel libro, la sezione dedicata al film è un trattato sulla metafisica della provincia, dove anche la tecnologia ha il suono delle campane. E poi arriva Tutti defunti… tranne i morti (1977), la commedia più folle e irresistibile del gotico padano: una centrifuga emiliano-romagnola che rimescola Dieci piccoli indiani con Agatha Christie ubriaca di lambrusco.
C’è Gianni Cavina, investigatore fantozziano e pavido; c’è un Michele Mirabella cowboy pugliese trapiantato nelle nebbie del Po;
e soprattutto Carlo Delle Piane, “Dante”, improbabile venditore di libri concupito dalla procace Ilaria, che trasforma il giallo in un desiderio carnale e goffo. La filastrocca che scandisce il film — «Saranno in dieci legati al mio nome, uno ne resterà, non si sa come. E da quei nove morti composti al cimitero, avrà luce il tesoro e scoprirai il mistero» — è un rosario demenziale, una messa nera recitata con vino e dialetto.
Avati la chiama “la mia bolla di follia controllata”: una risata che apre la bara, un modo per esorcizzare la paura e, insieme, per celebrarla.
Le strelle nel fosso: la favola della fine
Girato tra le Valli di Comacchio, Le strelle nel fosso (1979) è il film più dolente e fiabesco di Avati.
Lino Capolicchio e Roberta Paladini abitano una campagna fuori dal tempo, dove l’arrivo di Olimpia — creatura forse umana, forse angelica — annuncia una morte dolce e inevitabile.
Rondolino scrisse che era “un’operina infantile come una filastrocca”, e il libro ne coglie la purezza commossa.
Bartolini e Adamovit lo leggono come una “parabola del ritorno alla terra”, un addio pronunciato con la tenerezza del silenzio.
L’arcano incantatore e Il nascondiglio: fede e follia
In L’arcano incantatore (1996) la paura si fa mistica: il Settecento, la Chiesa, la superstizione, la colpa. Stefano Dionisi e Carlo Cecchi recitano in un teatro dell’anima dove la teologia diventa demonologia. Avati confessa nel libro: “È il mio film più religioso e più empio insieme”. Il nascondiglio (2007), girato in Iowa, è la sua controparte moderna: un horror psicologico con Laura Morante, in cui la follia è la forma occidentale della fede. Due film lontani nello spazio e nel tempo, ma uniti dallo stesso battito: il cuore in gola della colpa.
L’orto americano: il gotico maggiore
Nel libro di Bartolini e Adamovit, L’orto americano diventa la chiusura di un cerchio e, insieme, un nuovo inizio.
È il film in cui il regista torna a scavare nel terreno dove tutto era cominciato: la pianura, la colpa, il ricordo. Ma lo fa con una grazia mai così dolente.
La paura, qui, è una nostalgia che profuma di terra e di pioggia. Il protagonista — un Filippo Scotti fragile e incantato — attraversa un paesaggio che sembra uscito da un sogno padano travestito da Midwest.
L’America è un miraggio, l’orto un altare domestico. E in quella soglia tra vivi e morti, Avati sembra riconciliarsi con la sua ossessione più antica: il desiderio di vedere oltre la fine senza smettere di raccontare.
Nel dialogo con gli autori, Avati non chiude, ma apre: come se ogni film fosse un varco e ogni fantasma una memoria che chiede ancora di essere ascoltata.
Il gotico padano, insomma, continua a germogliare. E questa nuova edizione del volume lo custodisce con la cura di chi sa che la paura, a volte, è soltanto un modo per tornare a casa.
Un apparato fotografico che respira
A rendere il volume unico è il sontuoso apparato fotografico: scatti inediti che paiono vivi. Una giovanissima Mariangela Melato nel suo debutto in Thomas… gli indemoniati; Francesca Marciano che soffia bolle di sapone su una barca sul Po; Laura Morante che ride durante una pausa sul set de Il nascondiglio; Sergio Stivaletti intento a truccare Emilio Vestri Musy per Il signor Diavolo; e il reportage di L’orto americano, con Mildred Gustafsson nei panni di Barbara Squillante che posa davanti al green screen, mentre Avati scrive a mano i messaggi del killer ispirati a Bacchilide.
Se il libro fosse un cocktail
Sarebbe un Negroni in canonica. Gin come lucidità critica, Vermouth rosso come sangue contadino, Bitter come malinconia padana.
Da bere lentamente, con la nebbia che sale dal Po e un organetto che suona Ave Maria in minore. Perché il gotico di Avati non si beve: si contempla.
Il libro in breve
Titolo:Il gotico padano – Dialogo con Pupi Avati
Autori: Claudio Bartolini, Ruggero Adamovit
Prefazione: Pupi Avati
Postfazione: Lino Capolicchio
Editore: Bietti Edizioni
Prezzo: €39,00
Formato: Brossura, nuova edizione aggiornata con due inserti fotografici a colori
Punti di forza:
- Il “miglior libro mai scritto sul mio cinema gotico”, come lo definisce Pupi Avati
- Un dialogo che attraversa sessant’anni di film, da Balsamus a L’orto americano
- Ricco apparato iconografico con fotografie e documenti inediti
- Testimonianze di attori, tecnici e collaboratori storici della “factory Avati”
- Un viaggio letterario tra nebbia, fede, paura e poesia nella pianura padana
E sfogliandolo, tra parole e fotografie, ci si accorge che questo libro non parla solo del cinema di Pupi Avati, ma anche di noi: di ciò che abbiamo amato, temuto, perduto — e che, come nei suoi film, continua misteriosamente a tornare.
Paolo Nizza ©skytg24 10 novembre 2025