
La prima vera storia d’amore tra adulti raccontata da Pupi Avati, ma anche un ambizioso affresco storico. Un film di attori, intimista, che l’autore scrive e dirige rispettando le regole del genere “love story”, finale a lieto fine incluso, ma senza esitare ad arricchirlo con tutte le sue ossessioni autoriali.
Da un lato, dunque, è una favola romantica, agrodolce e corale, ambientata nella notte di Capodanno tra il 1899 e il 1900, chiusa in una sorta di “…e vissero tutti felici e contenti” con la voice over che, richiamando le parole di uno dei personaggi, si chiede, fiduciosa: «Riusciremo ad andare tutti sulla luna?». Sui titoli di coda, la foto di una bimba seduta su una mezza luna dal volto umano, come quella di Méliès, a rappresentare tutte le speranze di successo e di felicità che ogni nuovo secolo porta con sé. Come quelle di uno degli invitati al matrimonio il quale, ignaro dei conflitti mondiali che insanguineranno il Novecento, si augura un secolo senza guerre.
Dall’altro lato, nel film non mancano alcuni dei tòpoi avatiani ricorrenti: la difficoltà di vivere i sentimenti, i problemi legati al grande passo del matrimonio, l’amicizia tradita (un motivo, quest’ultimo, che Avati ha in comune con altri due maestri del cinema di paura, Alfred Hitchcock e Brian De Palma). Una visione del mondo non particolarmente ottimista, che mal si concilia con lo stereotipo di laudator temporis acti ingiustamente affibbiato ad Avati. Qui di nostalgia ce n’è poca, il passato non sembra migliore del presente e l’autore, ormai, è in una fase di carriera in cui non gli interessano più i racconti idilliaci.
Anche l’amore al centro del film, ch’a nullo amato amar perdona, somiglia più a una malattia mentale contagiosa, che si trasmette dalla giovane Francesca ad Angelo, il testimone del suo sposo. Angelo è un ex manovale, neanche tra i più bravi, che Oltreoceano ha ereditato dal fratello maggiore una fortuna e solo grazie a questa può sedere al tavolo dei padroni, durante il pranzo di nozze. Un personaggio ispirato al nonno materno di Avati, Carlo Vigetti, tornato a vivere a Sasso Marconi dopo essersi arricchito in Brasile.
Francesca, che nella sua ossessione d’amore ricorda la Adele H. di Truffaut, di dantesco e stilnovista ha l’aspetto nobile da donna angelicata, di bianco vestita, dall’apparenza innocua e dalla straordinaria bellezza, ma con un’espressione del volto volitiva e determinata. In un rovesciamento protofemminista dei ruoli tradizionali di genere – così sorprendente in una società regolata da usanze tradizionali prestabilite, dominata da una religiosità popolare che sconfina nella superstizione – è lei a prendere l’iniziativa e, in una scena grottesca, a inseguire letteralmente il maschio spaventato, in frettolosa partenza, vittima predestinata, uomo sensibile e timido. Angelo piange di commozione quando, tornato dopo quindici anni dagli Stati Uniti per reincontrare Luly – una sua vecchia fiamma, finita a fare la prostituta di lusso – la rivede, sempre bellissima come la ricordava. Mentre, invece, sembra accettare, con ritrosia, le avance testarde di Francesca, più per passività che per passione. È per questo che risultano inaspettati il ritorno e il ripensamento nel finale, con il protagonista alla guida di un’auto a riabbracciare Francesca, maestrina ormai esiliata in solitudine, dopo aver mandato a monte il matrimonio.
Angelo è interpretato da uno straordinario e misurato Diego Abatantuono, che attraversa il film in uno stato di spaesamento, di smarrimento, di confusione, adottando un modello di sottorecitazione che affida agli sguardi gran parte della comunicazione. Il testimone dello sposo è infatti anche un film di sguardi: da quello titubante che si scambiano Angelo e Francesca, in chiesa, durante la cerimonia nuziale, che permette alla zia della ragazza di accorgersi dell’attrazione nascente, alle occhiate di seduzione e ricerca tra i vari personaggi, che scandiscono la notevole scena del ballo. Una scena senza dialoghi, di cinema puro.
Edgardo è esattamente l’opposto di Angelo, la sua nemesi, cioè lo sposo imposto a Francesca dal padre medico. Figlio dell’ex datore di lavoro di Angelo, è un uomo volgare, interessato solo al denaro, un incallito sciupafemmine che non riesce a comprendere come il protagonista non abbia mai avuto successo con le donne e come non voglia passare la vita a contare i soldi. Un uomo gretto da cui Francesca vuole essere salvata, a tutti i costi. Lo chiede esplicitamente ad Angelo, il principe azzurro che viene dagli Stati Uniti, il Paese dei sogni, delle illusioni, delle novità, delle automobili, del cinema. Un Paese da cui Angelo trasporta fino a Sasso delle diapositive, da quelle del mostro cannibale della Virginia e dei «negri buoni come noi» a quelle della sua famiglia e delle altre famiglie emigrate.
Proprio negli States, dopo l’anteprima al Festival di Berlino, Avati, tramite la Universal, riesce a far distribuire il film, dopo avervi girato qualche anno prima tre titoli: Bix. Un’ipotesi leggendaria (1991), Fratelli e sorelle (1992) e L’amico d’infanzia (1994). Al fascino dell’America, Avati non ha mai saputo resistere, sin dai suoi trascorsi giovanili di jazzista. Dal cinema d’Oltreoceano mutua un lirismo e un gusto della finzione pura, che si esprime in un utilizzo tutt’altro che parco delle musiche, in il Testimone dello sposo composte da Riz Ortolani. Il motivo che accompagna la fuga della sposa, nel corso della cerimonia nuziale, è quasi una musica thriller, mentre gli archi che ascoltiamo sui titoli di testa hanno un che di disneyano.
Il film, particolarmente curato nelle scenografie di Steno Tonelli e Alberto Cottignoli e nei costumi di Vittoria Guaita, è stato girato proprio dove, nella finzione, si svolgono le vicende dei personaggi: a Sasso Marconi, segnatamente nel Palazzo de’ Rossi e a Villa Neri, ma tra le location ci sono anche l’eremo di Tizzano, a Casalecchio, e la Strada Romea, a Ravenna. Località fotografate da Pasquale Rachini con tonalità ocra, marroni, seppia, coerenti con il calligrafismo da film in costume e dotate di grande gusto del dettaglio, degno di un Camerini.
Avati non rinuncia a sfoggiare il suo senso dell’umorismo, espresso da una serie di figure minori. Se è tipico del cinema popolare cercare il riso enfatizzando gli accenti regionali dei personaggi (in questo caso, quello dei parenti tranesi di Francesca, compreso un convincente Toni Santagata, all’esordio come attore), e se il prete spiritoso può sembrare un cliché, le gag-tormentone del ragazzino vergine – che per la sua purezza risulta il più adatto a dedicarsi a una serie di rituali di preparazione prematrimoniali – e della vestizione della sposa permettono anche di mettere in luce l’aspetto più scaramantico e atavico della cultura dell’epoca. Un folklore che Avati raffigura con la consueta, ammirevole curiosità.
CAST & CREDITS
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Alberto Cottignoli, Steno Tonelli; costumi: Vittoria Guaita; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Diego Abatantuono (Angelo Beliossi), Inés Sastre (Francesca Babini), Valeria D’Obici (Olimpia Campeggi Babini), Dario Cantarelli (Edgardo Osti), Nini Salerno (Sauro Ghinassi), Toni Santagata (Manlio Lobianco), Ugo Conti (Marziano Beliossi); produzione: Antonio Avati e Aurelio De Laurentiis per FilmAuro; origine: Italia, 1997; durata: 99’; home video: Blu-ray inedito, dvd FilmAuro; colonna sonora: RCA Victor Italy.