«il manifesto»: Dayan. Un viaggio iniziatico, un thriller metafisico e un’utopia romeni
Mircea Eliade
Non tutti forse ricordano che Mircea Eliade, riconosciuto come il massimo storico delle religioni del Novecento, pubblicò, parallelamente alla sua imponente opera saggistica, una quasi altrettanto vasta mole di scritti narrativi. Se in Romania egli è considerato un classico anche come scrittore, all’estero in genere la sua produzione letteraria, che comprende anche opere teatrali, è ancora poco apprezzata, tant’è che alcuni dei suoi romanzi attendono ancora di essere tradotti nelle principali lingue europee. In questo senso un’inversione di tendenza poteva essere innescata dall’uscita del film che nel 2007 Francis Ford Coppola aveva ricavato dal romanzo Un’altra giovinezza (tradotto per l’occasione da Rizzoli); tuttavia neanche un film di un regista così famoso contribuì davvero a risollevare la fortuna internazionale dell’Eliade narratore. Con questo non si vuole certo affermare che tutta la sua opera letteraria “resista” ancora oggi, ma essa rimane comunque imprescindibile per comprendere appieno la complessa personalità di questo protagonista della cultura contemporanea.
Eliade manifestò la sua vocazione narrativa con straordinaria precocità, elaborando i primi esperimenti letterari già in età adolescenziale, sull’onda dell’infatuazione per Un uomo finito di Giovanni Papini; e continuò a scrivere racconti e romanzi fino agli anni della vecchiaia. A questo periodo risalgono i tre affascinanti racconti fantastici che Bietti propone ora per la prima volta al lettore italiano sotto il titolo Dayan e altri racconti (a cura di Horia Corneliu Cicortaş, pp. 200, € 16,00). La tendenza a rompere gli schemi del realismo per aprire la narrazione all’epifania del sacro, al mistero, nonché, appunto, al fantastico è presente lungo tutto l’itinerario narrativo di Eliade (forse sulla scia del citato Papini, autore di racconti fantastici ammirati anche da Borges); nell’ultimo periodo, però, l’autore romeno alimenta la sua poetica fantastica con suggestioni attinte dalle teorie scientifiche.
Scritto tra il 1979 e il 1980, il racconto eponimo, ambientato, come gli altri due, negli anni della Guerra Fredda, ha per protagonista un giovane e geniale matematico romeno soprannominato Dayan perché porta una benda su un occhio che lo fa assomigliare all’omonimo generale israeliano. Mentre Dayan sta preparando la tesi di dottorato nella quale si appresta a proporre una rivoluzionaria revisione del teorema di Gödel, la sua vita è sconvolta dall’incontro con un vecchio, che gli rivela di essere in realtà il mitico Ebreo errante: dapprima questi gli guarisce miracolosamente l’occhio ferito e poi lo accompagna in un illuminante viaggio iniziatico. Le bizzarrie di Dayan non sfuggono all’occhiuto preside della sua facoltà, cosicché il matematico finisce presto nel mirino degli agenti di regime. Verrà rinchiuso in un sanatorio e tenuto sotto stretta sorveglianza, ma nondimeno le sue singolari teorie attireranno l’attenzione della comunità scientifica internazionale.
Il secondo racconto, La mantella, del ’75, inizia con una surreale conversazione nei pressi a un negozio di alimentari di Bucarest nel corso della quale un individuo vestito con una mantella militare vecchio stile insinua il dubbio che la data di quel giorno non sia 19 maggio 1969, come sostengono tutti, bensì 19 maggio 1966, come risulterebbe da alcune copie di un quotidiano che recano quella datazione: ne scaturisce un intricato thriller metafisico dagli esiti sorprendenti. L’ultima storia del libro, All’ombra di un giglio…, risalente al 1982, è anche l’ultimo racconto scritto da Eliade, e può essere letto quasi come una sorta di esoterico testamento letterario. Si svolge a Parigi e ha come protagonisti alcuni esuli rumeni; anche qui tutto ruota attorno a degli enigmi, tra cui il significato dell’espressione usata nel titolo, che era stata adoperata da un misterioso professore negli anni lontani in cui la Romania stava per sprofondare nella Seconda Guerra. «All’ombra di un giglio, in Paradiso» viene interpretata come allusione a un luogo ideale in cui infine i vecchi compatrioti si sarebbero ritrovati; ma anche come luogo apocalittico, giacché solo con l’Apocalisse l’Esilio può davvero terminare.
(Raoul Bruni, «il manifesto», 27 dicembre 2015)