Quando Gagarin rubò le ali a Icaro
Massimiliano Gobbo
«Vivere nel rischio significa saltare da uno strapiombo e costruirsi un paio d’ali mentre si precipita.» Chissà se, pronunciando queste parole, Ray Bradbury pensasse al figlio di Dedalo, costruttore del famoso labirinto. Una cosa, però, è certa: col suo volo temerario alla volta del Sole, Icaro ci consegna un’immagine assai moderna, riportandoci alla mente le prime eroiche imprese spaziali, in cui uomini altrettanto coraggiosi osarono sfidare i limiti imposti dalla fisica. Le sue ali, veri e propri strumenti tecnologici (ma anche, potremmo dire, fantascientifici), lo consegnano alla dimensione del mito, facendone fra l’altro il primo esempio d’aeronauta.
Icaro come Gagarin? E perché no? La fantascienza non è forse (come sostenuto in questo numero di «Antarès») una moderna mitologia? E le sue storie non sono, pertanto, forme d’epica tecnologica? In quest’ottica, tale genere letterario diviene poema della modernità, narrazione dei miti della tecnica in contrapposizione (o, forse, sarebbe meglio dire in prosecuzione) a quelli antichi, nati all’ombra delle colonne dei templi della classicità. Così, proprio come nell’antichità, quest’epica abbisogna di eroi e guerrieri, mostri e deità su cui basare le proprie storie fantastiche. Perciò, agli eroi omerici si sostituiscono quelli dell’esplorazione spaziale, gli arditi astronauti con tanto di tuta spaziale in luogo delle armature scintillanti e pistole a raggi, surrogati delle lame bronzee degli Achei.
Agli antichi cavalieri del poema epico subentrano ieratici Jedi dalle spade laser, mentre i carri di fuoco sferraglianti per i cieli arcadici vengono rimpiazzati dai fiammeggianti razzi che sfrecciano per gli spazi siderali. Allo stesso modo, mostruose creature mitologiche come il Minotauro, l’Idra, i troll e gli antichi draghi delle saghe nordiche sono sostituite dai più moderni e tecnologici Alien e Terminator.
A questo gioco di specchi e parallelismi – che dimostra, ancora una volta, come l’uomo non possa far a meno del mito e della sua funzione – non potevano naturalmente sottrarsi le divinità. Ed ecco, allora, comparire un nuovo Pantheon tecnologico in cui alle figure che abitano gli Olimpi si vengono a contrapporre quelle dei semidivini supereroi del nostro tempo.
Un’epica, questa, dalle radici ottocentesche (magnificamente rappresentate dalle opere di scrittori del calibro di Jules Verne e H. G. Wells), che, però, vedrà il suo fiorire nel secolo ventesimo. Sarà infatti grazie all’intraprendenza di personaggi come Hugo Gernsback, il quale nel 1926 darà alle stampe il primo numero di «Amazing Stories», che la fantascienza fiorirà, divenendo in pochi decenni un fenomeno di estensione planetaria.
Furono proprio le riviste pulp americane di questo periodo a fornire la spinta propulsiva necessaria alla diffusione globale di questo nuovo genere. Leggende della fantascienza come Isaac Asimov, Robert A. Heinlein, Ray Bradbury e Theodore Sturgeon mossero i primi passi fra le pagine dei magazines americani, proponendo racconti di grandissimo valore. Se è vero, naturalmente, che tutti questi scrittori produssero anche romanzi straordinari, la formula preferita dalle riviste di settore fu tuttavia quella del racconto, per via della sua brevità (scelta motivata anche da evidenti ragioni di spazio).
È per questo motivo che abbiamo deciso di proporre, su questo numero di «Antarès» dedicato alla fantascienza (che vede l’ingresso del sottoscritto nella redazione, quale direttore della sezione di narrativa), quattro racconti, quattro visioni distinte d’un genere che s’è fatto mito. Pertanto, nella migliore tradizione dei pulp magazines americani dell’epoca d’oro della sci-fi, vi presentiamo le opere di due scrittori e due scrittrici di grande talento, che con mano sicura vi condurranno per terre di sogno e meraviglia, all’inseguimento della scia di Icaro.
E, ora, una piccola ricognizione sulla narrativa presentata. Donato Altomare ci propone Orpheus, racconto giocato fra un romanticismo interstellare e una science fiction avventurosa. Un proscenio icastico di Space opera che rammenta certi lavori di Campbell o Hamilton, con qualche influsso della cinematografia di genere più recente. Un’opera attenta e coerente con un cosmo narrativo intuito dal lettore, che non potrà che apprezzarne il senso profondo ed escatologico. Ne La Città dei gatti neri, invece, Marina Alberghini ci riporta nell’Egitto dei Faraoni, conducendoci fra le sabbie dimenticate dal tempo alla scoperta di antichi e strani miti, come quello di Bastet, la dea per metà donna e per metà gatto. Attraverso suggestioni esotiche e scenari alla Stargate, l’autrice intesse una storia fantastica che echeggia leggende di civiltà perdute poste sotto il dominio di antichi astronauti alieni. Col suo Discesa agli inferi, straniante catabasi interstellare, la mano esperta di Errico Passaro tratteggia un affresco narrativo da incubo (tipico della fantascienza in chiave horror), in cui le atmosfere cupe e mortifere di vascelli spaziali fantasma si mescolano con le suggestioni della più autentica hard science fiction. Che ci fa, infine, l’autore del Piccolo principe in compagnia del colonnello Thomas Edward Lawrence, più noto come Lawrence d’Arabia? Questa la domanda che ci si pone leggendo L’età del vento, affascinante racconto dal sapore fantastico e vintage di Gloria Barberi. Una storia che, scintillante e pura come l’acqua d’un torrente di montagna, scorre fra le ali d’un bombardiere della Seconda Guerra Mondiale, attraverso i deserti infuocati percorsi dal turbinio del Ghibli, per concludersi nelle calde e sognanti atmosfere romantiche di una Parigi degli anni Venti.