"Maniac Cop. Il poliziotto maniaco". Mirabile epitaffio di un’epoca

Giacomo Calzoni
William Lustig n. 13/2020

Si comincia esattamente dove terminava il primo atto, e cioè con la resa dei conti nella fabbrica abbandonata tra gli agenti Forrest e Mallory da un lato e il poliziotto sadico Matt Cordell dall’altro, prima della morte – soltanto apparente – di quest’ultimo tra le acque del molo. Uno stratagemma narrativo classico e dal sapore di altri tempi, ma che causa più di un grattacapo allo spettatore italiano coevo, che nel 1990 si ritrova a vedere in sala Maniac Cop. Il poliziotto maniaco (questo il titolo scelto per l’uscita nei cinema) ignorando l’esistenza del capostipite, distribuito invece due anni più tardi semplicemente come Poliziotto sadico (per la corretta numerazione e titolazione della saga bisognerà attendere l’home video).

Bizzarrie distributive a parte, Maniac Cop. Il poliziotto maniaco sancisce definitivamente lo statuto di icona horror per lo sbirro Matt Cordell, che da questo momento può considerarsi a tutti gi effetti un membro della grande famiglia allargata del cinema dell’orrore statunitense: quasi un Jason Voorhees con la divisa, certamente molto meno carismatico di un Freddy Krueger, ma in grado tuttavia di ritagliarsi uno spazio tutto suo nell’immaginario cinematografico a lui contemporaneo. Un personaggio che probabilmente sarebbe andato incontro a una gloria ancora maggiore se Maniac Cop 3. Il distintivo del silenzio, il capitolo più travagliato della saga, non avesse cominciato a compromettere seriamente la carriera registica di William Lustig. Seppure, a guardare più da vicino, questo secondo capitolo sembra già una perfetta chiusura del cerchio, senza il bisogno di ricorrere a quella serializzazione infinita che aveva caratterizzato lo slasher anni Ottanta.

Con a disposizione un budget quattro volte superiore rispetto al primo film, stavolta Lustig e lo sceneggiatore/produttore Larry Cohen hanno praticamente carta bianca per fare ciò che vogliono. È così, allora, che Maniac Cop. Il poliziotto maniaco si rivela tutt’altro che un sequel in ciclostile: al contrario è un film folle e liberissimo, in cui la componente action addirittura prevale su quella più strettamente horror regalando almeno una sequenza di car chase memorabile, con il taxi guidato dall’agente Mallory inseguito da Cordell (prima) e con la psicologa Susan Riley ammanettata fuori dall’abitacolo in una folle corsa intrisa di panico e adrenalina (dopo). Un cambio di registro che la dice lunga sul significato dell’intera operazione: se Poliziotto sadico era innegabilmente frutto della visione produttiva di Larry Cohen – fautore di un horror urbano in grado di mettere in discussione le sicurezze e gli agi della modernità ed espressione di un sentire comune tipico di un certo cinema degli anni Settanta e Ottanta – il secondo capitolo cerca invece di voltare pagina. Perché Cohen è stato uno tra i pochi a capire veramente da che parte tirasse il vento, pur lavorando sempre ai margini dell’industria. E nel 1990 il vento stava cambiando: lui lo capì prima di molti altri colleghi, alcuni dei quali ben più acclamati e inflazionati. Il decennio dei fasti e degli eccessi era terminato, e con esso anche la portata dialettica di un genere che avrebbe impiegato ancora molti anni prima di riuscire a rialzarsi. Presto non ci sarebbe stato più posto per lo slasher, il body horror o le grandi saghe, o almeno non con la stessa dirompenza di prima: di quel cinema e di quel mondo Maniac Cop. Il poliziotto maniaco celebrò il funerale senza che molti se ne accorgessero, ma questo Cohen lo sapeva fin troppo bene.

E Lustig, da par suo, non si è certo tirato indietro: autore anarchico e fuori dagli schemi, può qui permettersi di uccidere nel primo tempo i suoi protagonisti Forrest e Mallory – sopravvissuti alla follia omicida di Cordell nel primo film – per passare il testimone a una nuova coppia di sbirri, in barba a qualsiasi regola precostituita, riutilizzando persino il girato dell’aggressione nelle docce della prigione per approfondire e ampliare la mitologia del villain. Molto più che nel film del 1988, qui la commistione tra horror, poliziesco e action metropolitano si fa totalmente fluida, come un giro vorticoso sulle montagne russe lungo 90 minuti, durante i quali Cohen e Lustig rimasticano e sputano a modo loro le regole del genere, accettando di buon grado un citazionismo esplicito senza mai salire in cattedra: così affiorano echi dai Frankenstein della Universal (sia quelli di James Whale sia Il figlio di Frankenstein [1939], soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra Cordell e lo strangolatore seriale, quasi un Igor aggiornato al presente1), da La cosa da un altro mondo di Christian Nyby e Howard Hawks ([1951], tutta la sequenza finale in carcere, tra le fiamme) e persino da Terminator di James Cameron ([1984], l’assalto alla stazione di polizia). Alla fine, la circolarità narrativa del film rispetto a Poliziotto sadico, con il ritorno di Cordell a Sing Sing per chiudere i conti, tradisce tutta la malinconia velata di Lustig per il tramonto di un genere: non stupisce quindi più di tanto che una tale mancanza di freni e di limiti trovi il suo epilogo proprio in un cimitero, dove tra le lapidi e le tombe si cerca di dare sepoltura a qualcosa che non può morire – e questo la dice lunga sulla posizione di due come Lustig e Cohen rispetto ai dettami dell’industria. La dedica finale all’amato Joe “Maniac” Spinell, scomparso prematuramente l’anno prima, sembra davvero l’epitaffio di un mondo e di un’epoca.

Ma è anche (ancora!) un cinema di volti e di nomi, appena un attimo prima di quell’anonimato (anche in termini strettamente visivi e fisionomici) che avrebbe imperversato lungo tutti i successivi anni Novanta: se stavolta Bruce Campbell resta in scena giusto il tempo per vedere morire il suo personaggio, il “sostituto” Robert Davi – che tornerà nel terzo atto – è una faccia purissima da cinema di genere (attore non a caso già apparso in titoli chiave del periodo come Codice Magnum di John Irvin [1986] e Trappola di cristallo di John McTiernan [1988], oltre ad avere interpretato il perfido narcotrafficante Sanchez in 007. Vendetta privata appena l’anno precedente). Uscito dall’anonimato proprio nel primo film grazie al personaggio di Cordell, Robert Z’Dar è stavolta, indiscutibilmente, il protagonista assoluto: ancora più muscolare e mostruoso grazie a un superbo lavoro di make-up, non ha bisogno di dialoghi per rivendicare uno dei meriti della riuscita del film, legando indissolubilmente il suo nome a quello del personaggio come mai più riuscirà a fare nel corso della sua carriera.

 

Note

1 Di James Whale sono Frankenstein (1931), La moglie di Frankenstein (1935), mentre Il figlio di Frankenstein è diretto da Rowland V. Lee.

 

CAST & CREDITS

Titolo originale: Maniac Cop 2; regia: William Lustig; soggetto: Larry Cohen; sceneggiatura: Larry Cohen; fotografia: James Lemmo; scenografia: Gene Abel, Charles M. Lagola; montaggio: David Kern; musiche: Jay Chattaway; interpreti: Robert Z’Dar (Matt Cordell/Poliziotto maniaco), Robert Davi (ispettore Sean McKinney), Claudia Christian (Susan Riley), Michael Lerner (Edward Doyle), Laurene Landon (Teresa Mallory), Clarence Williams III (Blum), Leo Rossi (Turkell), Paula Trickey (Cheryl), Bruce Campbell (Jack Forrest), Danny Trejo (carcerato); produzione: Medusa Pictures, The Movie House Sales Company, Fadd Enterprises, Overseas FilmGroup; origine: Usa, 1990; durata: 90’; home video: Blu-ray Blue Underground (import Usa), dvd Storm Video; colonna sonora: Blue Underground.

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