Alla fine del 1968, nel mezzo degli immensi cambiamenti sociali sollecitati dai movimenti per i diritti civili e dalle crescenti proteste contro la guerra del Vietnam, Hollywood elimina del tutto i precedenti vincoli di controllo censoreo basati su regole e principi morali – il Codice Hays – e adotta un nuovo metodo di classificazione incentrato sul pubblico e il ruolo dei genitori. In altre parole, si forniscono strumenti per aiutare lo spettatore a comprendere se un film possa essere o meno adatto a sé o ai propri familiari. Alla luce di questo nuovo sistema di rating, anche le grandi case di produzione hollywoodiane avviano la realizzazione di film che includono scene di nudo e violenza impensabili fino a pochi anni prima, come Gangster Story (1967), Bullit (1968), Un uomo da marciapiede (1969) e Il mucchio selvaggio (1969). I produttori indipendenti di pellicole commerciali e di genere, destinate soprattutto al circuito dei drive-in e delle sale di seconda e terza visione, aumentano la produzione di opere ricche di gore, sadismo e violenza sessuale che sembrano alimentarsi dell’energia e delle paure dei tempi. Molti tra questi titoli possono infatti essere letti come una reazione ai traumi sociali dell’era del Vietnam.
A Pittsburgh, George A. Romero rivoluziona l’exploitation con La notte dei morti viventi (1968) che, girato soprattutto di notte e in un bianco e nero fortemente contrastato, traccia le principali direzioni del cinema horror statunitense dei dieci anni successivi. L’uso che l’autore fa delle ombre non è quello suggestivo alla maniera di Val Lewton; al contrario, se ne serve per amplificare la violenza della messa in scena. Lo spettacolo è estremamente cruento: le immagini delle vittime sventrate da un esercito di morti viventi sono mostrate in primo piano, come nella celebre sequenza in cui una bambina divora il corpo della madre. Il plot centrale, che racconta di un gruppo di persone assediato all’interno di una casa, sembra una versione estrema di Gli uccelli di Alfred Hitchcock (1963), con gli zombie che sostituiscono gli stormi nell’attacco alla popolazione. Entrambi profondamente apocalittici, i due film possono essere letti come allegorie della paura del disastro nucleare. La notte dei morti viventi porta inoltre con sé alcuni riferimenti al tumulto razziale che a quel tempo sconvolgeva gli Stati Uniti. Ben, unico nero, rappresenta l’antieroe. Egli contende la leadership del gruppo a Harry Cooper – uomo bianco che si trova nella casa con moglie e figlia – la cui animosità razziale è tangibile, seppure mai dichiarata. Contrariamente a quanto avviene nei tradizionali horror, il coraggioso Ben muore di una morte senza senso e la pellicola termina con una nota di disperazione nichilista.
Anche il giovane regista britannico Michael Reeves realizza alcuni titoli molto originali, destinati a diventare riferimenti imprescindibili per il cinema successivo. In Il killer di Satana (1967), un vecchio scienziato e sua moglie sperimentano un processo di trasferimento di coscienza per riconquistare la loro giovinezza, prendendo possesso della mente e del corpo dei giovani. Viene così messo in scena il conflitto generazionale che separa i giovani dagli anziani sui temi di sesso, droga e violenza. Il grande inquisitore (1968) è invece un dramma crudo ambientato durante la guerra civile inglese e interpretato da Vincent Price nel ruolo di Matthew Hopkins, corrotto e spietato cacciatore di streghe. Privo di elementi soprannaturali, propone torture e roghi di donne innocenti. Alla fine l’eroe-soldato non riesce a salvare la sua amata dal cacciatore di streghe, e soccombe anch’egli alla sua maniacale brama di sangue.
La notte dei morti viventi e Il grande inquisitore aprono la strada a un cinema horror non pacificante, in cui non solo la famiglia e la società si sgretolano, ma il mostro ha la meglio privando lo spettatore del lieto fine. La trasformazione in corso nel genere è ben esemplificata da Targets di Peter Bogdanovich (1968), in cui si pone la questione se lo stile orrorifico del passato possa avere ancora qualcosa da dire in una società consumata dai veri orrori della guerra del Vietnam e dai conseguenti sconvolgimenti interni. Boris Karloff interpreta Byron Orlok, famosa star del cinema horror che affronta un serial killer psicotico all’anteprima del suo ultimo lavoro (in realtà, trattasi di spezzoni di La vergine di cera di Roger Corman [1963]). Il chiaroscuro dell’espressionismo europeo ha lasciato spazio a un’ambientazione urbana, mondana e moderna. Qui il nuovo mostro è un uomo che uccide inspiegabilmente tutta la sua famiglia, prima di mettersi a sparare ai veicoli in autostrada. Cugino di Norman Bates, il personaggio è basato su Charles Whitmann, ex marine che nel 1966 ha ucciso 16 persone sparando dal campanile dell’Università del Texas.
Seguendo il percorso di La notte dei morti viventi, la maggior parte degli horror a basso budget dei primi anni Settanta riflettono (su)i conflitti sociali e sessuali in modi tutt’altro che divertenti o rassicuranti. L’ultima casa a sinistra di Wes Craven (1972) si apre con una coppia di ragazze che escono di casa per un concerto rock per poi essere rapite, stuprate e torturate senza sosta prima di venire uccise da un gruppo di hippie ispirato ai peggiori incubi della controcultura dell’America centrale, sulla scia delle atrocità compiute dalla “famiglia” di Charles Manson avvenute nel 1969. Gli assassini cercano inconsapevolmente rifugio a casa dei genitori di una delle due adolescenti, ma quando la coppia scopre cosa è successo alla loro figlia attua una vendetta altrettanto selvaggia.
Non aprite quella porta di Tobe Hooper (1974) è un’opera più sofisticata dal punto di vista visivo, ma altrettanto angosciante. Al pari di Psyco (1960) e L’ultima casa a sinistra, rifiuta una concezione soprannaturale dei suoi mostri, mantenendosi su un piano di verosimiglianza. Come nei film di Romero, Hooper dà vita a un mondo aggressivo che si avvicina all’apocalittico. Combinando motivi tratti da L’ultima casa a sinistra e Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi di Craven (1977) prosegue sulla strada della critica alle istituzioni tradizionali, prima fra tutte la famiglia. Nel film un nucleo borghese e tradizionale si scontra con il suo corrispettivo selvaggio: non solo scompare la differenza tra mostro e famiglia, ma viene messo in discussione il concetto stesso di civiltà.
L’influenza stilistico-tematica di Psyco si rintraccia in numerosi horror degli anni Settanta (per esempio Carrie. Lo sguardo di Satana [1976]), ma forse più direttamente in Halloween. La notte delle streghe di John Carpenter (1978). Jamie Lee Curtis (figlia di Janet Leigh, attrice di Psyco) interpreta un’ingenua babysitter del liceo che diventa il bersaglio di un pazzo maniaco con una maschera di gomma bianca. Halloween prosegue il discorso di Psyco nel raccontare un’America di provincia tutt’altro che sana e tranquilla. L’enorme incasso (circa 47 milioni di dollari su un investimento di 340 mila) dà vita a una marea di imitazioni, che generano un sottogenere completamente nuovo chiamato slasher, stalk and slash o body count (“conta dei cadaveri”). Sebbene ci fossero stati dei precursori slasher prima del 1978 – come Black Christmas di Bob Clark (1974) e il film della AlP La città che aveva paura (1977) – il trionfo di Halloween ha fatto sì che grandi e piccoli produttori si affrettassero a sfruttare il successo di questa nuova declinazione horror. L’avvincente Quando chiama uno sconosciuto (1979) ha come protagonista Carol Kane, nei panni di una babysitter terrorizzata dalle telefonate di un pazzo che sembra in grado di vedere ogni sua mossa. Non entrate in quella casa (1980), Compleanno di sangue (1981), Il giorno di San Valentino (1981) e Graduation Day (1981) sfruttano la premessa della festa che si trasforma in orrore del capostipite carpenteriano. Il maggior successo del ciclo slasher è Venerdì 13 di Sean S. Cunningham (1980), in cui un gruppo di ragazzi a un campo estivo è perseguitato da quel che si crede il fantasma di Jason Voorhees, giovane annegato anni prima nel lago. Ribaltando l’assunto di Psyco, il finale mostra che il vero killer è la madre di Jason. Nonostante ciò il cadavere del ragazzo esce dal lago per afferrare l’ultima vittima, sorprendendo di nuovo lo spettatore e portando il film – e il sottogenere – a un livello soprannaturale.
Sulla scia di queste nuove pellicole, la Universal ripropone negli stessi anni due sequel sorprendentemente interessanti del capolavoro di Hitchcock, in cui Norman Bates, uscito dall’istituto psichiatrico dopo vent’anni, torna alla sua vita nel motel di cui è proprietario, anche se i suoi vecchi problemi – compresa la madre – riappaiono presto. Psycho II (1983) e Psycho III (1986) attestano quanto il personaggio di Bates sia diventato un’icona horror al pari di Dracula o Frankenstein. Sul suo modello gli slasher scelgono come personaggi soprattutto maschi sessualmente confusi, che mettono in atto una sorta di vendetta psicotica per i traumi subiti durante l’infanzia. Le vittime sono di solito adolescenti che rappresentano il pubblico a cui le opere stesse si rivolgono.
Tra i nuovi ingredienti dello slasher vi è l’immortalità dell’assassino. Michael Myers e Jason Voorhees sono i nuovi Dracula, che muoiono per risorgere nel film successivo. Il passaggio da psicopatico-umano a minaccia-soprannaturale segna un ritorno alla tradizione gotica, fornendo una distanza estetica ed emotiva tra lo spettatore e gli orrori su schermo che i titoli più angoscianti degli anni Settanta non fornivano, a causa del loro spietato realismo. Anche Nightmare di Craven (1984) proietta la formula del serial killer in un territorio genuinamente inverosimile. Freddy Krueger, assassino seriale di bambini, è stato braccato e bruciato vivo da una folla di genitori. Anni dopo, comincia a tormentare gli incubi degli adolescenti del quartiere che aveva preso di mira quand’erano infanti. Come molti mostri classici, anche Freddy indossa un costume sempre uguale (cappello, maglione a strisce rosse e un guanto con lunghe lame metalliche) e riesce a suscitare un misto di simpatia, compassione e disprezzo. Questo contraddittorio miscuglio di attrazione e repulsione dà la stura a saghe horror costruite intorno a mostri carismatici.
Tra loro vi è senza dubbio il Matt Cordell creato nel 1988 da William Lustig in Poliziotto sadico: un integerrimo poliziotto che viene ucciso perché non voleva tacere su alcuni misfatti di cui era stato testimone, ma il cui corpo “risorge” più forte di prima e animato da una sanguinaria sete di vendetta. Con questo film Lustig lega i temi a lui cari – violenza urbana e vendetta personale – allo slasher soprannaturale, dando vita a una trilogia di successo. Hellraiser (1987), dello scrittore e regista britannico Clive Barker, è un’opera visivamente barocca con un mostro estremamente affascinante: Pin-Head, demone sadomasochista la cui testa è trafitta da migliaia di chiodi. La bambola assassina (1988) mette in scena un balocco diabolico di nome Chucky, la cui immagine ha profonde radici nelle paure dell’infanzia. Candyman (1992), adattamento di una storia di Clive Barker diretto da Bernard Rose, è un raro horror sul razzismo statunitense, in cui un artista nero, linciato negli anni Novanta del XIX secolo per essersi innamorato della figlia di un ricco uomo bianco, rinasce come il fantasma Candyman e sventra le vittime con un gancio affilato che sostituisce la mano, amputatagli all’epoca dai suoi carnefici.
Un sottogenere molto vivo negli anni Ottanta è quello che John McCarty definisce splatter nel suo celebre libro The official splatter movie guide, mettendolo in parallelo con lo slasher. Splatter è un termine che McCarty usa per connotare pellicole ricche di scene in cui il sangue schizza senza sosta, ma sarebbe adatto anche a descrivere gli spettacoli dell’antico teatro del Grand Guignol. Fantasmi di Don Coscarelli (1977), opera dalle sfumature surreali, ha fornito la matrice per questo tipo di cinema: in una camera mortuaria che nasconde l’ingresso a un mondo sotterraneo, una palla metallica volante fa spuntare lame per strappare gli occhi delle vittime. Tra i lavori che meglio intrecciano slasher e splatter vi è Maniac di Lustig (1980), prodotto a basso budget impreziosito dagli effetti speciali di Tom Savini. I suoi trucchi sono così efficaci e realistici da risultare elemento di primaria importanza e garantire alla pellicola un successo enorme tra i fan del genere.
I primi anni Ottanta danno così tanta centralità a truccatori e tecnici degli effetti speciali che questi appaiono in diversi casi come co-autori dei film a cui lavorano. Gli sviluppi nella tecnica del make-up – in particolare la raffinatezza degli apparecchi in lattice e gommapiuma e i sofisticati effetti meccanici – sono al centro di cult movies come La cosa di Carpenter (1982), i capitoli zombi di Romero e gli horror “clinici” di David Cronenberg. Rick Baker e Tom Savini, in questo periodo, sono i truccatori più bravi e importanti. Baker è il primo vincitore dell’Academy Award for Best Make-Up Design di Hollywood per il suo lavoro su Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis (1981), mentre Savini sarà ricordato soprattutto per gli effetti raccapriccianti creati per le pellicole di Romero, il primo Venerdì 13 e Maniac.
E proprio nel debutto di Lustig si trovano alcune tra le sue creazioni più sorprendenti, tra cui il ripetuto scalpo di vittime femminili e una testa mandata in mille pezzi da un colpo di fucile sparato dal serial killer Joseph Zito. Il cranio in questione, ça va sans dire, è quello dello stesso Savini, impegnato in un divertito cameo al sangue.