Frenesia di un delitto. L'omicidio come scena primaria

Raffaele Meale
Sergio Martino n. 5/2017
Frenesia di un delitto. L'omicidio come scena primaria

Nel pre-finale di Graffiante desiderio (1993) la bella Sonia, interpretata da Vittoria Belvedere, ammaliante ragazza affetta da un delirio schizoide, ha legato e imbavagliato suo cugino Luigi dopo averlo stordito. Al risveglio dell’uomo Sonia, che indossa giarrettiere nere e mutandine di pizzo, coperte solo da un corto impermeabile in latex, lo accoglie con queste parole: «Ciao Luigi. Dio, ho così tanta voglia… Ti prego, ti va di fare l’amore?». Quindi accompagna la richiesta di una risposta con uno schiaffo in pieno volto. Prima di iniziare a colpire il cugino con tanto di tacchi a spillo, Sonia lo avverte: «Adesso ti insegno un nuovo gioco». Non esiste slittamento di percezione – se non nell’utilizzo della colonna sonora composta da Natale Massara – tra i precedenti incontri erotici dei due personaggi e questa nuova situazione che vede Luigi in pericolo di vita, alla mercé di una giovane folle pronta a tutto. Si intuisce finalmente il senso intimo e ultimo dell’utilizzo dell’aggettivo “graffiante” nel titolo del film: non qualcosa che colpisce in profondità in modo pungente, ma qualcosa che letteralmente “graffia”. Graffia fino a far sanguinare.

All’interno del codice del thriller erotico – e il giallo, nella sua concezione, sconfina da subito in direzione di una dicotomia che permette di osservare in un ideale split screen l’orrore e la sensualità con il medesimo sguardo – una sequenza come quella appena citata non rappresenta certo una novità. Si può anzi affermare che si tratta di una delle situazioni più rappresentative del genere. Eppure, anche in uno dei passaggi più stanchi dell’attività da regista di Sergio Martino, è possibile avvertire il fremito d’eccitazione nella messa in scena dell’atto omicida: filmare l’orrore come se si stesse assistendo a un amplesso, perdersi nella frenesia di un delitto che è spesso, per i personaggi, l’ultimo vero orgasmo della propria esistenza. Anche se la scarsa capacità attoriale della Belvedere non corre in soccorso di questa declinazione dello sguardo, Graffiante desiderio cerca di inseguire una simile suggestione fin dalle sue primissime sequenze, quando Luigi e Sonia assistono, in un piccolo cimitero napoletano, alla traslazione dei resti dello scheletro della nonna. La ragazza, per niente scossa dalla situazione, afferma a proposito del cadavere: «non è il primo che vedo», suggerendo già non solo la propria inclinazione al macabro e al cadaverico, ma anche la perdita di una verginità. Martino sceglie di lasciare quasi tutta la violenza nel fuori campo, nel racconto orale, mentre il sesso occupa con maggiore frequenza lo schermo: una scelta non casuale, senza dubbio, ma che squilibra in modo netto il rapporto tra eros e tanathos, privando il film di un occhio pulsionale, costringendolo a rimanere freddo come le spiagge invernali della riviera romagnola.

Più ambizioso, sotto questo punto di vista, il gioco tra delitto e desiderio sessuale che si esplica nell’immediatamente precedente Spiando Marina (1992): mentre il bounty killer Mark, che si trova a Buenos Aires per uccidere un boss della malavita, sta preparando le armi nella casa che gli è stata affittata, dall’appartamento accanto giungono grida e rumori di un amplesso sadomaso. La preparazione all’atto omicida si scontra in maniera palese con il gioco erotico e le sue regole: la violenza è il punto di contatto tra i due atti che il registro di Martino assume come paritari, allo stesso modo mortiferi. Se da un lato la violenza ha un suo “ordine” (Mark lavora uccidendo le persone, per lui dunque l’omicidio è un contratto), dall’altro la passione scardina questo equilibrio, giungendo però al medesimo risultato. Nelle opere tarde di Martino a venire meno è lo sguardo desiderante del regista: la morte e l’eros trovano spazio sullo schermo seguendo coordinate precise, ma tenute a distanza dall’occhio della camera. La partecipazione è minima. A mancare, a ben vedere, sono sia il desiderio che l’atto di spiare, pur rivendicati nei titoli scelti che, nell’esperienza cinefila, mirano a riallacciare questi film alle vestigia di un passato non troppo lontano.

Confrontando queste pellicole con la sequenza onirica che irrompe dopo i titoli di testa di Tutti i colori del buio (1972), è possibile accorgersi subito dell’enorme distanza che separa queste opere: l’incubo femminicida immerso nell’oscurità, che gioca con alcuni stilemi surrealisti, è prodotto dall’occhio desiderante di Martino. Lì si trova il punto d’incontro tra frenesia del delitto, sovraeccitazione erotica e “necessità di guardare”, di assistere attraverso l’occhio meccanico a umori ridotti a istinto immateriale, ma non per questo privo di una propria rapacità. Poco importa che la sequenza di Tutti i colori del buio sia ricondotta all’interno della logica della narrazione e disveli allo spettatore le ansie nascoste nella mente della protagonista Edwige Fenech: il senso di quei due minuti è nell’incastro tra azione e osservazione, tra movimento agito (l’omicidio, l’amplesso) e percepito (lo sguardo della camera, ovviamente, ma anche quello di chiunque non partecipi all’atto, ma lo “spii”). Il visionario non può rifuggire la violenza dello sguardo come desiderio inappagato di possessione: così accade, ad esempio, nella sequenza del sabba/orgia a cui Jane è condotta dalla sorella Barbara che cerca in questo modo di aiutarla. Attraverso la funzione collettiva e orgiastica, non priva di riferimenti al demoniaco e alla sopraffazione dell’uomo sulla donna – il riferimento alla sequenza dell’incubo, che si dimostrerà realtà, di Rosemary’s Baby. Nastro rosso a New York di Roman Polanski (1968) è fin troppo evidente – si tenta di trovare appagamento contemporaneamente per il desiderio sessuale e la pulsione omicida, ma anche per lo sguardo della macchina da presa… Libera finalmente di muoversi e di guardare, così come Jane vede liberato il proprio corpo dall’oppressione della memoria e, con esso, anche la propria libido omicida (o quasi).

L’apice della frenesia, di corpi e sguardo, e dell’attività scopica come scoperta tanto del sesso quanto della morte violenta, si rintraccia forse in I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973), ambientato nella Perugia cosmopolita dell’Università per stranieri – quella che oltre trent’anni più tardi assurgerà all’onore delle cronache per il delitto di Meredith Kercher. A partire dal primo omicidio in automobile, con la coppietta che sta facendo l’amore, fino alla lunga sequenza della mattanza nella villa in campagna, Martino gioca in continuazione sulla frenesia, quella giovanile di corpi alla ricerca di una propria liberazione e quella castrante e omicida di un serial killer che deve smembrare quegli stessi corpi. La macchina da presa e l’occhio della protagonista rimangono entrambi soggiogati, terrorizzati e allo stesso tempo affascinati, da questa pulsione, dalla furia, dal superamento di ogni ostacolo (il sesso e l’omicidio come tabù di una società ordinata, ma per questo in parte anche repressa). Jane/Suzy Kendall, nello scorgere i cadaveri delle sue amiche trascinati di stanza in stanza da qualcuno che non è visibile, è spaventata ma non sa trattenere lo sguardo, non sa fare a meno di continuare a fissare da dietro la porta, come una bambina di fronte a una scena primaria. Anche Floriana, di nuovo affidata alle cure della Fenech in Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave (1972), osserva l’omicidio dello zio per mano della consorte: la sua partecipazione è però attiva e ancor più sadica dell’atto stesso. Sadico è anche un film in cui lo sguardo si fa assai più brutale del solito, in cui ogni personaggio appaga il proprio desiderio solo attraverso l’eliminazione dell’altro, in cui l’orgasmo è il primo vagito di un istinto all’omicidio che è “utile” – tutti possono trarre profitto dalla morte di un parente o di un testimone – ma soprattutto lubrico e lussurioso.

Per concludere torniamo dove tutto prende l’abbrivio. Lo strano vizio della signora Wardh (1971) è il titolo cardine, non solo della filmografia di Martino dedita al giallo e all’orrore, ma anche e soprattutto della riflessione del regista sull’occhio come partecipante (da fuori) a un’orgia che ha i tratti distintivi dell’appagamento sessuale e del furore belluino del delitto. Così emblematico sotto questo punto di vista da non aver neanche più motivo di essere davvero analizzato o, per utilizzare un verbo forse più adeguato, vivisezionato. Basterebbe la citazione da Sigmund Freud posta all’inizio del film: «Il fatto stesso che il comandamento ci dica: “Non ammazzare” ci rende consapevoli e certi che noi discendiamo da una interrotta catena di generazioni di assassini, il cui amore per uccidere era nel loro sangue come, forse, è anche nel nostro». Amore per uccidere. E guardare, sognando e temendo di essere noi stessi protagonisti dell’una e dell’altra azione…

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