La casa dei 1000 corpi. Il male e l’archivio

Marco Chiani
Rob Zombie n. 1/2015
La casa dei 1000 corpi. Il male e l’archivio

All’inizio c’è un’ossessione. Forse una mania, non della stessa tipologia di quelle che hanno reso Albert Fish o Ed Gein due mostri tanto abietti da finire nel museo di assassini e malati di mente di Capitan Spaulding, ma comunque legata alla sfera della compulsione. Se non è, di certo, la capacità di creare una nuova tessitura narrativa che manca a Rob Zombie – così interno all’orrore da essere noto con uno pseudonimo-passepartout – l’aspetto globale di La casa dei 100 corpi rimanda all’assillo conclamato di molti artisti che all’invenzione sottomettono lo studio e la catalogazione di ciò che è stato: collezionare, raccogliere, riunire, conservare forse, certamente archiviare. Che il “mal d’archivio” teorizzato da Jacques Derrida(1) abbia a che fare con questo lavoro tutto esteso al mantenimento di una memoria, diretto contro l’oblio di un intero scenario? Del resto, siamo davvero alle prese con un film-casa, con una pellicola-contenitore, omaggio deferente eppure iconoclasta a un orrore profondo che parte dalla provincia americana, attraversa l’antropologia (e l’antropofagia), la sociologia, l’arredamento e addirittura l’oggettistica per arrivare fino al porto franco del cinema, adocchiato in molteplici latitudini di senso. Esteriormente, non si fa altro che attuare un lisergico mix in cui scampoli di confessioni con sguardo in macchina, schegge di film, sequenze in negativo, found footage, split screen e falsi programmi televisivi si mescolano a una realtà cinematografica da subito rimandante ad altro. Interiormente, invece, si lavora alla salvaguardia di un genere preciso ancor più cortocircuitato dalla scelta di ambientare la storia a partire dalla notte di Halloween del 1977 quando, in certo modo, quello stesso mood aveva già avuto il suo più fecondo sviluppo e, tutto sommato, si avviava alla normalizzazione degli anni Ottanta. A ben vedere, la separazione tra un prima e un dopo, tra gli anni Settanta del racconto e il 2003 dell’uscita del film nelle sale americane, risulta quantomai inconsistente. Da una parte, per quell’aspetto globale segnato da un’innegabile atemporalità: i costumi dei ragazzi, le acconciature, gli atteggiamenti sono più che “neutri”. Dall’altra, per un eccesso della messa in scena che costituisce la qualità che più contraddistingue l’opera: una diffusa mascheratura sospende il giogo del riferimento temporale, aprendo allo spettacolo del passato, alla sua incidenza nel presente. In definitiva, al cinema come strumento in grado di archiviare se stesso e, allo stesso modo, l’ambiente che lo ha generato, come in una splendida vertigine. Esordio di eccessi, impreciso, anche irritante per questo suo continuo rimandare ad altro, La casa dei 1000 corpi racconta annotando, crea mescolando le carte in tavola, con un distacco critico (e di testa) ben distante da quella passione fanzinara (e di pancia) fin troppo sbandierata dallo stesso regista come primus movens. Che voglia essere un film pop, tutto di ostentazione, costruito con una petulanza bordeggiante (una nuova serie B, non di rado, da puzza sotto al naso) non distoglie, infatti, dall’essenza di un’operazione archivistica seria, portata avanti come un pareggiamento di conti con il proprio immaginario, laddove il successivo La casa del diavolo apparirà come la prima vera mossa verso un cinema più personale e innovativo pur nel solco di un confronto con certo western nichilista che da Sam Peckinpah arriva a Monte Hellman. Proprio questa caratteristica di derivazione condizionata iscrive La casa dei 1000 corpi in una prospettiva dove il “frammento” porta sempre con sé la manifestazione di un altro cinema, uguale e diversissimo, un dato di senso in grado di cancellare ogni distanza: ci si riferisca a Karen Black o Sid Haig, a livello di memoria di ruoli attoriali, oppure al tema della devianza familiare, presente negli hooperiani Non aprite quella porta (1974) o Il tunnel dell’orrore (1981), il gioco non è tanto diverso da quello che provano a ingaggiare Bill, Jerry, May e Denise una volta entrati nella stazione di servizio di Capitan Spaulding. Dopotutto la Guida alle attrazioni particolari dell’America rurale a cui stanno lavorando non fa altro che coincidere con l’architettura portata avanti, a livello di scrittura, fin da un incipit che decifra in un attimo le capacità registiche non comuni di Zombie. Gradualmente generate da una sfocatura in bianco e nero, le prime immagini scorrono sotto tre parole sovrimpresse – Terrors! Thrills! Horrors! – che aprono su un laboratorio di cartapesta. Si tratta del set del Creature Feature Show, un programma televisivo per adolescenti in cui il Dr. Wolfenstein, attendibilissimo mad doctor, introduce una maratona di film in occasione di Halloween. A conclusione della presentazione, parte immediatamente lo spot della stazione di servizio di Capitan Spaulding: saranno le indicazioni stradali che scorrono sulle immagini a rendere il tutto più “vero”, ma un autentico senso di disagio comincia a farsi strada nello spettatore. Alla terna di parole-concetti del primo filmato, il clown dal grilletto facile che è, inoltre, un ottimo imprenditore di se stesso ne affianca un’altra, quasi a voler specificare che non si sta affatto scherzando: Blood! Violence! Freaks!. Difficile negare che il personaggio interpretato da Sid Haig sia la prima grande icona horror degli anni Zero, un malato di mente purissimo celato dietro a un’ironia sghignazzante e raggelante, ancora una volta iscritta nel culto del cinema, a partire da quel nome mutuato dal Groucho Marx di Animal Crackers. Villain in salsa western, Capitan Spaulding ha impresso l’amore e l’odio sulle dita come il Mitchum di La morte corre sul fiume (1955) e afferma di aver iniziato a gestire la sua stazione di servizio «Subito dopo che il Duca ha vinto l’Oscar»; presso il suo locale, puoi rifornirti di benzina, comprare cianfrusaglie e visitare il Tunnel degli assassini senza dimenticare di mangiare una coscia di pollo fritto, specialità della casa. In breve, un riferimento obbligato per il cinema di genere del futuro. Proprio lo scarto tra il “finto” Dr. Wolfenstein e il “vero” Capitan Spaulding accende un palpabile fastidio in chi guarda, perché in grado di aprire un passaggio credibile verso una provincia americana tanto arretrata da essere del tutto fuori dal tempo, una terra di nessuno in cui sembra lecito aspettarsi luoghi così incredibili. In questo senso, la stazione di servizio di Capitan Spaulding passa per l’anticamera perfetta di un viaggio nettamente diviso in tre tappe – le successive sono casa Firefly e il sepolcro sotterraneo del Dottor Satana – in cui sono nascosti altrettanti livelli di indagine sul male. Dopo Il museo del Capitano Spaulding: mostri e malati di mente – versione macabra e demente di una Wunderkammer, capace di incorniciare come in uno specchio l’identità stessa di questo film-archivio – si arriva al nodo del discorso: la famiglia come fonte di ogni abominio. Come se l’arretratezza e la distanza dall’urbanità generassero automaticamente orrore, qui Zombie tira a lucido uno sfavillante horror casalingo che da Tobe Hooper o, perché no, dal sempre troppo dimenticato Nero criminale. Le belve sono fra noi (1974) di Pete Walker (singolarmente coevo di Non aprite quella porta) ingloba un’attenzione morbosa per il fatto di cronaca, per la notazione reale, per una continua indecidibilità tra riferimenti alle storie più malate d’America e loro messe in scena (si pensi anche ai disturbanti titoli di testa con ispezioni dentali, tavoli operatori, balletti e altre amenità). Non è certo difficile capire quanto il concetto di spettacolo, inteso nella sua consonanza etimologica con l’atto del “guardare”, sia alla base della concezione artistica di un regista che è prima di ogni cosa un personaggio. Ma tutto a casa Firefly ha davvero il segno di una mascherata che serba come ultimo numero la morte. L’osceno siparietto di nonno Hugo, I Wanna Be Loved by You cantata da Baby, quei travestimenti imposti a tavola e che troveranno la più atroce delle evoluzioni nella sequenza in cui Otis indosserà la pelle del padre della futura eroina, ancora il personaggio di Bill trasformato in un uomo-sirena, opera d’arte e morte da gabinetto delle curiosità, aprono alla terza tappa di un viaggio verso l’interno della terra dove lo spettacolo del male si farà totale. Con un’innegabile attenzione verso il cinema di Dario Argento, si pensi agli assimilabili finali di Suspiria (1977) e Phenomena (1985), Denise, l’unica superstite in un mondo di nerd e viziatelle finiti malissimo, accede ai piani inferiori fino a un labirintico monumento funebre, colmo di liquami e vittime ridotte allo stato bestiale, in cui continuano immondi esperimenti chirurgici atti a creare una razza di superuomini. «Bury me in a nameless grave» ripete la voce di Aleister Crowley, rallentata dal suono di un mangianastri calato nel covo insieme all’eroina: è un’anabasi allucinante, un terzo atto in cui avviene il contatto con il mostro per eccellenza, quel Dottor Satana che ha spinto i quattro ragazzi a dare inizio a una storia già raccontata. Come lo spettatore ateniese conosceva il mito, differentemente da Edipo, costretto ad aggirarsi sul palcoscenico fino al riconoscimento, l’incontro tra Denise e il Dottor Satana è atteso da quando Capitan Spaulding ha disegnato la cartina per raggiungere l’albero in cui sarebbe stato impiccato il folle chirurgo: è proprio qui che Zombie apre un sipario in cui il male esclude ogni altra cosa, moltiplicando la posta in gioco, trasformando l’iniziale Tunnel degli assassini e il conseguente freak show casalingo dei Firefly in una rappresentazione assoluta della morte, da trionfo medievale, come sottolineato dalla processione al chiaro di luna in cui Otis ha in nuce i tratti di tutti i Signori di Salem a venire.

Cast & Credits

Titolo originale: House of 1000 Corpses; regia: Rob Zombie; sceneggiatura: Rob Zombie; fotografia: Alex Poppas, Tom Richmond; scenografia: Gregg Gibbs; montaggio: Kathryn Himoff, Robert K. Lambert, Sean K. Lambert; musiche: Scott Humphrey, Rob Zombie; interpreti: Sid Haig (Captain Spaulding), William Bassett (Frank Huston), Karen Black (Mamma Firefly), Bill Moseley (Otis Firefly), Robert Allen Mukes (Rufus Firefly), Sheri Moon Zombie (Baby Firefly), Matthew McGrory (Tiny Firefly), Erin Daniels (Denise Willis), Joe Dobbs III (Gerry Ober), Dennis Fimple (nonno Hugo), Gregg Gibbs (Dr. Wolfenstein), Walton Goggins (Steve Nash), Chris Hardwick (Jerry Goldsmith), Walter Phelan (Dr. Satana); origine: Usa, 2003; durata: 89’/105’ (director’s cut); home video: dvd Eagle Pictures; colonna sonora: House of 1000 Corpses, Interscope Records.

 

Note

1 Derrida Jacques, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, 1996.

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