«Cosa vedi quando mi guardi?» Dischi e performance live di un metallaro consapevole

Filippo Mazzarella
Rob Zombie n. 1/2015
«Cosa vedi quando mi guardi?»  Dischi e performance live di un metallaro consapevole

1985: il ventenne aspirante fumettaro Robert Bartleh Cummings adotta il nome d’arte di Rob “Dirt” Straker e fonda con la fidanzata Sean Yseult, all’epoca tastierista in un’altra college band, un gruppo che mutua il suo monicker da un film omonimo del 1932 di Victor Halperin con Bela Lugosi, noto da noi come L’isola degli zombies. Rob è già un puro frontman e non suona alcuno strumento; Sean chiede all’amico Ena Kostabi di insegnarle a suonare il basso, questi esaudisce il suo desiderio e, contemporaneamente, si offre come chitarrista. Con l’arrivo del batterista Peter Landau la formazione si completa e i White Zombie presentano al mondo (meglio, a qualche cittadino del mondo: la tiratura è di 300 copie, di cui 200 restano invendute) il frutto della loro intuizione: l’extended play autoprodotto Gods on Voodoo Moon, su etichetta Silent Explosion. Quattro tracce che leggenda vuole siano state incise in un’unica session di quattro ore con il “buona la prima” a ogni brano. Siamo in zona noise/psych/alt-rock, con spirito punk che incespica casualmente nel metal (sono gli anni dell’apoteosi del thrash) e con l’horror come focus dei testi (un brano s’intitola Tales from the Scarecrowman). Il disco si apre con un pezzo, Gentleman Junkie, che ascoltato oggi mette i brividi per la sua pochezza, come del resto gli altri tre che vanno a completare l’opera. La sezione ritmica è scaciata, il riff è quasi new wave, vagamente metallizzato, ma la voce di Rob raglia da subito: «What do you see when you look at me? I know what I see when I look at you! What do you see when you close your eyes? Can you open your head and step inside?»(1). Sembra niente, ma è tutto. Quasi un manifesto mentale. L’insuccesso di vendite è messo in conto, ma il progetto continua. C’è un turn over continuo e inspiegabile di chitarristi, ovviamente destinato a rendere discontinuo il sound a dispetto della ferrea impostazione dell’immaginario-base, che maciulla e risputa in versione anarco/white trash tutta l’iconografia horror cinematografica dai fratelli Lumière in poi. Nell’aprile del 1986, i White Zombie esordiscono dal vivo al CBGB di New York, con un set scenograficamente scarno in cui a spiccare è soltanto l’aspetto “oltraggioso” dei membri del gruppo: zozzi, tatuati, (apparentemente) feroci. Rob non è ancora l’incrocio (copyright Claudio Sorge) tra un biker incattivito e il wookiee Chewbecca di Guerre Stellari (1977), ma poco ci manca. Nel maggio di quell’anno, un 7” con Pig Heaven e Slaughter the Grey ribadisce le istanze del primo disco, ma con i nuovi acquisti Tim Jeffs (chitarra) e Ivan De Prume (batteria) qualcosa migliora sul piano dell’esecuzione. Mentre le performance dal vivo continuano e la band conquista un piccolo seguito di aficionado, un nuovo mini-LP (Psycho-Head Blowout, 1987) vede l’ingresso alla chitarra di Tom Guay e sposta l’asse verso meccaniche più sludge e noise: oltre all’inevitabile influenza dei depravati Pussy Galore, per cui Rob e i suoi fungono spesso da opener, si respira un’aria satura di Black Flag mal digeriti con qualche prodromo di grunge (Kurt Cobain dichiarerà infatti qualche anno dopo di considerare questo disco il migliore dei WZ), ma aguzzando le orecchie è possibile cogliere in nuce anche qualcosa del mostro che il gruppo sarebbe diventato nel volgere di un lustro. L’esordio “lungo” vero e proprio esce alla fine del 1987: si intitola Soul Crusher, è l’ultimo pubblicato sulla loro etichetta personale e, per una volta, conferma alla chitarra lo stesso player del precedente. Il Tom Five dei credits è infatti ancora Guay e i 10 brani (con titoli clamorosi come Ratmouth, Scumkill, Diamond Ass e la mostruosa Die, zombie, die) spingono verso il punto di non ritorno tutto ciò che la band ha registrato in precedenza. In questa occasione, però, ad armonizzare (relativamente) la materia subentra per la prima volta un produttore/ingegnere del suono: è Wharton Tiers, vecchia lenza dell’avanguardia no wave newyorkese e noto sia per essere stato in grado di organizzare la cacofonia dei citati Pussy Galore, sia per avere plasmato il noise dei Sonic Youth di Confusion Is Sex (1983). E sempre per la prima volta, malgrado la tecnica abbastanza approssimativa dei musicisti, il filtro creativo esterno fa emergere in tutto il suo (marcio) splendore le potenzialità sino ad allora sepolte sotto l’attitudine cazzara e il pressapochismo. Fanno il loro debutto, nel muro di noise dai testi deliranti e scarsamente intellegibili, anche i tipici campionamenti da oscuri videotape di cinema di genere (destinati poi ad assurgere a componente fondante del secondo corso sonoro del gruppo), mentre Straker riesce finalmente a materializzare tra i solchi la sua attitudine/fisicità sul palco. Soul Crusher è il disco con cui anche i critici delle più oscure fanzine devono piegarsi all’agnizione White Zombie: nelle recensioni dell’epoca, marchiate dalla più tipica ansia di riconduzione dell’ignoto al noto, i paragoni si sprecano in un florilegio di citazioni che va dai Flipper ai Butthole Surfers, dai Black Flag ai Birthday Party, da Captain Beefheart ai Cramps (questi ultimi chiaramente più in virtù dell’evocatività da b-movie su cui, perseguendo altre estetiche, Lux Interior e Poison Ivy avevano già fondato buona parte del loro mito), ma nessuno riesce a enunciare la formula specifica di quel suono. Buon segno. L’album, infatti, attira l’attenzione della Caroline Records, che negli anni Settanta era una sussidiaria della Virgin di Richard Branson dedita a edizioni di jazz e prog ma, proprio a fine 1987, muove i suoi primi passi alternative (finirà per mettere sotto contratto, tra gli altri, artisti difficilmente incasellabili come Bad Brains, Primus, Samhain e Warzone, per poi fare il botto con gli Smashing Pumpkins). I White Zombie firmano per l’etichetta, iniziano a lavorare con l’ennesimo nuovo chitarrista (John Ricci), entrano in studio nientepopodimeno che con Bill Laswell su suggerimento di Iggy Pop (!) e sfornano un nuovo LP, Make Them Die Slowly (titolo con cui è stato distribuito negli Usa il sempiterno Cannibal Ferox [1981] di Umberto Lenzi), che è anche quello in cui Rob “Dirt” Straker diventa definitivamente, nelle note e per l’universo mondo, Rob Zombie e basta. Le session sono molto travagliate, il disco viene reinciso da cima a fondo per quattro volte e tra il gruppo e il troppo arty Laswell (malgrado due anni prima avesse realizzato quella meraviglia di Orgasmatron dei Motörhead) non scatta la scintilla (la Yseult lo definirà, nel 2010, «un borioso sacco di merda»). Nonostante overdubs e missaggio vengano affidati a un’altra testa di serie come Martin Bisi, genio del rumore applicato al rock, al gruppo il suono del disco non piace. Tuttavia, per questa release, pure la stampa ufficiale inizia a drizzare le orecchie: potenza del nome del produttore, sinonimo anche di tutta un’intellettualanza musicale semi-snob che con i White Zombie c’entra poco meno che nulla. E l’album, checché ne pensino i titolari, è effettivamente il loro punto più alto fino a quel momento. Conscio o meno che ne sia (ma lo è), Zombie capisce che un passo successivo in direzione noise sarebbe letale per sé e per il gruppo: orchestra dunque una sorta di sua rilettura acidificata del thrash metal (il riffage e gli assoli del pezzo d’apertura Demonspeed parlano chiaro), articolando meglio i brani (che in qualche misura diventano vere canzoni), rallentando la frenesia cacofonica e occhieggiando palesemente a un mainstream di cui sente finalmente di poter aspirare a fare parte. Direzione inevitabile, per una band che non ha mai avuto altro scopo se non divertirsi a suo modo e non ha mai manifestato quegli istinti estremi di protesta in musica che caratterizzavano il nascente movimento del grind o le discutibili tensioni ideologiche di controversi campioni come gli Slayer (da cui Zombie si è comunque sempre dichiarato ispirato). Prova ne sia il 12” successivo (inutile dirlo: con un nuovo chitarrista, il risolutivo Jay Yuenger detto J), sempre su Caroline, in cui uno scintillante vinile verde trasparente racchiude sulla facciata A la prima cover del gruppo – che per la sorpresa di tutti è nientemeno che un brano dei Kiss, God of Thunder – e sulla B due brani ancora più sputtanatamente commerciali come Love Razor (un hard cazzaro quasi glam sui generis, aperto da campionamenti di gemiti porno) e Disaster Blaster II (versione di un brano cardine di Make Them Die Slowly, ma registrata come volevano loro: al lettore il raffronto). Tutto è pronto per la trasformazione finale, anche perché nel frattempo la posa live dei White Zombie diventa più ricercata, spettacolare e perversamente pop (sulla batteria che usano in concerto è impresso un faccione demenzial/demoniaco, mentre ai piedi del palco sovente campeggia una sagoma in cui sono intagliate le parole LIVING DEAD). È proprio durante un gig al mitico Pyramid Club di New York che il talent scout della Geffen Michael Alago (che aveva già inarcato un sopracciglio dopo averli ascoltati alle prese con il classicone di Stanley e Simmons) li strappa per un soffio alla RCA, dove stavano tentando di accasarsi. Con i Ministry di Al Jourgensen – e la loro declinazione potabile dell’industrial applicata al metal fatalmente sulla bocca (e sui piatti) di mezzo mondo – Rob mangia la foglia, trova in J la vera sponda creativa che gli era mancata fino a quel momento, capisce la direzione definitiva da dare al gruppo e chiede a un altro illustre esponente della (quasi) medesima scena, Jim “Foetus” Thirlwell, di produrgli un demo da portare alla Geffen. È fatta. La Sexorcisto: Devil Music Vol. 1 richiede più tempo del solito per la messa a punto (anche perché l’investimento di una major sul talento di Zombie induce inevitabilmente non solo a ricalibrare la proposta musicale, ma anche a ripensare su scala mainstream sia il look della band sia le sue modalità di esibizione pubblica, nonché a realizzare per la prima volta videoclip), ed esce nel 1992. Pompati anche dai cartoon di Beavis & Butt-Head, all’epoca popolarissimi su MTV, i White Zombie invadono l’immaginario dei teenager americani e (un po’ come i Pantera con il loro Vulgar Display Of Power, di quello stesso anno) fanno ipocrita tabula rasa del loro passato artistico. In piena era crossover, La Sexorcisto marca uno scarto così netto con tutto quanto realizzato in precedenza che Rob & Co. ne parlano ovunque come del primo vero disco dei White Zombie. E si capisce: le chitarre diventano insostenibilmente groovy, i riff sembrano scientificamente costruiti per provocare moti di headbanging anche nei calvi, i campionamenti trash non si contano, gli ammiccamenti alla dance (!) nemmeno (la celeberrima Thunderkiss ‘65 gira stabilmente nei club dei dj più avanzati del pianeta), le citazioni cinematografiche (segnatamente anche nei tre video tratti dall’album) imperversano nei brani alla stregua di un quinto componente, e inizia a fare capolino anche una parvenza di melodia. Qualunque altro gruppo con una minima reputazione, dopo una simile sterzata commerciale, sarebbe stato sepolto di insulti dai fan e massacrato dalla critica. Loro, no. Anzi. Il tour a seguito dell’album (di devastante impatto istrionico/horror) li porta al sold out sui palchi di mezzo mondo per due anni e mezzo ininterrotti fino a dicembre 1994 (la defezione di turno stavolta tocca al batterista Ivan De Prume, che abbandona dopo l’uscita dell’album: dal vivo il suo posto viene preso da Phil Buerstatte, poi licenziato a fine tour e sostituito in studio da John Tempesta) e il disco finisce dritto nelle playlist consuntive dei più eccellenti magazine, di settore e non. Ma a fine 1994 termina anche ufficialmente (in realtà era già finito ben prima, con l’arrivo sul palco e nella vita privata di Sheri Moon, amante/musa di Rob poi sposata la notte di Halloween del 2002) il sodalizio privato tra Zombie e Sean Yseult, proprio mentre dovrebbero iniziare le registrazioni del follow-up all’album, nel frattempo certificato disco di platino quando ancora le vendite dei dischi significavano qualcosa. La situazione critica non impedisce la realizzazione di Astro Creep: 2000 (1995), anche se la biografia della Yseult conferma che, durante le session, l’atmosfera è così tesa da rendere necessari parecchi intermediari tra Zombie e il resto del gruppo(2). L’album è una sorta di clone del precedente (a cui nulla toglie e nulla aggiunge, se non un’ancora più marcata sensazione di deriva pop e di macchina acchiappasoldi e allargaconsenso) e, malgrado si respiri inevitabile aria di sbaraccamento, è comunque un prodotto compatto e godibile che contiene il brano in assoluto più noto del gruppo: More Human than Human, il cui video è anche il primo di cui Zombie firma da solo la regia dando sfogo a quella che diventerà ben più di una seconda attività. Al disco segue un altro tour, ancor più grafico, in cui Zombie porta all’esasperazione le sue passioni fumettofile e cinefile. Ma non ci sarà un’altra pubblicazione originale a nome White Zombie (il cofanetto quintuplo del 2008 Let Sleeping Corpses Lie contiene tutto quanto hanno registrato dal 1985 al 1996, ma nessun inedito) se non l’estemporaneo, imbarazzante e probabilmente “contrattuale” Supersexy Swingin’ Sound (1996), ovvero Astro-Creep: 2000 (quasi) interamente remixato in ottica dance/industrial, con l’aggiunta finale di una cover scratchata e infernalmente sibilata di I’m Your Boogie Man (vecchia hit disco di KC and the Sunshine Band): in molti continuano a trovarla divertente, ma a chi scrive è sempre parsa pura spazzatura. Dopo l’inevitabile scioglimento del gruppo, ufficializzato nel 1998, Zombie mantiene la firma in Geffen e, sempre in quell’anno, inizia con vecchi e nuovi compari la carriera come solista con Hellbilly Deluxe, in cui confluisce gran parte dei pezzi composti per il mai uscito terzo disco della band primigenia. In molti plaudono, ancora, ma il giocattolo si è rotto: se il singolo Dragula (che compare, remixato, anche in Matrix [1999]) è un successo, tutto quanto segue non è che una pallida, stanca e probabilmente opportunistica coazione a ripetere il passato. Lo Zombie “uomo solo al comando” non mette più freni all’autoreferenzialità e trasforma definitivamente se stesso (vedere copertine, videoclip e riprese live: su YouTube se ne trovano a decine) in una sorta di parodistico fantoccio splatter il cui gradiente di eversione è drasticamente sceso al livello di quello di Winnie the Pooh. Il disco successivo, The Sinister Urge (2001: stavolta il titolo viene da un film di Ed Wood), non fa che confermare il suo declino musicale, che corre in parallelo alla formidabile ascesa come filmmaker. Passano infatti cinque anni (e due film fortunatamente mirabili: La casa dei 1000 corpi e La casa del diavolo) prima che esca il disco (Educated Horses, 2006) a seguito del quale anche alla Geffen ritengono saggio non proseguire oltre nel foraggiarlo. Infatti Hellbilly Deluxe 2 (2008), oltre a latitare di fantasia a partire dal titolo, esce per una label di vecchi pestoni come la Roadrunner, mentre il successivo Venomous Rat Regeneration Vendor (2013) – barzelletta realizzata con ex membri dei Marilyn Manson e che si apre con la deprimente goliardia di Teenage Nosferatu Pussy – è distribuito da una nuova etichetta (Zodiac Swan Records) da lui stesso fondata. Se il declino prettamente musicale di Zombie è inconfutabile almeno quanto la sua inarrestabile affermazione come regista cinematografico, culminata con un autentico capolavoro come Le streghe di Salem, assistere a una sua esibizione live vale tuttavia ancora il prezzo del biglietto: indipendentemente dalla proposta musicale (o forse proprio in virtù della sua intrinseca limitatezza attuale), i suoi act dal vivo sono oggi ancora più complessi e spettacolari di quanto non lo fossero ai tempi dei White Zombie. Ne è testimonianza un film uscito in home video nel 2014 (The Zombie Horror Picture Show) per documentare il tour legato al suo ultimo album: oltre ai fantasiosi costumi di scena e al face-painting della band (qualcosa a metà tra il black metal e gli Slipknot), lui si presenta con gli ormai secolari dreadlocks, aria sciamanica, molteplici travestimenti (si prodiga anche in una parodia dello zio Sam con tanto di Star Spangled Banner distorta in sottofondo, intrisa più di arteriosclerosi che di buffoneria da serie B) e il solito pesantissimo trucco da non-morto, e si agita per un’ora e mezza su un immenso palco che ospita un’altrettanto imponente scenografia da set cinematografico, tra chitarre luminescenti e un maxischermo che rimanda spezzoni di cinema di genere (da Murnau ai suoi stessi film). Il titolo del dvd è sufficientemente eloquente, sul liminare della didascalia: tutto ciò che è stata la dimensione dal vivo di Zombie, dagli scarni esordi nei club ai faraonici allestimenti di quando capeggiava una tra le più popolari band del pianeta, è racchiuso oggi nel suo gig definitivo. In un abbraccio che sembra lungo quanto la sua intera vita, da sempre costantemente in equilibrio tra il sublime e il ridicolo.

Note

1 «Cosa vedi quando mi guardi? Io so cosa vedo quando ti guardo! Cosa vedi quando chiudi gli occhi? Puoi aprirti la testa ed entrarci?» (tdr).

2 Yseult Sean, I’m In the Band: Backstage Notes from the Chick in White Zombie, Soft Skull Press, Berkeley, California 2010.

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