Le streghe di Salem. La metafisica dell’orrore

Andrea Fontana
Rob Zombie Reloaded n. 8/2019
Le streghe di Salem. La metafisica dell’orrore

Nel peculiare percorso artistico di Rob Zombie, Le streghe di Salem rappresenta l’opera della maturità, le cui basi erano già state poste con vigore in La casa del diavolo. Ma Le streghe di Salem è anche un chiaro manifesto d’intenti nonché l’ennesimo, personale tributo dell’autore al cinema tout court. La storia narra di Heidi, giovane deejay che lavora di notte con altri due colleghi. Un giorno riceve in regalo un vinile misterioso che, trasmesso in radio, risveglia in lei qualcosa di ancestrale, un incubo legato al suo passato, al presente e certamente al futuro. Una setta satanica sta tentando di far nascere l’Anticristo e Heidi si ritrova, suo malgrado, al centro del rituale, in quanto discendente di colui che, secoli addietro, bruciò vive le streghe autrici di questo atto estremo. L’horror di Zombie si allontana da quello dei padri classici Carpenter, Romero e Cronenberg, i quali avevano fondato la propria esplorazione orrorifica sul corpo. La sua mutazione, che era anche una mutazione sociale, filosofica, politica, rappresentava il concetto fondante su cui si annidava l’analisi dei tre registi, i quali hanno poi compiuto percorsi coerenti, ma al tempo stesso variegati. Un po’ come Zombie, anche Cronenberg e Carpenter hanno sperimentato un horror metafisico partendo dalla carne, dalla sua trasformazione, dalla sua disgregazione. Anche Zombie, nella sua evoluzione artistica, parte da qui (La casa dei 1000 corpi) per poi trascendere il body horror e raggiungere necessariamente una forma più personale, contemporanea, transeunte. Il suo horror, con il tempo, si è trasformato in un discorso teorico. Metacinematografico, certo, ma anche e soprattutto astratto. Un horror decisamente metafisico, di cui Le streghe di Salem è il manifesto più esplicito. «L’horror affronta problematiche che attengono anzitutto alla forma ambigua e transeunte dell’immagine cinematografica. Il corpo mutante e l’auto-identificazione del soggetto che guarda ne sono i due poli d’attrazione principali. Ciò che sta in mezzo è la massa ribollente delle immagini che cercano una forma: l’ignoto, l’estraneo, il mostruoso, l’incongruo, il misterioso»(1). Il cinema dell’orrore di Zombie è totalmente immerso in una logica religiosa, con il suo continuo confrontarsi con la Chiesa e i riti che sono, di fatto, l’essenza stessa di tutte le religioni, monoteistiche e non. Una ritualità che il regista usa per inquadrare il contraltare della Chiesa cattolica, un culto religioso che, pur essendo dissacrante nei confronti del cattolicesimo, fonda la propria essenza sugli stessi, identici riti cristiani. L’Anticristo e il suo culto sono, in effetti, rappresentati come riflessi del cattolicesimo, in una dualità religiosa che è yin e yang, bianco e nero, positivo e negativo: una doppia forma che è sì dicotomica, ma anche complementare. Trattandosi di horror e di horror americano in particolare, tutto fa inconsciamente riferimento a quell’eredità puritana dei padri pellegrini che, nel corso dei decenni, ha attraversato il genere trasformandolo nello strumento ideale di riflessione circa la società statunitense e le sue logiche schizofreniche(2). Per dare corpo al suo approccio metafisico, Zombie guarda indietro, all’origine di tutto. L’origine è alla base dell’intera pellicola: l’origine del cinema, dell’ossessione per lo sguardo, con la luna di Méliès e il suo occhio ferito che campeggia nella camera da letto di Heidi, protagonista di questa favola orrorifica sul male. L’origine della colpa, sorta di eco infinita che si espande nel tempo e nello spazio annullando qualsiasi speranza di libero arbitrio. L’origine del Male, il male eterno che corrompe l’uomo in quanto elemento intrinseco al suo animo, il male che infetta la quotidianità quasi in maniera subdola, in sordina, nel roboante silenzio della banalità e dell’indifferenza generale. Ci sono anche la cultura e l’immaginario degli anni Settanta, che attraversano tutta la filmografia di Zombie come una costante estetica e temporale (in questo caso specifico i fatti non si svolgono negli anni Settanta ma la fotografia, il tipo di grana della pellicola e persino le scelte dei costumi contengono chiari riferimenti). C’è la musica – che ruota attorno al noto pezzo dei Velvet Underground Venus in Furs – e la sua origine misteriosa, da cui tutto parte, da cui l’incubo ha origine e non poteva essere altrimenti, per uno che ha iniziato la sua carriera proprio in ambito musicale, trascinando intenzionalmente tutta la mitologia metal e dark nel suo cinema. È a partire dalla musica che il film spalanca le proprie porte, da quella musica regalata ad Heidi e che, trasmessa dalla radio in cui lavora, genera una sorta di trance/risveglio in coloro che porteranno a compimento la nascita dell’Anticristo. Una volta che la puntina del giradischi tocca il vinile, un brano ripetitivo e ritualistico ha inizio, insieme agli incubi della protagonista. Da un punto di vista strettamente visivo/narratologico, Zombie opta per un incubo senza interruzioni, scelta che costringe lo spettatore a vivere uno stato catatonico di sogno ininterrotto, senza soluzione di continuità. Un’opzione che già attraversava Halloween II, opera minore ma altrettanto interessante. I riferimenti cinematografici di cui si nutre Le streghe di Salem sono molti e fisiologici, per un film che è metacinematografico in senso sottile ma persistente. Il Kubrick di Shining (1980), innanzitutto. E non solo per l’idea scenografica – uno tra gli aspetti più meritori della pellicola – dei corridoi oscuri, avvolti in penombre inquietanti, in cui porte misteriose si aprono spontaneamente lasciando intravedere al loro interno l’orizzonte dell’inferno, o per quadri che cominciano a vomitare sangue, oppure per la scansione temporale. Ma anche per l’idea del Male come essenza trascendente che cavalca l’eternità e contraddistingue i corsi e ricorsi storici dell’uomo. C’è The Wicker Man (1973) per l’iconografia maledetta dell’Anticristo, ma trovano spazio persino il cinema muto e quello hollywoodiano classico, che scorrono incessanti nei televisori accesi. Si intravede persino l’Orson Welles del periodo shakespeariano, soprattutto nelle sequenze del rogo alle streghe, con quelle scenografie volutamente rozze e teatrali. C’è, inutile dirlo, David Lynch: la sua presenza si scorge nelle lente carrellate che rendono il film un’ossessione trasognante, un quadro surrealista dipinto da un folle Hieronymus Bosch contemporaneo. Cos’è, in sostanza, Le streghe di Salem? Un horror? Un film-scandalo? Con ogni probabilità intende porsi come la prima e particolare forma di horror artistico in cui la componente intellettuale funge da collante per una materia così ostica. Da un punto di vista puramente teorico si avvicina per messa in scena e intenzioni autoriali all’Antichrist (2009) di un altro provocatore, Lars von Trier, per questa sua tendenza metafisica, questa sua struttura ondivaga, per il suo porsi come opera-pensiero di un regista che si addentra nei bui anfratti del genere al fine di riflettere sull’uomo, l’esistenza, l’infinito. Oltre a Shining, Le streghe di Salem può essere considerato come un’opera vicina a un altro film intriso della più vibrante visionarietà kubrickiana, 2001: Odissea nello spazio (1968). Il percorso di Heidi è lo stesso di Bowman e, ugualmente, lo spettatore si trova di fronte a un viaggio che, con il passare dei minuti, diventa letteralmente sconfinato, spirituale e certamente trascendente. L’uso della musica classica (tra cui spicca il Requiem di Mozart), la scelta scenografica – che per certi versi ricorda quella di Arancia meccanica (1971) e del citato 2001: Odissea nello spazio, entrambi radicalmente influenzati dall’estetica dell’Art Nouveau – e la volontà di assolutizzare la dimensione percettiva e sensazionale del viaggio di Heidi rendono il film di Zombie quanto di più atipicamente vicino al capolavoro di Kubrick. L’horror, in questo modo, diviene radicalmente metafisico e ci costringe a pensarlo in una maniera differente rispetto a quanto fatto finora. Zombie, che dei registi horror contemporanei è colui che più sta spostando in avanti il limite di riflessione/sperimentazione del genere e del mezzo cinematografico, compie, pur in maniera imperfetta, un’operazione drastica, intellettualmente definitiva. In questo modo Le streghe di Salem diventa il gesto politico più intenso della sua carriera, un gesto che osa dare una prospettiva altra all’orrore del quotidiano.

Andrea Fontana

Cast & Credits

Titolo originale: The Lords of Salem; regia: Rob Zombie; sceneggiatura: Rob Zombie; fotografia: Brandon Trost; scenografia: Jennifer Spence; montaggio: Glenn Garland; musiche: Griffin Boice, John 5; interpreti: Sheri Moon Zombie (Heidi Hawthorne), Bruce Davison (Francis Matthias), Jeff Daniel Phillips (Herman Salvador), Judy Geeson (Lacy Doyle), Meg Foster (Margaret Morgan), Patricia Quinn (Megan), Ken Foree (Herman Jackson), Dee Wallace (Sonny), Andrew Prine (reverendo Jonathan Hawthorne), Sid Haig (Dean Magnus); origine: Usa/Gran Bretagna/Canada, 2012; durata: 101’; home video: dvd e Blu-ray 01 Distribution; colonna sonora: The Lords of Salem, Universal.

Note

1 Esposito Lorenzo, Carpenter, Romero, Cronenberg. Discorso sulla cosa, Editori Riuniti, Roma 2004, p. 27.

2 Per un approfondimento sull’evoluzione dell’elemento religioso nell’horror americano cfr. Curti Roberto, Demoni e dei. Dio, il diavolo, la religione nel cinema horror americano, Lindau, Torino 2009.

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