American Horror Videomusic. Rob Zombie Videomaker

Luca Pacilio
Rob Zombie Reloaded n. 8/2019
American Horror Videomusic. Rob Zombie Videomaker

I music video di Rob Zombie non sono mai semplici strumenti promozionali dei brani musicali. Sono piuttosto complementi creativi molto pensati, costruiti con grande perizia e con caratteristiche ricorsive spiccate, al punto da renderli da subito riconoscibili. Quello dei suoi videoclip è un corpus di straordinaria compattezza, composto da lavori caratterizzati da montaggio frenetico e camera mobilissima, elementi che conducono a un risultato, per quanto sregolato in apparenza, mai gratuitamente caotico. Al contrario, è forte di un’estetica tanto consapevole quanto armoniosa e coerente. Se da un lato, poi, i registri visivi applicati nell’ambito del medesimo clip risultano molteplici, dall’altro il loro utilizzo risponde a uno scopo preciso: evidenziare con chiarezza i vari fili rappresentativi, distinguendo motivi e tracce, performance e narrazioni, concetti e mere figurazioni. Lo si vede fin dal primo video da lui diretto, More Human than Human (1995), uno dei massimi successi del suo gruppo White Zombie: è stupefacente quanto lo stile del regista appaia in questa sede già pienamente espresso, come lo schizofrenico alternarsi di vecchi filmini familiari e immagini performative accelerate venga esaltato dal ritmo del montaggio che li cattura, combinandoli con il sincronizzato movimento dei musicisti. È un debutto folgorante, che vale a Zombie un MTV Award per il miglior Hard Rock Video. Le soluzioni sperimentate nel primo lavoro sono confermate in pieno nel 1995 in Electric Head, Part 2 (The Ecstasy). In esso – mescolando nevroticamente bianco e nero e solarizzazioni, immagini sporche (fotogrammi strisciati e instabili) e squarci di pellicole colorizzate in dettaglio – le polverose strade percorse dalla carovana di un circo di clown e di fenomeni da baraccone (il riferimento è al film di Tod Browning Freaks [1932]) divengono teatro di una performance itinerante del gruppo che va a culminare nello spettacolo finale: un sabba pirotecnico a cui partecipa l’intero carrozzone. Gli fa eco il resoconto dell’esperienza on the road del suo gruppo, Super Charger Heaven (1995), composto per frammenti e immagini rubate con una videocamera: il dietro le quinte del live, i raid tra il pubblico, l’allestimento del palco, l’esibizione concertistica (a Las Vegas e Detroit, con apparizione fulminea di Alice Cooper) sono frullati da un découpage sovraeccitato, certo, ma in piena sintonia con quanto va avvenendo sul piano sonoro. Un’esperienza che Zombie bisserà tre anni più tardi con Demonoid Phenomenon (1998), che testimonia, attraverso riprese in bassa definizione, l’esperienza live solistica, avvicendando lo sguardo privilegiato tra palco e platea infoiata. Rimarchevole è anche I’m Your Boogie Man (1996), ancora per i suoi White Zombie. Anche in questo caso i differenti livelli del clip (quello narrativo e quello dell’esibizione) sono caratterizzati da distinte scelte visive: da un lato il bianco e nero d’antan del backstage di una trasmissione condotta dal fratello del regista, Spider One, nelle vesti di un fantomatico Dr. Spooky, dall’altro la performance con colori acidi e pesanti manomissioni dell’immagine, con scene tratte da Il Corvo 2 (1996), del cui score fa parte questa cover del brano della KC and the Sunshine Band. Tra le canzoni più popolari del Rob Zombie solista, Living Dead Girl diventa nel 1999 un video diretto con la collaborazione di uno dei più eclettici e fantasiosi videomaker di sempre, Joseph Kahn, la cui impronta si ravvisa nella scelta di un tessuto citazionistico alto e smaccatamente cinefilo. Il gabinetto del dottor Caligari (1920) di Robert Wiene, infatti, è la base sulla quale il videoclip costruisce la storia della morta vivente del titolo, presentata come un’attrazione in una fiera di paese. Come l’opera alla quale si ispira, il clip si propone quale film muto con didascalie (che riportano in parte il testo della canzone) in cui l’esuberante scenografia, la perizia nella riproposizione delle soluzioni tecniche dell’epoca (l’iride ad aprire e chiudere), l’espressionismo esasperato delle movenze attoriali appaiono quasi filologici. In Dragula (1999) – tratto, come il precedente, dall’album Hellbilly Deluxe – Zombie alterna ancora una volta il discorso performativo e quello narrativo, facendo ricorso a immagini vintage (provenienti in parte dalla sitcom The Munsters: Dragula è il nome dell’auto del patriarca della famiglia protagonista): il registro è sporco e di studiata grana grossa (i continui zoom, i cromatismi ultra-saturi, i viraggi in negativo), ad accompagnare una corsa folle del Nostro sulla suddetta auto, in una fiammeggiante girandola visiva che incrocia il videogame. L’apparente marasma svela ancora una volta indovinati abbinamenti tra immagini campionate e cellule ritmiche, in un ricchissimo florilegio di riferimenti (appare anche il mostro di The Phantom Creeps, il film con Bela Lugosi del 1939 diretto da Ford Beebe e Saul A. Goodkind). L’esasperazione di un’effettistica basica e altisonante è, del resto, la costante dei suoi video: il centro dell’attenzione rimane l’icona dello Zombie performer, ma su di essa si scatena una miriade di fuochi d’artificio visivi che trovano con la musica un equilibrio sinestetico innegabile, come nel sulfureo Superbeast (1999), in cui Sheri Moon Zombie è un’eroina in moto che combatte con la katana i suoi nemici (robot e ninja) e dove la camera spastica ruota incessante – tra violente solarizzazioni, un’orgia di strobo e zoomate al parossismo – secondo una logica a tutti gli effetti coreografica. Le citate soluzioni sono dunque ricorrenti, variando i contesti orrorifici e le dinamiche di messa in scena: così il funereo Return of the Phantom Stranger (1999) prevede l’esibizione di Zombie e della sua band, in tuta scura con scheletro disegnato, in un cimitero di campagna, accompagnati all’organo dalla Morte incappucciata; il bianco e nero e l’immagine graffiata e consumata danno il senso di un filmato riportato alla luce, letteralmente riesumato. Per Spookshow Baby (1999), invece, il set di esibizione è uno scantinato in cui si celebrano riti satanici (la scritta gigante lampeggia esplicita: 666) con tutto il corredo di strumenti e presenze in tema, tra scheletri e corpi in decomposizione. Ma lo Zombie “tamarro” si alterna a prove in cui l’artista dimostra di saper gestire al meglio anche situazioni produttivamente più ambiziose e costruzioni sceniche molto raffinate: si prenda Never Gonna Stop (The Red Red Kroovy) (2001), in cui il kubrickiano Arancia meccanica (1971) viene declinato, secondo la filosofia low-profile del Nostro, in un tripudio scenografico che alterna le cromie cremisi a quelle blu e in cui i quadri si avvicendano con morbidezza plastica. O ancora Feel So Numb (2001), in cui gli spettacolini di un club rinviano a una rappresentazione ironica e metaforica dell’America: il movimento della pedana rotante al centro dello spazio scenico crea una suggestiva figurazione, combinata, come appare, alla danza dei fan e ai set in alternanza (i siparietti in camouflage). Con essi si confronta l’esibizione principale del gruppo sul palco, con la consueta back projection, in piano americano frontale con alchimie visuali a pioggia (il prediletto fish-eye, gli effetti mirror ed echo). Sono tutte soluzioni che il Nostro usa fin dai primi video per i White Zombie, ma il cui utilizzo magistrale sfiora oramai il virtuosismo. Le ultime sortite sembrano volere ripulire la messa in scena dai consueti armamentari, risultando automatismi produttivi meno inventivi, oggetti pensati in un’ottica più tradizionalmente promozionale; così Foxy Foxy (2006) scarta l’immaginario horror per una solare esibizione en plein air in una radura, mentre lo split screen mostra l’arrivo di un pubblico particolare che sembra essersi dato convegno attorno al palco: dalle auto escono infatti solo bellissime ragazze (tra cui l’immancabile Sheri Moon), che, da vari dettagli del vestiario (le T-shirt con l’immagine di Zombie), dimostrano di essere fan sfegatate del cantante, mentre le immagini di cavalli in corsa suggeriscono un’idea di vitalità e sfrenatezza liberatorie. Lo split screen domina anche in Sick Bubblegum (2010), che riproduce la situazione standard della sessione del gruppo in sala di registrazione, dal giorno alla notte, con crescente baldoria. L’ultimo video Dead City Radio and the New Gods of Supertown (2013) rivendica in apertura la griffe (A Film by Rob Zombie) e stilizza, in un iconico bianco e nero, mostri personali, meccanismi scenici consolidati e costanti tematiche mortifere tipici del suo immaginario, alternando set essenziali in cui l’ottica gioca con le figure poste su piani diversi. Sporadicamente il regista si è prestato a dirigere anche video per altri artisti, sempre nell’ambito del metal e dell’hard rock, mettendo il suo personalissimo stile al servizio di canzoni altrui: si veda la performance rallentata e le liquide immagini in acido del lisergico Rude Awakening (1996) dei Prong, la splendida fantasia optical di Tokyo Vigilante #1 (1997) dei Powerman 5000, tra i suoi migliori esiti di sempre, o l’esercizio di stile di Stillborn (2003) della Black Label Society, felicissimo distillato di zombiesca maniera (con cameo-griffe di Sheri Moon). È invece diretta con Norman Cabrera la fantasia cartoonesca di Haulin’ Hearse (1998) dei Ghastly Ones, con perfomance fantasmatica al cimitero in un bianco e nero sfigurato, tra peripezie della Morte alla guida di un carro funebre e vixen danzanti in odor di Russ Meyer. Per Ozzy Osbourne confeziona invece il più anomalo lavoro della sua videografia, rinunciando alla cinetica macchina da presa e costruendo, per la ballata lennoniana Dreamer (2002), un classico set performativo in interno, con l’intensa fotografia a esaltare il lucore delle candele, in opposizione all’altra performance in un paesaggio innevato e quasi fiabesco, tra bimbe-vampiro che giocano e nel finale gestiscono la languida sezione archi: tenerezze inaspettate di un gigione di talento.

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